Il governo libanese sta camminando letteralmente su un campo minato nel tentativo di conciliare le richieste americane – e israeliane – di disarmare Hezbollah con le esigenze di stabilità interna che non possono prescindere dalle legittime garanzie rivendicate dal partito/milizia sciita. Lunedì, l’inviato della Casa Bianca, Tom Barrack, è arrivato a Beirut per ascoltare la risposta delle tre più alte cariche del paese dei cedri alla “proposta” da lui stesso recapitata il 19 giugno scorso, nella quale chiedeva l’implementazione del principio che solo lo stato deve detenere il monopolio della forza e delle armi. Le prime dichiarazioni pubbliche sembrano essere all’insegna dell’ottimismo, ma ciò che chiede Washington, assieme a Tel Aviv, è in definitiva la cancellazione della Resistenza in Libano come prerequisito per il rispetto da parte di Israele della tregua, sottoscritta lo scorso novembre e ripetutamente violata. Anche se ci sono settori della classe politica libanese pronti a consegnarsi nelle mani del nemico sionista, l’opposizione di Hezbollah, anche se indebolito, rende improbabile una soluzione in questo senso e prospetta anzi, se le posizioni americane non dovessero cambiare, una nuova rovinosa guerra civile.

Dopo la campagna militare israeliana in Libano che ha decapitato parte della leadership di Hezbollah e inflitto seri danni sia alle strutture dello stesso movimento di resistenza sia all’intero paese, Trump e Netanyahu hanno lanciato un’offensiva “diplomatica” nei confronti di Beirut per allineare il paese agli interessi dei due alleati. Hezbollah è l’ostacolo numero uno a questi piani, ma pressioni e minacce difficilmente riusciranno a favorire questo risultato, vista la forza residua del movimento sciita e il suo radicamento nella società libanese. Radicamento e autorità che derivano in primo luogo dalla funzione di salvaguardia della sovranità del Libano e di unica vera opposizione alla minaccia sionista, grazie in primo luogo a un arsenale militare solo in parte intaccato dall’aggressione israeliana.

Le pressioni americane sul Libano hanno assunto la forma di negoziati con il presidente, Joseph Aoun, il primo ministro, Nawaf Salam, e lo “speaker” del parlamento, Nabih Berri, leader del partito Amal, alleato di Hezbollah. Secondo le richieste USA, questo trio doveva stilare un piano per arrivare nell’arco di qualche mese al totale disarmo di Hezbollah, così da evitare un’escalation delle pressioni e, anzi, una probabile nuova aggressione militare da parte di Israele. Vincolato alla resa di Hezbollah c’è anche il finanziamento della ricostruzione del paese dopo i bombardamenti dello stato ebraico e l’impegno di Tel Aviv a rispettare finalmente i termini della tregua, che ha peraltro già sottoscritto, inclusa l’evacuazione dalle cinque postazioni militari che le forze di occupazione tuttora detengono in territorio libanese.

Le richieste americane e israeliane riflettono un livello di sicurezza tale da far passare in secondo piano, almeno apparentemente, le ripercussioni che un attacco frontale contro Hezbollah avrebbe per i già fragilissimi equilibri interni libanesi. Tra i tre esponenti di vertice delle istituzioni del paese, il premier Salam è quello che ha finora tenuto un’attitudine più aggressiva verso Hezbollah, agendo di fatto da portavoce di Washington e Tel Aviv nonostante la retorica della sovranità e dell’impegno a fare delle forze armate libanese l’unico soggetto deputato alla difesa e alla sicurezza. Il presidente Aoun ha invece invocato un percorso più cauto e condiviso verso il disarmo di Hezbollah, mentre Berri funge in sostanza da tramite del partito-movimento sciita.

Hezbollah, da parte sua, proprio alla vigilia del ritorno dell’inviato di Trump a Beirut ha ribadito per voce del suo segretario generale, Naim Qassem, i punti non negoziabili per l’eventuale accettazione della “road map” proposta da Washington. Qassem ha parlato pubblicamente domenica in occasione della festività sciita Ashura, spiegando che qualsiasi iniziativa del suo movimento dovrà essere preceduta dal rispetto da parte di Israele delle condizioni stabilite nella tregua di novembre, basata a sua volta sulla Risoluzione ONU 1701. Vale a dire il ritiro dalla parte di territorio libanese tuttora occupato, la fine dell’aggressione militare e il rilascio dei prigionieri libanesi fatti durante la guerra dello scorso autunno e successivamente.

Solo quando queste condizioni saranno soddisfatte, ha aggiunto il successore di Hassan Nasrallah, Hezbollah sarà pronto per passare alla seconda fase, che consiste nel “discutere della strategia relativa alla difesa e alla sicurezza nazionale” del Libano. Qassem non ha quindi parlato esplicitamente di consegna delle armi alle forze armate libanesi, ma ha inquadrato ogni iniziativa che tocchi l’aspetto militare in una nuova architettura della sicurezza che garantisca piena sovranità e indipendenza al paese, minacciate entrambe dalle ingerenze israeliane e americane, nonché dei loro alleati arabi.

Il punto centrale è rappresentato dal rischio più che concreto che la resa sostanziale di Hezbollah determini la consegna di fatto del Libano nelle mani di USA e Israele, con la fine della Resistenza in questo paese e un colpo ancora più pesante per il fronte di cui è espressione, soprattutto per l’Iran, proprio mentre è in corso il crimine più grave contro la popolazione palestinese dai tempi della Nakba. Tramite l’intervento pubblico di Naim Qassem e di altri leader del movimento sciita, Hezbollah ha quindi chiarito che non ci saranno compressi su questo principio. Nelle parole del segretario generale Qassem: “siamo impegnati a difendere i nostri diritti e a morire per essi, se necessario”.

Lunedì, in ogni caso, l’inviato della Casa Bianca, Tom Barrack, si è incontrato a Beirut con i vertici dello stato libanese e, al termine dei colloqui, ha detto alla stampa di essere “incredibilmente soddisfatto” della risposta che gli è stata consegnata alla richiesta del suo governo di disarmare Hezbollah. Barrack ha proseguito con un tono conciliante per affermare che “Israele non vuole la guerra con il Libano, né occupare” il suo territorio, anche se il raggiungimento della pace “rappresenta una sfida”. Tornando alle minacce velate, il diplomatico americano ha avvertito che il Libano potrebbe essere “messo da parte” se non dovesse unirsi al “campo del cambiamento” in Medio Oriente, ovvero allo schieramento americano-israeliano e anti-iraniano.

Ancora, Barrack ha chiarito che il suo governo non impone una scadenza per la consegna delle armi di Hezbollah, ma intende soltanto “cercare di essere di aiuto”. Quest’ultima dichiarazione stride con le parole e le iniziative delle ultime settimane e ancora di più con l’aperta e ripetuta violazione dei termini della tregua da parte di Israele. Giovedì e domenica Netanyahu aveva nuovamente ordinato bombardamenti e attacchi mirati in territorio libanese, evidentemente con l’intenzione di fare ulteriori pressioni in vista dell’arrivo dell’emissario di Trump a Beirut. Dalla firma della tregua a novembre 2024, sono state documentate 3.800 violazioni da parte di Israele, causando quasi 200 vittime e oltre 430 feriti. Il tutto nella totale indifferenza dell’organismo internazionale di vigilanza sul rispetto della tregua che era stato creato con l’accordo di novembre.

Secondo quanto riportato nei giorni scorsi dalla stampa libanese, Aoun, Salam e Berri avrebbero preparato una risposta “unitaria” alla richiesta di Barrack del 19 giugno. Ciò significa che i tre leader stanno cercando di ammorbidire le posizioni americane per via della natura esplosiva della questione. In altre parole, procedere con l’imposizione a Hezbollah di cedere preventivamente le proprie armi comporterebbe il rischio di fare esplodere una vera e propria guerra civile in Libano. Di questo pericolo ne è evidentemente conscio anche il governo USA. Da qui, forse, le parole relativamente caute di Barrack nella giornata di lunedì.

Venerdì scorso, il giornale libanese vicino a Hezbollah, Al-Akhbar aveva scritto inoltre che le trattative in corso vedono tra i protagonisti un importante cittadino libanese con stretti legami con l’amministrazione Trump, il quale sta tenendo i contatti con Hezbollah “dietro le quinte”. Queste discussioni si stanno concentrando sulle garanzie che potrebbero essere offerte al movimento sciita in cambio del “disarmo volontario”. L’intermediario citato da Al-Akhabar descrive un’atmosfera “positiva” e fa sapere che la leadership di Hezbollah è “aperta a discussioni serene e non provocatorie”.

L’obiettivo è di convincere Hezbollah a consegnare il proprio arsenale allo stato “senza pressioni, minacce o retorica populista”. In cambio dovranno essere messe sul tavolo “garanzie militari, politiche e di sicurezza, sia dall’interno del Libano sia dall’estero”, in modo che venga “protetta la base del partito, i suoi combattenti e la sua leadership”. In un eventuale accordo è necessario inoltre che sia incluso il ritiro di Israele dal territorio libanese e la fine di bombardamenti e assassini mirati, assieme a rassicurazioni su futuri conflitti e sulle iniziative per la ricostruzione del paese.

In definitiva, dietro le apparenze esteriori, tutte le parti, anche se ad esclusione probabilmente del regime di Netanyahu, sembrano volere procedere con cautela e prendere tempo viste le implicazioni della vicenda. Il fronte anti-Resistenza percepisce tuttavia che la (relativa) debolezza di Hezbollah e le dinamiche regionali di questi mesi costituiscono uno sfondo difficilmente ripetibile per infliggere un altro colpo decisivo all’Iran e ai suoi alleati e c’è perciò da attendersi un’intensificazione delle pressioni su Beirut e il partito/movimento sciita, a cominciare dalle manovre per alimentare le tradizionali divisioni settarie in Libano.

Hezbollah, da parte sua, comprende perfettamente la portata della minaccia che sta dietro a formule come “pacificazione” o “primato” dello stato e delle forze armate. Una soluzione che preveda la resa preventiva ai diktat di Washington e Tel Aviv resta perciò improbabile, per quante pressioni e minacce eserciti la casa Bianca e per quante violazioni della tregua e crimini lo stato ebraico intenda continuare a commettere nel paese dei cedri.

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