Il due maggio del 1970, all'università di Kent, in Ohio, era stato dichiarato lo stato d' emergenza. Gli studenti avevano occupato l'edificio in segno di protesta contro l'invasione della Cambogia, paese non belligerente, voluta da Richard Nixon. Il 30 aprile il presidente americano aveva fatto un'apparizione improvvisa sugli schermi televisivi con una bacchetta di legno in mano, indicando su una carta geografica i paesi disobbedienti. Una grande smargiassata che aveva inasprito gli animi dei pacifisti. Il giorno successivo nei campus universitari il risentimento contro la guerra era aumentato. La Kent State University, in Ohio, assai meno famosa delle celeberrime Yale o Harvard, aveva comunque aderito alla protesta. La sera del primo maggio gruppi di studenti erano andati in città e manifestato pacificamente. Non si è mai saputo come, ma gli eventi erano precipitati sfociando in scontri con la polizia locale.


Alle otto del mattino successivo il sole era già alto sul campus e si annunciava una bella giornata primaverile. Un piccolo gruppo di studenti si era diretto verso la collinetta erbosa da sempre usata come luogo di ritrovo per manifestazioni e seppellito una copia della Costituzione per simboleggiare la distruzione di ogni diritto da parte di Nixon. Per il 4 maggio era stato organizzato un raduno più grande nella Taylor Hall, l'edificio che fungeva da aula magna nell'ateneo di Kent, e sarebbero state presidenti almeno duemila persone. Ma il governatore dell'Ohio, Rhodes, era un individuo alquanto emotivo e terrorizzato dall'ipotesi di altri disordini. Al punto da chiedere l’ìntervento della Guardia Nazionale prima ancora che il raduno avesse inizio. Anche il sindaco della città di Kent, LeRoy Sutrom, un ingegnere prestato alla politica, chiedeva l'intervento della forza pubblica. Giravano voci secondo cui i rivoluzionari radicali non si sarebbero fermati davanti a niente.
Per non far torto a nessuno, governatore e sindaco aveva lanciato strali contro nazisti e comunisti. Era scoppiato un piccolo incendio in uno dei locali dell'università e tanto bastò per dare il via ad un'entrata plateale della polizia nel campus. C'erano stati tentativi da parte degli studenti per un incontro con il sindaco rifiutato drasticamente. Prima di mezzogiorno del quattro maggio gli agenti di sicurezza del campo avevano lanciato coi megafoni l'ordine di disperdere gli assembramenti. Splendeva un bel sole e alcuni ragazzi si erano seduti sull'erba a bere. La polizia entrata dalla sera prima avanzava minacciosamente costringendo gli studenti a spostarsi. Erano arrivati anche i reparti a cavallo. S'era fatta una grande confusione.
Un lancio di gas lacrimogeni aveva appestato l'aria. Chrissie Hynde, futura (e sublime) leaders dei Pretenders, che studiava a Kent, disse di aver sentito all'improvviso il rumore degli spari. Poi il silenzio e la voce disperata di un ragazzo che aveva visto qualcuno morire. Le guardie andavano avanti ed indietro sui sentieri del campus. Alcuni agenti arrivati in cima ad una collinetta si erano messi a sparare senza un bersaglio preciso. Le pallottole finivano nel terreno e sorvolavano le siepi. Un colpo raggiunse Joseph Miller all'addome che si salvò per miracolo. Un altro ragazzo, James Russell, fu ferito alla coscia e alla testa ma anche lui riuscì a cavarsela. In 13 secondi i poliziotti ferirono gravemente nove studenti. Si formò una processione di ambulanze. Volavano fischi e pietre ma la cosa più preoccupante erano le pallottole vaganti.
Dean Khaler fu colpito alla parte bassa della schiena e non avrebbe più camminato. Allison Beth Krause morì verso sera. Krause era nata a Cleveland 19 anni prima. C'è una poesia intitolata Alison, scritta da Yvetushenko, che aveva conosciuto la ragazza a Kent. Lui era consulente dell'ateneo e Krause si era appena iscritta all'università. Il giorno prima di essere uccisa aveva messo un fiore la canna del fucile dell'uomo che 24 ore dopo le avrebbe tolto la vita. Sulla Blanket Hill, una collinetta che faceva parte del campus, fu messa una foto di Allison in piedi con i bellissimi capelli mossi dal vento. Il braccio sollevato e un dito alzato in segno di sfida. A 300 metri dalle guardie Sandra Schroer cercava di ripararsi dai colpi. Non ci riuscì. Un'ora dopo morì dissanguata. Un proiettile le era entrato nel collo tranciandole la giugulare.
Harvey Andrews, cantautore inglese, le dedicò il brano Hey, Sandy! e c'è ancora una sua foto nella hall dell'università. Sandy stava andando verso la sua stanza e fu il suo ragazzo, Tom Grace, a raccoglierla prima che arrivassero i soccorsi.

Gerald Casale, poi frontman dei Devo, studiava a Kent. Disse che fu la fortuna a salvarlo. Ma disse poi che quel giorno aveva cambiato per sempre la sua vita. Ricorda le urla e la paura, il sangue che colava sull'asfalto e il fumo dei lacrimogeni. Elaine Holstein era la madre di Jeffrey Miller, ucciso da un proiettile in bocca. Fu una voce alla radio ad informarla che Jeffrey era morto. Elstein era l'ultima rimasta di tutti i genitori coinvolti nella tragedia di Kent. Aveva 96 anni il giorno della morte. William Schoreder morì un'ora dopo essere stato colpito da un fucile semi-automatico sul campus di Kent. Aveva ricevuto una borsa di studio che gli aveva permesso di iscriversi a Kent, senza sapere che gli sarebbe costata la vita, Dopo la tragedia l'università fu chiusa per sei settimane. Il rettorato fece un tour de force per permettere agli studenti di completare gli esami di giugno. Ma nessuno sarebbe stato mai in grado di lavare via le ferite di quel maledetto giorno.
Dieci giorni dopo la polizia uccise altri due studenti dell'università di Jackson, in Mississippi. Philip Gibbs e James Green erano afro americani, una bella differenza nell'America di allora. Non si è mai stato saputo con certezza chi abbia sparato a Kent come a Jackon. A raffigurare la tragedia di Kent e fissarla nell'immaginario collettivo fu la foto di una ragazza che urla disperata davanti al corpo senza vita di Jeffrey Miller. Era una quattordicenne fuggita da casa che aveva dormito di nascosto nel dormitorio dell'università. Quella foto portò fortuna e non solo a Mary Jo Vecchio, che a soli 14 anni divenne l'emblema stesso della protesta contro la guerra del Vietnam. L'autore della foto, John Filo, vinse il premio Pulitzer con quello scatto. L'immagine di Vecchio apparve sulle copertine di Time, Newsweek, People, ecc. Ancora oggi compare sulle T-shirts che ricordano il 4 maggio 1970.
Tra pochi giorni sarà il cinquantesimo anniversario della tragedia di Kent. Erano state organizzate una quantità immane di manifestazioni, mostre, proiezioni. Purtroppo le restrizioni dovute all'allarme COVID non permetteranno nessuna di queste cose. Gli impagabili Neil Young, Crosby e Nash scrissero un brano sulla strage di Kent in cui si parla di soldati di latta, con un ritornello in cui spicca, freddo e distaccato, il nome di Richard Nixon che fece reprimere la protesta. Quel brano, che è un inno al coraggio, si chiama Ohio e nessuna nota è andata sprecata in 50 anni. Il 4 maggio era previsto un intervento di Jane Fonda che nel 1970 contestava il sistema. Gli organizzatori sono stati inflessibili. Il COVID è una minaccia reale e non sarebbe saggio celebrare commemorazioni che mettono a repentaglio la salute pubblica. Un contrattempo provvidenziale per annullare un anniversario importante per le vecchie generazioni come per le nuove. Al COVID ci dobbiamo arrendere fino a quando non sarà trovato un rimedio per sconfiggerlo. Ma la tragedia di Kent dopo 50 anni ci ricorda che arrendersi alla logica della violenza senza aver lottato è il peggior castigo.

 

 

 

 

 

 

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