di Elena G. Polidori

Solo oggi i quotidiani sono tornati in edicola dopo due giorni di sciopero dei giornalisti. Siamo a quota 13 giorni complessivi di sciopero che i giornalisti hanno dovuto sostenere nel tentativo di rinnovare il contratto di lavoro della categoria, scaduto da 586 giorni. E’ una vertenza difficile, la più complicata degli ultimi dieci anni, forse la più dura di sempre. In gioco non ci sono i privilegi di pochi giornalisti a contratto a tempo indeterminato e garantiti dalla solidità della testata di appartenenza. In gioco c’è la sopravvivenza della libertà di informazione che passa anche attraverso quella dei suoi operatori, che gli editori vorrebbero sempre più sottomessi e sottopagati. In gioco, ancora, c’è la possibilità di molti giovani aspiranti giornalisti a diventare tali, vedendosi riconosciuta la dignità di una professione che è una delle travi portanti della democrazia del nostro Paese, se non la principale. E non solo. Se i giornalisti hanno deciso di scioperare nuovamente (e altri due giorni sono programmati per il prossimo 5 e 6 ottobre) è perché gli editori si rifiutano categoricamente di riaprire la trattativa sul contratto di lavoro. Lo fanno perché vogliono che il contratto attualmente in vigore (anche se scaduto) non esista più. Vogliono sfasciare le redazioni dei giornali introducendo nuove forme di flessibilità e di precariato, comprese quelle della legge Biagi, in una categoria che già oggi si divide tra novemila che vivono di lavoro “autonomo” (reddito medio 7 mila euro l’anno) e 8 mila e 500 giornalisti contrattualizzati. Vogliono colpire il sistema previdenziale dei giornalisti, per renderli più ricattabili e costringerli ad accettare contratti da metalmeccanico o, peggio, una remunerazione offensiva “a pezzo” che in alcune situazioni sfiora i 2 euro e mezzo. Vogliono, insomma, avere le mani libere sull’informazione pagando “ad personam” solo quei giornalisti che rispondono ai loro diktat e si fanno servi dei padroni pur di continuare a sentirsi chiamare direttore ed avere uno stipendio garantito. Vogliono, insomma, solo giornalisti malpagati e, dunque, ricattabili perché senza garanzie. E’ quindi un conflitto che investe direttamente la professione giornalistica, ma anche il fulcro della libertà di stampa, elemento costitutivo della democrazia che, quando si tratta di potere e denaro, è una parola che agli editori sta sempre molto stretta.

Tale è la gravità della situazione, che giovedì scorso è sceso in campo a favore dei giornalisti anche il Capo dello Stato. Le parole di Napolitano sono state forti, quasi perentorie . “Tra i diritti primari dei giornalisti - ha detto il Capo dello Stato – c’è quello di vedere rinnovato il contratto di lavoro, ma con molto rammarico purtroppo il tentativo del governo di riaprire le trattative senza chiusure pregiudiziali e senza intransigenze è andato fallito. Mi permetto di incoraggiare il ministro del Lavoro ad insistere nel suo sforzo e mi auguro, per davvero, che si possa giungere presto ad una soluzione soddisfacente, anche nell'interesse del regolare svolgimento dell'attività dell'informazione. E’ un’urgenza primaria”. Un richiamo che, in altri tempi, avrebbe smosso qualsiasi reticenza e convinto tutti della necessità di proseguire nel dialogo tra le parti. Ma non è stato così. Ci sono state testate che, in barba al monito del Quirinale (e, di fatto, dimostrando totale disprezzo per le parole della più alta carica dello Stato ) hanno inteso proseguire sulla strada dell’arroganza e del diritto a violare ogni regola facendo comunque uscire i giornali. Per denaro, solo per denaro. Una dimostrazione di forza che nasconde, dietro la miserevole ricerca di guadagno facile, anche la chiara volontà di ricattare il governo su un altro aspetto, ben più importante per gli editori del contratto dei giornalisti: i fondi statali per l’editoria già tagliati dal governo Berlusconi perché considerati esosi rispetto ad alcuni fatturati delle principali aziende editoriali e ora divenuti il vero elemento di pressione per far riavviare il tavolo della trattativa, auspice il ministro del lavoro Damiano.
C’è da dire che, a parte alcune sporadiche pecore nere dell’arroganza, i recenti due giorni di sciopero possono considerarsi un successo sotto il profilo dell’adesione della categoria. Le parole di Napolitano sono infatti riuscite a ricompattare, rinfrancare e incoraggiare - almeno momentaneamente - una categoria stressata, stanca e disincantata davanti alle effettive possibilità di una ripresa del dialogo. Anche Il Manifesto, giornale edito da una cooperativa di giornalisti e gravato da pesanti scadenze economiche, ha comunque deciso di aderire ad almeno una delle giornate di sciopero. E anche Il Riformista , giornale che non ha mai conosciuto rivendicazioni sindacali fino a quando è stato direttore l’attuale parlamentare della Margherita, Antonio Polito, con la neo direzione di Paolo Franchi ha ritrovato la forza per lottare per il contratto di tutti i giornalisti e ha scioperato. Eppure non si muove niente. Ancora ieri sera, un ennesimo tentativo del ministro Damiano di portare nuovamente al tavolo della trattativa la rappresentanza degli editori, la Fieg, è stato respinto con forza. E’ un segnale inquietante.

Se i titolari delle imprese editoriali continueranno a negare non solo il diritto alla contrattazione, ma anche il diritto al confronto tra parti sociali, anche in spregio del richiamo del Presidente della Repubblica, sarà forse necessario aprire una seria e severa riflessione sul venir meno di una funzione fondamentale degli editori, avviati verso la via, pubblicamente insostenibile, dell’irresponsabilità sociale. Che, quando si tratta di informazione, diventa davvero un pericolo primario per la democrazia. La tutela di un bene ineludibile quale il lavoro svolto dai giornalisti per la formazione dell’informazione e, quindi, della coscienza pubblica, dovrebbe esigere in tutti, in particolare nel governo, considerazioni speciali nella consapevolezza che la concertazione sia una opportunità, non un intralcio per il progresso civile e economico di una democrazia fondata sul lavoro e la giustizia sociale. Ma sono riflessioni che gli editori non vogliono sentire. O, forse, non le capiscono neppure, ottenebrati da guadagni pubblicitari che prescindono dalla qualità dell’informazione e continuamente a caccia di uno sponsor politico che li metta in condizione di guadagnare sempre di più spendendo sempre di meno.

Per raggiungere il loro obiettivo definitivo, ovvero pubblicare carta straccia zeppa di pubblicità con poche informazioni gestite da giornalisti sottomessi e gravati dalla precarietà, non gli resta che affondare il contratto di lavoro della categoria. I giornalisti, comunque, non mollano. Napolitano neppure. Un dato su cui gli editori dovrebbero cominciare a riflettere.

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