Il tentato colpo di stato di sei mesi fa e la successiva rimozione del presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol, al termine di un procedimento di impeachment, hanno pesato in maniera decisiva sull’esito del voto anticipato di martedì nel paese del nord-est asiatico per eleggere il suo successore. A vincere è stato infatti il candidato di centro-sinistra Lee Jae-myung con un margine piuttosto consistente, anche se inferiore alle previsioni, su Kim Moon-soo, candidato del Partito del Potere Popolare (PPP) del deposto presidente, grazie anche all’affluenza più alta registrata dal 1997 (79,4%). Il nuovo presidente potrà contare sulla maggioranza del suo Partito Democratico (DP) in Parlamento, ma è atteso da una serie di questioni spinose sia sul fronte domestico, a cominciare dall’economia e dalle crescenti disuguaglianze sociali, sia sul piano internazionale, con i riflessi delle politiche commerciali ultra-aggressive dell’amministrazione Trump e della rivalità sempre più accesa tra Cina e Stati Uniti.

Yoon aveva ordinato lo stato di emergenza lo scorso dicembre nel tentativo di chiudere di fatto il Parlamento perché diventato a suo dire un ostacolo all’implementazione dell’agenda del governo. L’assemblea legislativa unicamerale sudcoreana aveva però sventato il tentativo delle forze armate di dare seguito all’ordine del presidente, votando a larga maggioranza una risoluzione che annullava l’introduzione della legge marziale. Inevitabilmente era seguito un voto di impeachment nei confronti di Yoon, appoggiato anche da una parte dei deputati del suo partito. In seguito, il provvedimento era stato approvato dalla Corte Costituzionale, ovvero l’ultimo passo per ratificare la rimozione del presidente, come previsto dalla Costituzione della Corea del Sud.

Vista la popolarità dell’impeachment, Lee e il suo partito avevano insistito in campagna elettorale sull’impegno a sconfiggere le forze anti-democratiche. Kim, da parte sua, aveva cercato di prendere le distanze da Yoon, mentre aveva spinto sulle tematiche economiche e attaccato il principale rivale per via di alcuni procedimenti legali a suo carico in fase di svolgimento. I sondaggi e i primi exit poll davano una vittoria di Lee con un divario ben superiore al 10%, ma i dati definitivi hanno registrato un certo avvicinamento da parte del candidato conservatore (49,4% a 41,2%). Complessivamente, gli altri tre candidati minori in corsa non hanno invece raggiunto il 10% dei consensi.

Il voto anticipato era atteso con particolare trepidazione dagli ambienti economici e finanziari sudcoreani, preoccupati per gli effetti destabilizzanti del “caso” Yoon in un momento di estrema tensione in parallelo al ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. L’imposizione di dazi molto pesanti ai propri partner commerciali, anche se per il momento sospesi, e l’insistenza del presidente americano sulla necessità da parte degli alleati di sostenere una quota maggiore delle spese per la loro difesa avevano fatto scattare l’allarme e moltiplicato gli appelli per un governo stabile in tempi brevi.

Lee Jae-myung, sconfitto di misura da Yoon nelle presidenziali del 2022, continua a essere definito da molti come un “radicale” che propone politiche economiche anti-liberiste, il riavvicinamento a Cina e Corea del Nord e un’attitudine più cauta nei confronti del Giappone. Questi orientamenti in ambito economico e degli affari esteri caratterizzano storicamente il Partito Democratico sudcoreano, ma, a parte qualche più o meno timido risultato sul piano della diplomazia con Pyongyang, presidenti e governi di centro-sinistra hanno negli ultimi anni perseguito politiche non molto differenti da quelli di centro-destra.

Infatti, sul piano economico e sociale, il predecessore di Yoon, il “progressista” Moon Jae-in aveva lasciato un’eredità tossica al candidato del suo partito nelle presidenziali del 2022 proprio per la mancata implementazione, tra l’altro, di politiche volte a ridurre il precariato nel mercato del lavoro, ad allargare la rete del welfare e a mettere un freno alla crisi abitativa. D’altra parte, lo stesso neo-presidente Lee aveva operato una sorta di svolta moderata nel corso della campagna elettorale appena terminata, così da intercettare gli elettori del PPP favorevoli all’impeachment di Yoon mentre i sondaggi indicavano un restringimento del vantaggio sul rivale conservatore.

Il possibile riassetto dell’alleanza con gli Stati Uniti sarà comunque uno degli argomenti in cima all’agenda di Lee Jae-myung. Nel suo primo discorso pubblico da presidente, quest’ultimo ha annunciato l’intenzione di riaprire il dialogo con la Corea del Nord, così da operare un’inversione di rotta rispetto al suo predecessore, che era tornato subito alla linea dura nei rapporti con il regime di Kim Jong-un. La precoce apertura di Lee potrebbe trovare una sponda nell’amministrazione Trump a Washington, da dove sono arrivati recentemente segnali del possibile ritorno alle politiche di conciliazione perseguite dal presidente repubblicano nel suo primo mandato.

Qualche osservatore ha fatto notare che la questione è oggi complicata dal rafforzamento della partnership militare tra Russia e Corea del Nord. Tuttavia, l’uscita di scena di Biden e Yoon potrebbe determinare un approccio più pragmatico da parte dei due alleati, intrecciandosi alle prove di disgelo in corso tra Russia e Stati Uniti. È chiaro che queste dinamiche vanno messe in relazione alle già ricordate “minacce” trumpiane di ridurre la presenza militare americana in Corea del Sud e le pressioni su Seoul per farsi carico di una quota più consistente delle spese dedicate alla difesa.

A rendere ancora più complesso il quadro è il rapporto tra Sudcorea e Cina. Anche in questo caso, il neo-presidente Lee è su posizioni più realiste, coerentemente con l’importanza di Pechino sul piano commerciale per il suo paese. Un ulteriore passo avanti in questo senso potrebbe essere facilmente prevedibile, vista l’attitudine di Lee e del suo partito, nonché per via delle politiche commerciali della Casa Bianca. Ad aprile, com’è noto, Trump aveva annunciato dazi del 25% sulle importazioni sudcoreane, per poi metterli in pausa in attesa di possibili negoziati e accordi bilaterali.

Lee dovrà quindi trovare una soluzione che sventi o riduca l’impatto di queste misure che potrebbero entrare in vigore dal prossimo 8 luglio, tenendo in considerazione il fatto che un consolidamento dei rapporti commerciali con la Cina rischierebbe di irrigidire le posizioni americane. Oltretutto, proprio nelle ultime ore Trump ha ordinato il raddoppio dei dazi su acciaio e alluminio (dal 25% al 50%), con un impatto pesante anche sui produttori sudcoreani. Gli scenari in rapido cambiamento metteranno così a dura prova l’inclinazione pragmatica di Lee.

Il nuovo presidente si è anche immediatamente ritrovato a fare i conti con le pressioni degli ambienti del business del paese. Le organizzazioni che rappresentano le aziende della Corea del Sud, subito dopo le elezioni, hanno infatti lanciato appelli coordinati al presidente per sollecitare misure che favoriscano la crescita economica in un clima internazionale sempre più difficile. Nel concreto, ciò che viene richiesto è un piano di riforme che riduca ulteriormente regolamentazioni e diritti dei lavoratori a favore della competitività. Vale a dire una strada che metterebbe in fretta Lee contro una parte consistente dei suoi elettori e della base di appoggio del suo Partito Democratico.

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