di Rosa Ana De Santis

E’ arrivata la condanna a 16 anni di carcere per i manager  Stephan Schmidheiny e Louis De Cartier De Marchienne, in tempi diversi alla guida della holding svizzera dell’amianto. Alla lettura della sentenza, durata ore, i due imputati non erano presenti come in nessuna delle udienze precedenti. La legge li ha considerati colpevoli di disastro doloso e omissione di cautele antinfortunistiche, tutto quello che ha portato alle migliaia di morti - 2.191 per l’esattezza - dovute alla dispersione delle fibre d’amianto.

Al centro del processo gli stabilimenti di Casale Monferrato e Rubiera (i due cui si riferisce la sentenza) e quelli di Cavagnolo e Napoli-Bagnoli, per le cui condotte sono state invece prescritte le accuse. Un processo dall’eco internazionale che ha portato in aula un totale di 6.392 parti civili tra parenti delle vittime, associazioni e sindacati. I familiari avranno diritto ad un risarcimento tra i 30 e i 35mila euro. Lacrime e clamore intorno alle parole del giudice Giuseppe Casalbore, a capo del collegio, per una sentenza che è senza dubbio “paradigmatica”.

Per la prima volta una multinazionale paga caro il prezzo di aver esposto i lavoratori a pericoli serissimi di vita, come le morti per mesotelioma e altre patologie hanno dimostrato, non soltanto sottostimando l’entità del rischio, ma facendo addirittura opera di disinformazione, come argomentato nell’accusa dei pm. L’avvocato difensore, Alfonso D’Amato, ha recepito la sentenza esprimendo preoccupazione per le sorti degli investimenti in casa nostra.

Se il capo di una multinazionale - recita la tesi della difesa - è considerato responsabile di quanto accade negli stabilimenti periferici, sarà difficile che si decida di investire ancora in Italia. E’ proprio questo il valore sostanziale e simbolico, deve esser sfuggito alla difesa dei due baroni miliardari, che questa sentenza ribadisce, con evidenza e severità, inchiodando un colosso dell’economia alle proprie responsabilità e blindando con la legalità il principio morale che impone al di sopra del profitto la tutela dei diritti individuali e sociali, in primis la difesa della vita senza eccezioni.

Soddisfazione dalle Istituzioni locali, dalle sigle sindacali; sentenza “storica” la definisce il Ministro della Salute Balduzzi. Per una volta una battaglia sul lavoro ha visto unite le parti sociali, le ha viste tutte dalla stessa parte, quella delle vittime, per lasciare un’eredità giuridica che va in un’unica direzione possibile che non ammette sconti, né scorciatoie sulla pelle delle persone in nome di qualsivoglia business.

Le morti per amianto in Italia, peraltro, le dobbiamo ancora vedere visto che toccheranno l’apice tra il 2015 e il 2020:  troppe le persone che hanno lavorato tubature e derivati senza sapere il pericolo corso.

Sarebbe appropriato che questa sentenza illuminasse il corso di tante, troppe condizioni in cui chi lavora paga il risparmio dei vertici mettendo a repentaglio la propria sicurezza e incolumità, o gli scandali legati a un territorio contaminato e saccheggiato da condotte criminali per la salute di tutti. Qualche tempo fa andava in onda sulla tv di Stato uno spot progresso che invitava i lavoratori a volersi bene e a indossare le misure di sicurezza, per amore dei propri cari. Come se fosse una questione di scelta.

Per scegliere, ammesso che se ne abbia facoltà, si deve sapere. E non sapevano i lavoratori dell’Eternit che quel salario anticipava ogni giorno la loro condanna a morte, mentre rimpinguava i patrimoni dei due che, oggi finalmente, da magnati degli affari diventano per tutti solo dei condannati, perché colpevoli di migliaia di morti per sete di profitto.

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