Il vertice tra UE e Cina ha presentato poche sorprese e nessuna positiva. Tra queste, la ritrosia europea ad inserirsi nel mastodontico progetto conosciuto come Belt and Road Initiative, il piano di infrastrutture globali finanziato con investimenti per mille miliardi di dollari in linee ferroviarie, autostrade, porti, aeroporti, centrali elettriche e impianti industriali dall’Asia ex sovietica all’Europa, passando per l’Africa, ovvero in molti Paesi in via di sviluppo.

Eppure, motivi di interesse e ragioni per farne parte ce ne sono: a Giugno del 2023, ben 154 Paesi e 30 organizzazioni internazionali avevano sottoscritto accordi di partecipazione e la Nuova Via della Seta ha già generato contratti per 2.000 miliardi di dollari in tutto il mondo.

 

L’Unione Europea ha però deciso, una volta di più, di obbedire alle pressioni statunitensi e di ridurre l’impatto della Cina sui mercati del Vecchio Continente. Dopo il suicidio energetico per scalfire la Russia, ora andrà in scena quello commerciale per molestare la Cina. Del resto, come già con il conflitto in Ucraina, le decisioni statunitensi hanno come destinatari di pena l’Europa e le relazioni con Cina e Russia mentre il ricavo politico ed economico va a Washington.

Risibile esempio di sovranismo alla amatriciana, il governo Meloni ha scelto l’ossequio verso gli USA più che gli interessi nazionali ed ha deciso che l’Italia, su ordine degli Stati Uniti, si tira indietro da quanto previsto nel Memorandum firmato dal governo Conte. L’obiettivo di Roma è la richiesta di riequilibrare la bilancia commerciale con la Cina incrementando il nostro export, inferiore a quello di Germania e Francia. Il che non per colpa cinese: l’Italia, rispetto alla Germania, produce meno ed esporta meno in assoluto, non solo rispetto alla Cina.

A conti fatti, il mancato sviluppo dell’intesa colpisce più l’Italia di quanto non colpisca la Cina, soprattutto perché Roma rinuncia all’ammodernamento dei porti di Trieste e Taranto, due hub fondamentali della dorsale adriatica. La quale per l’Italia è interfaccia obbligato, contenendo rotte di fondamentale importanza sia per il commercio che per la sicurezza e l’immigrazione. Adesso il problema per la coatta di Palazzo Chigi sarà non peggiorare i rapporti commerciali con Pechino, che nonostante il rallentamento della crescita resta un mercato strategico del Made in Italy (dal lusso alla meccanica) ed è stato scelto come base di produzione e vendita da circa 1.600 imprese italiane.

Per Xi il discorso è diverso, Pechino soffrirà relativamente del rifiuto italiano. Con l’intensificazione dei rapporti con Mosca, Atene, Istambul, Riad e Teheran e con la presenza in Africa (dove invece l’Italia è spettatore ininfluente, il cosiddetto “Piano Mattei” sembra più che altro il tema di una seduta spiritica) Pechino copre il passaggio delle rotte che vanno dall’Asia Minore all’Africa e all’Europa.

E’ invece l’insieme della UE a patire il confronto con la Cina dopo la rottura con la Russia e le parole della Presidente della Commissione Europea, Ursula Von Der Layen, che lamenta un deficit commerciale con Pechino di circa 400 miliardi di Euro, risultano ovvie. Si tratta infatti di un gap inevitabile, vista la capacità produttiva e di export cinese molto maggiore di quella di tutta la UE, con i mercati europei che hanno bisogno di prodotti cinesi più di quanto i cinesi ne abbiano di quelli europei.
In passato le relazioni commerciali tra le due economie erano più equilibrate, soprattutto grazie alle esportazioni tedesche. Ma l’export tedesco è in contrazione e le sue tecnologie non sono appetibili come in passato, dato che i cinesi le hanno sostituite con le proprie.

Ma il deficit commerciale è anche figlio di due impostazioni diverse, sia per il quanto riguarda il come, il cosa e il quanto produrre e sia perché Pechino, a differenza dell’Europa, non sanziona e non lega alle posizioni politiche la fattibilità di scambi e investimenti. In questo senso l’iniziativa industriale e commerciale cinese é svincolata dall’appartenenza politica e ciò gli permette di operare ovunque vi sia una relazione possibile tra domanda e offerta.

E questo, più che il risultato di politiche protezionistiche da parte della Cina (che pure vi sono, come del resto le hanno gli USA e la UE) riferisce di un quadro industriale diverso. C’è una Europa industrialmente depressa, con produzioni ridotte anche se di qualità, con uno sviluppo del suo mercato interno ridotto per paura dell’inflazione e la disponibilità tutta politica a spendere di più per favorire l’import dagli USA. La fine delle forniture energetiche a costi favorevoli dalla Russia ha infatti posto l’economia europea vittima in primo luogo di se stessa: della teocrazia globalizzatrice e della dogmatizzazione del turbo-monetarismo, come dell’asservimento atlantista del suo modello di sviluppo.

Intanto la Cina ha ormai superato l’Occidente collettivo su diverse aree della produzione industriale e ormai la sua Rete viaggia sul 6 G mentre il resto del mondo non è ancora riuscito a cablare la sua a 5G. Ancor più ampio il gap sull’elettrico, dove per ammissione dei CEO della Silicon Valley “la Cina è avanti di 35 anni rispetto agli USA”.

Uno scontro tra modelli

Il tentativo di resettare l’economia in chiave eco-sostenibile non favorisce un mutamento positivo nel confronto con Pechino: sullo sviluppo delle tecnologie green, l’egemonia cinese è stata costruita nei decenni e su più fronti. Non solo i prodotti finiti come pannelli solari e auto elettrica garantiscono alla Cina una superiorità nell’interscambio con l’Europa, ma anche tutta la catena di raffinazione e trasformazione di minerali e metalli usati come componenti nelle tecnologie verdi vede il prevalere del dragone. Quei minerali e metalli si trovano in buona parte nel sottosuolo cinese e, comunque, dall’Africa all’America Latina, la Cina si è garantita proprietà o accordi commerciali per sfruttare le risorse minerarie di altri paesi.

L’UE invece è in ritardo nella costruzione di sue filiere e non è un caso che tenti di riaprire (con scarso successo) un canale politico preferenziale con l’America Latina, giungendo al punto di affievolire le sue ridicole sanzioni nella speranza che possano predisporre positivamente il subcontinente, dotato proprio di quelle terre rare che santificano il divario tecnologico e di risorse con la Cina.

E’ proprio la cosiddetta “transizione ecologica”, che aumenta e non diminuisce la dipendenza dalla Cina. Auto elettriche, batterie, pale eoliche e componenti di tutti questi prodotti: la Cina oggi è di gran lunga la prima beneficiaria della de-carbonizzazione europea e la penetrazione cinese in Europa è trainata dalle tecnologie della “sostenibilità”, avendo superato l’industria europea e statunitense in questo settore. Nei pannelli solari, per esempio, non c’è un’alternativa: Pechino controlla ormai il 90% della capacità produttiva mondiale del settore.

E si annuncia un disastro nel settore automobilistico, che nella UE dà lavoro a 14 milioni di persone. Si annuncia l’arrivo di auto elettriche cinesi, sottocosto, con le quali l’industria europea non potrà competere. Bruxelles è in allarme: l’Europa “verde” sarà sempre più un’Europa cinese. Non solo non può fare a meno del made in China per la sua de-carbonizzazione accelerata, ma non riesce a rendersi altrettanto indispensabile all’economia cinese o a negoziare contropartite adeguate.

E non saranno le barriere e le sanzioni contro Pechino a vantaggio della competizione statunitense, artificiosa e frutto di sanzioni e blocchi verso i concorrenti, a poter determinare la supremazia europea. A Bruxelles servirebbe piuttosto ricordare quanto diceva Giulio Cesare, che di strategie sapeva qualcosa: “sì non potes inimicum tuum vincere, habeas eum amicum”. Più o meno: se non puoi batterli unisciti a loro.

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