La decisione presa questa settimana dall’OPEC assieme alla Russia (OPEC+) di ridurre di 100 mila barili al giorno a partire da ottobre la produzione di petrolio può sembrare a prima vista trascurabile. Se si osserva però il quadro generale del mercato energetico e le dinamiche geo-strategiche innescate dal conflitto in Ucraina, la delibera del cartello allargato dei produttori di petrolio contiene più di un motivo di interesse. L’elemento più significativo è la difficoltà crescente degli Stati Uniti nel controllare l’andamento del mercato del greggio proprio quando le (auto-)sanzioni, teoricamente dirette contro Mosca, richiederebbero un’azione incisiva per contenere le quotazioni di gas e petrolio.

Il segnale più immediato emerso dal vertice di lunedì nella sede dell’OPEC a Vienna è la preoccupazione, per ora relativamente contenuta, per l’evolversi della situazione globale. Il taglio della produzione di greggio è il primo da oltre un anno a questa parte e, come ha lasciato intendere il ministro dell’Energia saudita Abdulaziz bin Salman, l’attenzione dell’OPEC+ si sta spostando dal problema della carenza di offerta a quello del rallentamento della domanda in conseguenza dei concretissimi allarmi della recessione in arrivo.

Le pessime prospettive in termini di crescita economica sono in altre parole alla base delle decisioni dei principali produttori di petrolio, che hanno evidentemente presso atto della parabola discendente delle quotazioni negli ultimi due mesi. Questi scrupoli prevalgono dunque sulle pressioni americane per un aumento dell’attività estrattiva, con tutte le implicazioni di ordine politico e strategico che ne derivano.

Appena due mesi fa, nel corso della sua visita in Medio Oriente, il presidente americano Biden aveva chiesto personalmente al principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman, di adoperarsi per incrementare la quantità di petrolio da immettere sul mercato globale, in modo da contrastare l’impennata dei prezzi energetici e l’inflazione provocate dalla guerra. Nonostante l’ottimismo ostentato allora dalla Casa Bianca, la risposta saudita è risultata chiara al termine della recente riunione OPEC. L’Arabia Saudita intende cioè anteporre i propri interessi a quelli dell’alleato americano. Interessi che, nel formato OPEC+, vengono coordinati nientemeno che con la Russia, oggetto dei tentativi di isolamento da parte degli Stati Uniti.

L’ex diplomatico indiano M. K. Bhadrakumar ha sottolineato in un articolo pubblicato sul suo blog che, “oltre a chiedere ai paesi del Golfo [Persico] di aumentare la produzione di greggio e a mettere sul mercato le proprie riserve”, i governo occidentali “non hanno altri strumenti” per influenzare le scelte dei produttori di petrolio. La questione è altamente sintomatica della costante perdita di influenza degli USA e dei loro lacchè europei anche su paesi tradizionalmente alleati e nominalmente dipendenti dall’ombrella del sistema di sicurezza occidentale.

A ciò va collegato direttamente un altro messaggio uscito dal vertice OPEC. Spiega ancora Bhadrakumar: “La decisione dei G-7 di imporre un tetto al prezzo del petrolio russo tocca anche i paesi OPEC+, sia pure indirettamente”. Se una decisione sul “price cap” dovesse essere presa definitivamente, Mosca ha già fatto sapere che sospenderebbe le forniture di greggio a quei paesi che intendono partecipare all’assurdo schema ideato da Washington e Bruxelles. La conseguenza sarebbe un’ulteriore contrazione dell’offerta che, a sua volta, richiederebbe uno sforzo da parte dei sauditi e degli altri maggiori produttori per compensare le perdite di petrolio russo e limitare l’impennata delle quotazioni.

Riyadh ha optato invece per una replica di segno opposto, ricompattando le proprie posizioni con quelle di Mosca e chiarendo che non intende assecondare la scommessa senza senso del “price cap”. La ragione della contrarietà dei paesi OPEC all’iniziativa dei G-7 è spiegata nuovamente da Bhadrakumar: “La mossa dei G-7 [sul tetto al prezzo del greggio] rappresenta un precedente preoccupante per tutti i membri dell’OPEC. I G-7 non hanno tecnicamente nulla a che fare con il mercato petrolifero” e la questione, sfruttata oggi in relazione alla guerra della Russia in Ucraina, potrebbe essere “usata domani anche contro i regimi del Golfo”, ad esempio imponendo, se le circostanze di carattere strategico lo richiedessero, provvedimenti come il “price cap” con la giustificazione delle carenze democratiche che caratterizzano questi paesi.

In altre parole, conclude l’ex diplomatico indiano, “le potenze occidentali stanno invadendo un campo gelosamente difeso dall’OPEC fin dalla fondazione del cartello [dei produttori] 62 anni fa e lo fanno attraverso la politicizzazione del prezzo del greggio, introducendo considerazioni geopolitiche che con esso non hanno alcun collegamento”.

La questione è stata collocata in un quadro più ampio da un commento pubblicato martedì dalla testata governativa cinese on-line Global Times. “Malgrado certi fattori non legati al mercato possano influenzare il mercato energetico internazionale”, si legge sul sito in lingua inglese, “ciò che determina principalmente l’andamento dei prezzi è sempre stato il rapporto tra domanda e offerta”. Ora tuttavia, continua il Global Times, “i G-7 stanno cercando di utilizzare misure di ordine politico per interferire con le leggi economiche del mercato energetico, con l’obiettivo di contenere gli aumenti delle quotazioni e ridurre la pressione inflazionistica” nonché di “danneggiare le entrate petrolifere della Russia”. Così facendo, anche se il target è il greggio di Mosca, il rischio è di “mettere a repentaglio l’intero sistema di forniture sul mercato energetico globale”.

Come accennato all’inizio, il taglio deciso lunedì dall’OPEC+ è quantitativamente trascurabile, soprattutto perché i paesi membri producono tuttora al di sotto delle quote distribuite complessivamente nel mese di agosto. Già nella prossima riunione, prevista per il 5 ottobre potrebbero esserci però ulteriori interventi. Anzi, all’Arabia Saudita sarebbe stata assegnata la facoltà di convocare un vertice in qualsiasi momento se fosse necessario “stabilizzare” tempestivamente il mercato del petrolio. Quest’ultima eventualità potrebbe scaturire da un peggioramento del quadro economico internazionale, ma anche dalla possibile finalizzazione dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), che farebbe aumentare la quantità di petrolio esportato dalla Repubblica Islamica.

La recente decisione dell’OPEC e della Russia segnala infine anche il fallimento, almeno per il momento, delle manovre americane per boicottare l’attività del cartello con sede a Vienna, testimoniato ad esempio dal progetto di legge “NOPEC”, da anni allo studio a Washington per consentire procedimenti “anti-trust” nei confronti dei paesi membri, e intensificate in seguito al consolidarsi della partnership russo-saudita. Il cartello allargato è in definitiva ben deciso a mantenere tutte le proprie prerogative per affrontare le minacce che gravano su di esso, limitando di conseguenza le velleità di controllo degli USA. Il messaggio, citando ancora l’analisi dell’ex ambasciatore indiano M. K. Bhadrakumar, è dunque “forte e chiaro: Arabia Saudita e Russia, che costituiscono l’asse portante dell’OPEC+, intendono continuare a coordinare strettamente le loro mosse per modellare”, secondo i propri interessi, “il mercato petrolifero globale”.

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