Il 23 dicembre è stata presentata dal Governo al Parlamento la “Prima relazione sullo stato di attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e resilienza (PNRR)”, che “dà conto – come afferma Draghi nella premessa - dell’utilizzo delle risorse, dei risultati raggiunti e delle eventuali misure necessarie per accelerare l’avanzamento dei progetti”. Si tratta dell’utilizzo della prima rata di rimborso (pari a 24,1 miliardi di euro) del finanziamento complessivo del PNRR previsto dalla Commissione Europea per il nostro paese, pari a 191,5 miliardi di euro (68,9 in sovvenzioni e 122,5 in prestiti).  Una cifra senza precedenti, mai neppure immaginata. Un atto importante che dovrebbe essere conosciuto, discusso, non solo dagli staff tecnici dei Ministeri ma dall’opinione pubblica, dalle cittadine e dai cittadini. Ma che non è così.

La relazione giunge a dicembre, nello stesso periodo in cui la pandemia presenta una nuova ondata, con la nuova variante Omicron, quando  riprendono drammaticamente i contagi, i ricoveri, i morti. Gli ospedali si trasformano, saltano tutti gli standard di qualità e appropriatezza, vengono accettati solo malati covid e tutti gli altri sono costretti a rimandare o sospendere tutte le prestazioni, le cure, gli interventi chirurgici. Malati oncologici vengono rimandati a casa, saltano i tempi stabiliti dagli screening oncologici, causando effetti che si manifesteranno negli anni a venire. Gli interventi di sanità pubblica si riducono ai soli programmi di vaccinazione, i programmi di umanizzazione delle cure sembrano ormai solo capitoli di fantascienza, l’affettività e la dignità della vita dei malati diventano variabili non pervenute. Gli operatori sono esausti ma non possono essere sostituiti perché le assunzioni non sono arrivate né arriveranno.

Lo spaesamento è forte. Sofferenza, paura, vulnerabilità, solitudine, rabbia. E la crisi morde. Non si intravvede la fine del tunnel.

Anche i dati pubblicati a dicembre dall’ISTAT sull’occupazione per l’anno 2021 confermano la drammaticità della realtà, nonostante qualche pretesa di miglioramento. Sono stati  infatti recuperati 650.000 posti di lavoro, ma per il 60% sono precari. E ne mancano ancora 286.000 rispetto al periodo pre-covid.  Siamo 22,7 milioni di occupati ma nel 2019 eravamo 23 milioni.  In due anni è stato perso quasi mezzo milione di posti di lavoro e soltanto tra novembre e dicembre di quest’anno si sono perse 24.000 unità di lavoro stabile.  Il lavoro a tempo determinato è il 13,5% degli occupati, mentre era il 10%. Siamo arrivati al record storico per i lavori precari: 3 milioni e 77.000, aumentati di 384.000. Come dice la CGIL – e come aveva già detto insieme alla UIL nello sciopero generale dei mesi scorsi, tanto giusto quanto  deriso o comunque non difeso dai partiti della maggioranza di governo – “mentre il PIL cresce più del 6%, il lavoro cresce tre volte meno”. Per i giovani l’occupazione sta diventando solo un auspicio: sono solo il 23% degli occupati, erano il 30%. E poi il capitolo “genere” è iscritto nelle vergogne della politica: una donna su due non lavora, il tasso di occupazione è 50,5%, quello nella fascia tra 25-34 anni è il più basso d’Europa, mancano 61.000 occupate e cresce il numero delle lavoratrici che abbandonano o perdono il lavoro una volta diventate madri, 96.000 donne, quattro su dieci con figli che hanno meno di cinque anni. Cinque donne su dieci dichiarano che le loro entrate sono diminuite e che quindi sono ancora dipendenti dalla famiglia, dal partner. Il part time, come lo smart working,  è diventato per le donne obbligatorio.

Il tema dell’occupazione denuncia non le smagliature, bensì le profonde storture  di questo sistema.  E’ una gigantesca emergenza, che bisogna rendere visibile, quella del lavoro, della qualità, della dignità, della sicurezza del lavoro.  Ormai gli omicidi sul lavoro (perché di questo si tratta, non di incidenti) sono diventati una mattanza. Muoiono in fabbrica anche gli studenti, come Lorenzo Parelli, nell’ultimo giorno del periodo di alternanza scuola-  lavoro.

E’ tempo di aggiornare la narrazione e la relazione di Draghi, la discussione sul PNRR,  è in questo contesto che va collocata, di fronte a quello che la lezione del covid ha dimostrato ma che viene dimenticata.

Il covid ci ha dato ragione- abbiamo detto in tante e in tanti, femministe, movimenti ambientalisti, associazionismo di realtà sociali. Il covid ha svelato l’incapacità delle nostre società, delle nostre istituzioni, dei nostri sistemi di protezione sociale  e dei diritti del lavoro ad affrontare quella che era l’emergenza vera, oltre l’emergenza sanitaria, cioè i bisogni della vita, della concretezza della vita, della cura della vita. Ha svelato evidenze fino ad allora colpevolmente rimosse, considerate come ideologia, faziosità. Che le politiche liberiste dei tagli, della precarizzazione, dello smantellamento del welfare, sono state un fallimento, che le politiche liberiste e il paradigma del profitto sono incompatibili con la vita.

Il covid ha rimesso al centro il tema delle disuguaglianze, il tema della crisi climatica, drammatica, che resta senza critica coerente con questo modello di produzione e di consumo che distrugge gli ecosistemi e produce sfruttamento degli animali e delle persone. Il covid ha fatto tornare prioritario il tema del genere, come categoria politica,  il tema antico ma sempre accantonato del rapporto tra produzione e riproduzione, della divisione sessuale del lavoro.  Ha messo in evidenza il nesso tra liberismo e patriarcato, il nesso strettissimo tra politiche liberiste che hanno smantellato il welfare e la cultura patriarcale, che condanna le donne al destino biologico, al ruolo naturale all’interno della famiglia tradizionale dentro il welfare sempre più familistico.

Ma la lezione del covid non è stata ascoltata e continua a non essere ascoltata. Tornano le solite ricette, non cambiano i paradigmi. E tutto questo nel PNRR è evidente. Avrebbe potuto e dovuto essere una grande straordinaria occasione, per correggere le cause di questa crisi, per aggredire le criticità strutturali, per un cambiamento. Invece il Piano è senza visione, manca un’idea strategica, manca anche la consapevolezza delle cause dei questa crisi. Non è occasione di cambiamento, bensì di conservazione. Mentre si evoca la promozione dell’occupazione femminile, si investe di più proprio nei settori dove l’occupazione femminile è più scarsa e non  viceversa nei settori dove è più alta, come i servizi, o la scuola. Il capitolo delle infrastrutture è considerato solo quello delle grandi opere e non invece quello delle infrastrutture sociali, intese come servizi alla persona, per i bambini, per gli anziani, che sono le vere azioni per liberare le donne dall’obbligo del lavoro di cura.  E in generale, rispetto ai numerosissimi progetti, oltre due terzi degli investimenti previsti (107 su 162) sono sotto il miliardo di euro. Come è stato detto, “è uno sgocciolìo di risorse”, un po’ qua, un po’ là, senz’anima.

Ma vediamo più precisamente cosa prevede il PNRR. Per ricevere le risorse complessive di 191 miliardi (che arrivano a 235 miliardi con altri fondi europei), l’Italia deve presentare, così come ogni altro stato membro, un piano di investimenti e riforme alla Commissione Europea e ricevere da quest’ultima un parere positivo. Il giudizio della Commissione dipende da diversi elementi, tra cui i vincoli di destinazione delle risorse, che richiedono ai paesi membri di destinare rispettivamente il 37% e il 20% delle risorse a misure che contribuiscono alla transizione verde e alla transizione digitale. Altro elemento da rispettare è il principio del “do not significat harm”, che richiede agli stati membri di non inserire nei propri piani progetti che possano arrecare un danno significativo all’ambiente.

I progetti per i 191,5 miliardi di euro sono 142. I ministeri con più progetti e risorse sono quelli delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili e della Transizione ecologica. Le risorse sono distribuite in 10 rate fino al 2026.

La Commissione valuta due volte ogni anno (a giugno e a dicembre) quanto realizzato, pena la sospensione dell’erogazione. Le missioni del PNRR sono 6 (digitalizzazione e innovazione; transizione verde ed ecologica; infrastrutture per la mobilità sostenibile; istruzione e ricerca, inclusione e coesione; salute) e 3 sono gli “assi strategici”: digitalizzazione e innovazione; transizione ecologica, inclusione sociale. Le “priorità trasversali” (aggiunte solo dopo proteste e critiche) sono tre: parità di genere; giovani; sud. Nel PNRR sono fissate 527 “condizioni” da realizzare,  suddivise in traguardi qualitativi (“milestones”) e obiettivi quantitativi (“targets”)  da rispettare: questi “paletti” risultano importanti, perché l’erogazione delle rate semestrali è condizionato al soddisfacimento di tali condizioni.

Da subito sono state evidenziate alcune fondamentali criticità, prima fra tutte quella che, sebbene i finanziamenti per il PNRR siano disponibili solo temporaneamente, molti degli interventi previsti comporteranno un aumento permanente delle spese di gestione (ad esempio, per l’assunzione di personale). Ma nulla in questo senso viene garantito. Nessuna previsione di aumento della spesa corrente è prevista. Si prevedono insomma ferrovie ma non treni. Si prevedono ospedali ma non infermieri. Si prevedono asili ma senza educatori. Si prevede la riforma per gli anziani non autosufficienti, ma nella finanziaria il fondo è soltanto di 100 milioni.

Inoltre per alcuni ambiti le risorse previste sono del tutto al di sotto delle necessità o delle attese, come per la  Ricerca. In Italia la spesa per ricerca e sviluppo è molto bassa. Per raggiungere il livello francese, l’Italia avrebbe bisogno di 5 miliardi addizionali annui. Se per i prossimi sei anni (2021-2026) si volesse finanziare questa somma con il PNRR, la ricerca dovrebbe ricevere 30 miliardi. Per raggiungere il livello tedesco servirebbero 10 miliardi addizionali ogni anno. Il PNRR del governo Draghi prevede invece uno stanziamento complessivo di 12,9 miliardi su sei anni.

Il “piano asili nido” è uno degli interventi più importanti del PNRR: con 4,6 miliardi previsti è il settimo investimento per importo stanziato. Il piano ha subito diverse modifiche nel corso del 2021, sotto la spinta e la critica soprattutto di associazioni femministe. Prevedeva la creazione di 228.000 posti, di cui 152.000 per asili nido (bambini con età tra 0-3 anni) e 76.000 per le scuole d’infanzia (3-6 anni).

Nella versione definitiva si prevede invece la creazione (entro il 2026) di 264.480 posti. Ma resta una criticità forte, quella di non distinguere tra posti in asili nido e scuole d’infanzia. Ma mentre il tasso di partecipazione scolastica nelle scuole d’infanzia e 91%, superiore alla media europea, quello di partecipazione agli asili nido è al di sotto dell’obiettivo del 33%  stabilito dal Consiglio Europeo nel 2002. Inoltre esistono importanti divari territoriali tra le regioni del nostro paese, il Sud presenta tassi di copertura ben inferiori a quelle del Centro-Nord. Ma il PNRR non permette di stabilire se tali disuguaglianze verranno attenuate, perché le condizioni da rispettare riguardano l’intero territorio nazionale senza differenziazioni regionali.

Come indicato nella relazione al Parlamento, rispetto all’anno 2021 l’Italia ha rispettato l’impegno a conseguire tutti i primi 51 obiettivi, ha presentato quindi la domanda di pagamento della prima rata di rimborso, pari a 24,1 miliardi di euro.

Nel 2022 l’Italia dovrà invece rispettare 100 condizioni, di cui 83 traguardi qualitativi e 17 obiettivi. Tra le principali condizioni vi sono l’approvazione del nuovo codice dei contratti pubblici, il passaggio parlamentare della legge sulla concorrenza, la riforma dell’istruzione primaria e secondaria, l’istituzione di un sistema di certificazione della parità di genere e dei relativi meccanismi di incentivazione per le imprese, le disposizioni per combattere l’evasione fiscale e pianificare la spending review nel triennio 2023-2025.

Ed è il capitolo delle “riforme” previste quello che più palesemente svela l’approccio ideologico del PNRR, tecnocratico e liberista. Il provvedimento sulla concorrenza, che ha la prima scadenza fissata a fine 2022, ne è l’esempio più eclatante. Si tratta di un’idea molto ben strutturata fin dal 2011 dall’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, quando insieme al Presidente della Banca Centrale Europea Jean-Claude Trichet scrisse la famosa lettera al governo italiano indicando come ineludibili le "privatizzazioni su larga scala" in particolare della "fornitura di servizi pubblici locali".

Oggi Draghi è il Presidente del Consiglio e può decidere di scrivere  nel PNRR esattamente la stessa ricetta. Infatti  l’articolo 6 del provvedimento sulla concorrenza, previsto dal PNRR, toglie espressamente la titolarità degli enti locali  rispetto ai servizi pubblici locali, affidandoli al mercato. Nonostante il fallimento delle privatizzazioni, nonostante la palese diminuzione della qualità del servizio con la gestione privatistica, gli enti locali dovranno “giustificare” (è scritto esattamente così) il mancato ricorso al mercato. E dovranno persino dimostrare il perchè di altra scelta, sottoponendola al giudizio dell’Antitrust.

Il paradosso è che, in nome della concorrenza, il modello è quello delle grandi società multiservizi, quelle quotate in Borsa e che diventeranno i soggetti monopolisti praticamente per sempre. Gli enti locali - a cui sono affidati investimenti del PNRR con risorse pari a un terzo del totale, di 66 miliardi di euro-  diventeranno di fatto esecutori della spoliazione della ricchezza pubblica.

Il ddl sulla concorrenza va letto poi insieme al provvedimento sull’autonomia differenziata, voluto anch’esso da Draghi. E’ il combinato disposto tra  questi provvedimenti e il PNRR che delinea un passaggio di fase, di eccezionale portata. Si tratta non più solo di aumentare la privatizzazione dei servizi, ma di un vero e sostanziale cambio di modello. Salta il modello pubblico universalistico e si spalancano le porte ai mercati assicurativi. Il PNRR diventa il grimaldello per politiche costituzionalmente eversive.

Di questo credo che si debba discutere. Una relazione al Parlamento sull’attuazione del PNRR non è una discussione che riguarda i tecnici, ma chiama in causa la responsabilità della politica e la mobilitazione, anzi il conflitto, delle parti sociali. Non c’è neutralità nelle scelte tecniche e Draghi è infatti il rappresentante più autorevole della tecnocrazia liberista.  

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