La richiesta di arresto ai danni del primo ministro israeliano Netanyahu e del ministro della Difesa del suo governo da parte del procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale (ICC) ha aggravato questa settimana l’isolamento internazionale di Tel Aviv, così come di Washington. La reazione rabbiosa dell’amministrazione Biden ha anche confermato come oltreoceano abbiano raggiunto ormai i livelli di guardia i timori per le conseguenze di un’operazione militare, come quella in corso a Gaza, che praticamente per tutto il resto del pianeta ha da tempo i connotati del genocidio.

 

L’iniziativa del procuratore Karim Khan non significa, almeno per il momento, che sia stato emesso un mandato di arresto, ma che quest’ultimo, in base alle prove valutate, ha sottoposto una richiesta per un provvedimento di questo genere a un collegio di giudici della Corte, i quali stabiliranno se procedere o meno. Oltre a Netanyahu, l’oggetto dell’istanza di Khan riguarda appunto il ministro della Difesa di Israele, Yoav Gallant. Sul fronte opposto del conflitto, la richiesta di arresto include anche tre leader di Hamas per i fatti del 7 ottobre 2023: il numero uno del movimento islamista nella striscia, Yahya Sinwar, il comandante del braccio armato di Hamas, Mohammed Deif, e il capo dell’ufficio politico, Ismail Haniyeh.

La decisione di allargare ai leader di Hamas la richiesta di arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità è dovuta con ogni probabilità alle pressioni dei governi occidentali e, più in generale, alla decisione di conformarsi all’interpretazione ufficiale degli eventi in corso a Gaza, che descrive l’organizzazione islamista palestinese come terroristica, senza nessun contesto o analisi di carattere storico.

Proprio questo accostamento tra il regime sionista e Hamas ha dato l’opportunità al governo di Washington, oltre che allo stesso Netanyahu, di respingere le accuse del procuratore Khan. Il presidente Biden, in un comunicato ufficiale, ha precisato che a suo parere “non ci può essere nessuna equivalenza tra Israele e Hamas” e, perciò, gli USA “si schiereranno sempre” con lo stato ebraico “contro le minacce alla sua sicurezza”.

Le due parti non sono effettivamente e oggettivamente sullo stesso piano. Israele rappresenta l’oppressione, l’illegalità e la violenza genocida commessa impunemente da quasi otto decenni. Un elenco infinito di atrocità, commesse contro il popolo palestinese, che equivale a un genocidio, di cui la guerra in atto è l’ultimo e più grave capitolo. Dall’altra parte, al di là dei metodi, utilizzati soprattutto in passato, Hamas rappresenta un popolo oppresso, ridotto alla fame, oggetto di persecuzioni, assassinii e di una sistematica campagna di sterminio. Il diritto alla resistenza e alla rivolta contro questa situazione non può in nessun modo essere equiparato ai crimini israeliani.

Anche stabilendo una teorica equivalenza tra le due parti, il bilancio della guerra di aggressione in corso smentisce all’istante questa tesi. Sia pure accettando i dati ufficiali, l’operazione di Hamas del 7 ottobre scorso ha causato poco più di mille morti tra gli israeliani, in larga misura militari, mentre la guerra scatenata da Israele nella striscia circa 35 mila, di cui la grande maggioranza donne e bambini, per non parlare della distruzione materiale che ha reso di fatto inabitabile il territorio. I numeri relativi al 7 ottobre andrebbero inoltre aggiustati tenendo in considerazione i morti israeliani causati direttamente dalle forze armate sioniste, entrate in azione seguendo la famigerata “direttiva Hannibal”.

Qualunque sia il giudizio su Hamas, in ogni caso, le richieste di arresto contro Netanyahu e Gallant si aggiungono al precedente parere del ICC sui fatti di Gaza e chiariscono ancora una volta come le azioni di Israele equivalgano a un genocidio e quello al potere a Tel Aviv sia di fatto un regime criminale. I pronunciamenti dell’autorevole organo giuridico delle Nazioni Unite, anche se per il momento senza effetti pratici, fanno in qualche modo giustizia delle condanne e delle proteste contro Israele esplose in tutto il mondo, denunciate invece da quasi tutti i governi occidentali come espressioni di “antisemitismo” e spesso oggetto esse stesse di provvedimenti repressivi e di censura.

L’insostenibilità della posizione di USA e Israele emerge chiaramente dalla serie di dichiarazioni insensate rilasciate dalla Casa Bianca e dal dipartimento di Stato in risposta alla notizia proveniente da L’Aia. Il portavoce del dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha sostenuto ad esempio che il Tribunale Penale Internazionale “non ha giurisdizione” sui fatti di Gaza. In realtà, nel 2021 la stessa Corte aveva stabilito di potere legittimamente svolgere il proprio incarico relativamente alla situazione a Gaza e in Cisgiordania, in seguito all’adesione nel 2015 della Palestina allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

Questa presa di posizione ribadisce la colossale ipocrisia e il doppio standard utilizzato regolarmente da Washington quando in gioco ci sono le norme del diritto internazionale. Le regole sono semplicemente manipolate per piegarle ai propri interessi a seconda di come lo richiedano le circostanze. Il portavoce del dipartimento di Stato lascia intendere che l’ICC non possa occuparsi di Israele perché Israele non aderisce allo Statuto di Roma e non riconosce quindi il Tribunale. Quando, però, a marzo dello scorso anno, questo stesso organo aveva emesso un ordine di arresto contro il presidente russo Putin, il cui paese è nella stessa posizione di Israele per quanto riguarda l’ICC, per sospetti crimini legati alla guerra in Ucraina, l’amministrazione Biden aveva appoggiato la Corte e sollecitato il rispetto del mandato.

Questa doppiezza è stata confermata nei giorni scorsi dal procuratore capo del ICC, Karim Khan, in un’intervista esclusiva alla CNN. Durante la discussione con la giornalista Christiane Amanpour, Khan ha rivelato che in un’occasione “un leader eletto di un importante paese” gli aveva spiegato che il Tribunale Penale Internazionale serve “per l’Africa e i criminali come Putin”. Per gli USA e l’Occidente in genere, cioè, l’ICC è uno strumento da utilizzare per raggiungere con altri metodi i propri obiettivi strategici.

Biden ha anche sostenuto pubblicamente lunedì che quanto sta facendo Israele a Gaza “non è un genocidio”, mentre democratici e repubblicani al Congresso si sono uniti al coro di condanne della richiesta di arresto contro Netanyahu. Alcuni deputati repubblicani hanno poi minacciato una legge per imporre sanzioni al ICC, basata su una bozza già preparata a inizio 2023 dal senatore di ultra-destra dell’Arkansas, Tom Cotton.

Nelle dichiarazioni dei politici repubblicani emerge chiaramente la preoccupazione che circola a Washington. Non si tratta solo del discredito a livello planetario di Netanyahu e di Israele, che si riflette sugli Stati Uniti, ma della possibilità concreta che misure come quella che potrebbe ratificare l’ICC riguardino presto anche i leader politici, i vertici militari e i diplomatici americani. Infatti, se Netanyahu è responsabile di genocidio e crimini di guerra contro la popolazione palestinese, lo sono allo stesso modo i membri del governo USA, che, retorica a parte, hanno respo possibile e continuano a rendere possibile questi stessi crimini.

Se la richiesta di arresto dovesse essere accolta dalla Corte, il provvedimento potrebbe creare imbarazzi e divisioni tra le “democrazie” occidentali. Tutti gli stati che aderiscono allo Statuto di Roma sono infatti obbligati a implementare le decisioni del ICC. A questo proposito, prendendo una posizione opposta a quella americana, il capo della diplomazia UE, Josep Borrell, lunedì ha scritto in un post su X (ex Twitter) che l’Europa “ha preso nota” dell’iniziativa del procuratore Khan, per poi ricordare che tutti i membri dell’Unione Europea sarebbero tenuti ad adeguarsi all’eventuale mandato di arresto contro Netanyahu e Gallant.

L’aggressione israeliana contro i palestinesi nella striscia e l’atteggiamento americano stanno comunque accelerando il processo di disintegrazione delle regole consolidate del diritto internazionale. Nella già citata intervista alla CNN, il procuratore Khan ha messo in guardia a questo proposito dal pericolo derivante dall’assenza di disponibilità di determinati governi ad applicare equamente la legge, col rischio di “creare le condizioni del collasso” del sistema internazionale fondato sul diritto. Lo scenario presentato da Khan non è tuttavia una prospettiva futura ma già una realtà odierna e la ferocia con cui i governi di Washington e Tel Aviv hanno respinto le decisioni o i pareri del Tribunale Penale Internazionale ne sono una drammatica manifestazione.

Per quanto riguarda le conseguenze immediate della richiesta di arresto di Netanyahu e Gallant, anche se dovesse essere ratificata dal ICC, è molto improbabile che possa essere soddisfatta, anche perché entrambi finirebbero quasi certamente per limitare al minimo le trasferte all’estero che comportano qualche rischio. Esiste invece la possibilità concreta che il primo ministro israeliano sfrutti il provvedimento nei suoi confronti per compattare il fronte interno o addirittura, vista la nuova dimostrazione di fiducia arrivata da Washington, per intensificare ulteriormente l’offensiva militare nella striscia di Gaza.

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