La prima visita in India da presidente degli Stati Uniti di Donald Trump è stata accompagnata questa settimana da un’accoglienza apparentemente calorosissima e, allo stesso tempo, da tensioni nemmeno troppo latenti, che hanno evidenziato sia l’importanza della partnership strategica in piena evoluzione tra Washington e Delhi sia il persistere di una serie di contese tutt’altro che trascurabili. Il presidente americano e il primo ministro indiano, Narendra Modi, hanno ostentato un’indubbia sintonia a livello personale e politico, ma l’entusiasmo che è sembrato trasparire nelle giornate di lunedì e martedì riflette soprattutto l’importanza attribuita alle relazioni bilaterali dalle classi dirigenti dei due paesi per la promozione dei rispettivi interessi su scala regionale e globale.

Numerosi commentatori hanno ricordato come la trasferta indiana di Trump sia stata anche un evento elettorale. La popolazione di origine indiana negli Stati Uniti ammonta a circa quattro milioni, è cresciuta del 38% tra il 2010 e il 2017 e vanta un peso economico e politico sempre più rilevante. Il New York Times ha spiegato inoltre che nella comunità indiano-americana figurano non pochi finanziatori del presidente repubblicano, molti dei quali provenienti dallo stato di Gujarat, base di potere del premier Modi e prima destinazione del viaggio di Trump.

Decisamente più importante è stato però l’obiettivo della Casa Bianca di ribadire e rafforzare il legame con Delhi, dopo che negli ultimi sei anni il governo Modi ha impresso una svolta decisiva alle priorità strategiche dell’India. Modi e il suo partito (BJP) hanno raccolto e accelerato le prime nuove indicazioni di politica estera del Partito del Congresso, integrando l’India, sia pure tra contraddizioni e resistenze, nei piani asiatici americani diretti al contenimento della Cina.

Sull’identità di vedute tra Washington e Delhi ha così insistito Trump nei suoi interventi pubblici e, ancor più, nel celebrare il trionfo delle democrazie americana e indiana. Un’esaltazione, quella delle proprie credenziali democratiche e del governo Modi, che ha peraltro poca o nessuna aderenza con la realtà dei fatti. L’esecutivo indiano di estrema destra, guidato da un politico con oscuri precedenti da probabile facilitatore di sanguinosi pogrom anti-musulmani, è oggetto di condanne e manifestazioni di protesta in questi mesi, in particolare per due iniziative profondamente anti-democratiche.

La prima è la recente legge che modifica le norme sul riconoscimento della cittadinanza indiana e che discrimina in maniera pesantissima la popolazione di fede musulmana. Ripetute dimostrazioni anti-governative sono andate in scena in vari stati dell’India nelle ultime settimane e anche nel corso della visita di Trump si sono registrati scontri con la polizia. A Delhi è esplosa la violenza contro gli indiani musulmani, con un bilancio provvisorio addirittura di 13 morti e oltre 150 feriti tra lunedì e martedì.

L’altra misura che pesa su Modi e gli ambienti fondamentalisti indù dietro al BJP risale alla scorsa estate e consiste nella cancellazione unilaterale dell’autonomia garantita dalla Costituzione allo stato di Jammu e Kashmir, l’unico a maggioranza musulmana di tutta l’India. La decisione di Modi era stata seguita da una dura repressione contro ogni genere di resistenza e da restrizioni delle comunicazioni e di molte altre attività dello stato che solo recentemente sono state in parte allentate.

Massicce manifestazioni di protesta sono andate in scena anche contro le politiche economiche del governo Modi, fatte di austerità e “riforme” del mercato del lavoro in senso ultra-liberista. L’8 gennaio scorso, ad esempio, uno sciopero generale in tutto il paese aveva coinvolto decine di milioni di lavoratori. L’arrivo di Trump in India è stato sfruttato perciò dal primo ministro per esibire il buono stato dei rapporti del suo paese con la prima potenza del pianeta e provare a recuperare una parte di consensi tra la popolazione indiana, al di là della classe media e imprenditoriale che continua ad appoggiarlo a larga maggioranza.

Il valore dell’India per gli Stati Uniti è facilmente spiegato se si pensa alla posizione di questo paese gigantesco all’incrocio di rotte navali e terrestri che collegano il vicino oriente e l’Europa con l’Asia centrale e orientale. La Cina è poi un elemento fondamentale della partnership indo-americana. Mentre per Washington l’India rappresenta un contrappeso all’espansionismo cinese, rafforzato dalle dimensioni territoriali e dal possesso di ordigni nucleari, Delhi intende puntare sull’alleanza con gli Stati Uniti per avanzare ambizioni economiche e militari da grande potenza, nel tentativo di ridurre le differenze tra il proprio livello generale di sviluppo e quello di Pechino.

I legami tra India e Stati Uniti hanno dato una vera e propria scossa agli equilibri della regione, non solo in relazione alla Cina. La partnership strategica festeggiata da Trump e Modi ha infatti aggravato anche le tensioni tra India e Pakistan, con quest’ultimo paese che ha visto a sua volta peggiorare la qualità dei rapporti con Washington, rimediati in parte solo di recente, e rilanciare invece di riflesso la storica alleanza con la Cina.

Dopo il bagno di folla nella città di Ahmedabad lunedì, Trump e Modi hanno discusso delle questioni più calde martedì a Delhi. Gli argomenti su cui hanno concentrato l’attenzione i media indiani e internazionali sono stati soprattutto le frizioni commerciali e la stipula di nuovi accordi per la fornitura di armi americane all’India. Su quest’ultimo fronte, Trump ha annunciato la firma di contratti per oltre tre miliardi di dollari.

Il capitolo armamenti non ha un risvolto soltanto economico, comunque rilevantissimo visto il livello di spesa dell’India nell’ultimo decennio, ma anche e soprattutto strategico. Infatti, Delhi ha dai tempi della Guerra Fredda un rapporto privilegiato con la Russia in questo ambito. Gli sforzi americani hanno dato comunque solo alcuni dei frutti sperati, dal momento che per ora, nonostante la minaccia di sanzioni, il governo Modi non ha mostrato alcuna intenzione di rinunciare all’acquisto del sofisticato sistema di difesa anti-aereo russo S-400, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti.

Sul piano militare, Washington ha fatto ad ogni modo passi importanti per coinvolgere l’India nei propri piani asiatici. Delhi ha accettato di partecipare ad esempio al “dialogo strategico” quadrilaterale, che include Giappone e Australia, oltre naturalmente agli USA, quasi esclusivamente in funzione anti-cinese. Negli ultimi anni, India e Stati Uniti hanno inoltre siglato vari accordi militari, mentre altri sono in fase di studio, che hanno intensificato le relazioni e gli scambi tra le rispettive forze armate, consentendo sempre più una presenza militare “temporanea” americana sul territorio o nelle acque del paese asiatico.

Per quanto riguarda lo scontro innescato dalla guerra commerciale lanciata dall’amministrazione Trump, il vertice tra i due leader non ha prodotto invece risultati degni di nota. L’auspicio della Casa Bianca era di annunciare un qualche accordo, anche parziale o preliminare, durante la visita del presidente, ma egli stesso ha dovuto alla fine ammettere che le trattative per un accordo di libero scambio sono ancora “alle battute iniziali”.

Il dissidio in ambito commerciale si era aggravato lo scorso mese di giugno con la decisione americana di cancellare lo status preferenziale accordato ad alcune importazioni dall’India. Il valore economico dell’iniziativa non era enorme, ma altro discorso andava fatto per quello simbolico, tenendo in considerazione soprattutto che Washington intendeva fare pressioni su Delhi per cancellare i dazi imposti su decine di prodotti importati dagli Stati Uniti.

Non solo, la misura sembrava un’accelerazione della strategia americana volta a sganciare l’India dai legami economici, militari ed energetici consolidati con paesi rivali di Washington. Primo fra tutti l’Iran, da cui l’India importava e continua a importare petrolio, anche se in misura ridotta, malgrado la reimposizione delle sanzioni USA. Tutti questi nodi restano da sciogliere e non ci sono indicazioni concrete che la visita di questa settimana di Trump in India abbia contribuito a farlo.

In generale, il persistere di una certa ruggine tra i due paesi, a fronte di un riallineamento strategico inequivocabile, è il riflesso di almeno due fattori intrecciati tra loro. Da un lato, una parte della classe dirigente indiana vede con sospetto l’abbraccio con Washington, non tanto per reminiscenze da Guerra Fredda, quando il “non allineamento” di Delhi si risolveva nel concreto con l’instaurazione di solidi rapporti con Mosca, quanto per il rischio di perdere le opportunità di crescita offerte da un’eventuale apertura alla Cina e dall’integrazione euro-asiatica in atto sotto forma di “Nuova Via della Seta”.

Dall’altro, non pochi in India ritengono rischioso, se non controproducente, puntare tutte le carte su una potenza che continua a mostrare segni inquietanti di un’avanzata involuzione ultra-nazionalista e anti-democratica e che, in ultima analisi, risulta minacciosa per i suoi stessi alleati se questi ultimi mostrano di voler conservare anche solo un minimo di indipendenza nella gestione della propria politica estera.

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