La conferenza di giovedì a Roma sulla ricostruzione dell’Ucraina è a tutti gli effetti l’ennesimo tentativo degli alleati del regime di Zelensky di auto-illudersi di potere influire in qualche modo sulle sorti della guerra in corso dal febbraio 2022. Viste le premesse, dichiarazioni e avvertimenti lanciati durante il vertice appartengono a una realtà parallela, plasmata dal terrore dell’ex comico televisivo ucraino per la sorte personale che lo attende e dalle velleità dei leader europei di evitare una sconfitta epocale nella “guerra per procura” di cui essi stessi, assieme alla precedente amministrazione americana, sono interamente responsabili. In teoria, ciò che conta nel concreto viene deciso sull’asse Mosca-Washington, ma anche in questo caso la fermezza e la coerenza del Cremlino continuano a scontrarsi con la volubilità, il narcisismo e l’indecisione dell’inquilino della Casa Bianca.

Illusi e sconfitti

A definire il livello della conferenza è stata subito la parodia di primo ministro a capo del governo italiano che, nella sessione plenaria di apertura giovedì mattina, ha inquadrato perfettamente – secondo il suo punto di vista – gli equilibri della guerra, affermando che “il piano russo è fallito” perché la comunità internazionale ha isolato Mosca e si è invece coalizzata in maniera compatta per sostenere l’Ucraina. Le fantasie della Meloni hanno poi toccato l’argomento centrale del summit, quando ha prospettato scenari di libertà e prosperità per la ex repubblica sovietica se i suoi alleati saranno disponibili a investire sulla sua ricostruzione. Non è chiaro se la premier abbia in mente questo futuro roseo per l’Ucraina nonostante la catastrofica sconfitta militare a cui sta andando incontro o se ritiene che la permanenza al potere del regime ultra-repressivo e neonazista di Zelensky sarà in grado di dare il proprio contributo al rilancio del paese in chiave di libertà e democrazia.

Sullo stesso registro fantastico di quello della Meloni è sembrato essere anche l’intervento del cancelliere tedesco Merz. Secondo l’ex banchiere del colosso delle speculazioni BlackRock, serve un “miracolo economico” per la ricostruzione dell’Ucraina simile a quello che fece rinascere la Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale. Se non altro, l’affinità ideologica tra il nazismo hitleriano e i discendenti dei collaborazionisti banderiani, che oggi infestano le stanze del potere a Kiev, rende particolarmente adatto il parallelo proposto da Merz, il quale ha però tralasciato di citare la sorte per molti versi simile a quella della Germania di 80 anni fa che attende sul campo l’Ucraina odierna.

In maniera involontaria, è stato invece il primo ministro polacco Tusk a riportare per un momento alla realtà i partecipanti alla conferenza romana. L’ex presidente del Consiglio Europeo ha avvertito che “non ci può essere ripresa senza vittoria”, ovvero che, senza un ribaltamento degli equilibri militari a favore dell’Ucraina, qualsiasi piano di rilancio economico e di ricostruzione resta pura fantasia. Visto che le possibilità che ciò accada sono inesistenti, la “ripresa” auspicata dalla Meloni e dai suoi ospiti resterà un miraggio.

Più avanti nel suo intervento, Tusk ha accennato alle implicazioni della débâcle ucraina per l’Europa. “La vittoria dell’Ucraina”, ha spiegato Tusk, “è una questione che riguarda la sicurezza per tutto il resto d’Europa”. Sia pure indirettamente, il premier polacco ha quindi ricordato che con la sconfitta di Kiev l’Europa dovrà fare i conti con una realtà strategica e della sicurezza totalmente cambiata, cioè sarà obbligata a prendere atto della propria marginalità davanti a una Russia rafforzata e a un alleato americano che considera i paesi del vecchio continente come semplici vassalli.

Il “presidente” Zelensky è intervenuto in anticipo sui social per stimolare le discussioni di Roma. L’ex comico ha invitato gli alleati/sponsor a imporre altre sanzioni contro la Russia e a utilizzare (rubare) i fondi russi congelati illegalmente in Occidente per acquistare armi da inviare a Kiev e per finanziare la ricostruzione. Zelensky ha citato le massicce operazioni militari russe degli ultimi giorni sulla capitale per sensibilizzare i partecipanti alla conferenza e convincerli ad agire in fretta.

Non è chiaro nemmeno in questo caso come eventuali ulteriori sanzioni possano risultare più efficaci delle migliaia di provvedimenti adottati dall’UE negli ultimi tre anni e mezzo. Inoltre, la stessa indignazione di Zelensky e dei suoi sostenitori circa il “terrore” che Mosca starebbe imponendo alla popolazione ucraina si scontra con la realtà dei fatti. Per stessa ammissione dell’Ucraina e della stampa ufficiale, le incursioni russe degli ultimi giorni con centinaia di missili e droni hanno causato un numero esiguo di vittime civili, una soltanto nelle operazioni di mercoledì, nonostante siano state descritte come le più intense dall’inizio della guerra. Questi dati andrebbero confrontati con le stragi quotidiane commesse da Israele a Gaza, ma nessuna indignazione è stata rilevata a questo proposito dai partecipanti al summit romano.

Sanzioni sì, sanzioni forse

La questione delle sanzioni sta interessando anche il dibattito d’oltreoceano sull’Ucraina e il faticosissimo processo diplomatico in corso. Trump sarebbe diventato ora possibilista circa il suo appoggio al nuovo pacchetto di sanzioni che alcuni membri del Congresso ultra-russofobi hanno introdotto recentemente. Il provvedimento in questione prevede l’imposizione di dazi del 500% a quei paesi che acquistano petrolio, gas, uranio e altri prodotti dalla Russia. Anche senza entrare nel merito dell’iniziativa, della sua applicabilità e della natura oggettivamente ridicola di essa, il teatrino in corso non fa che rivelare le frustrazioni del presidente americano per l’impossibilità di gestire la crisi ucraina secondo i suoi – molto ristretti – parametri mentali e strategici.

Al di là dei titoli che suonano come una minaccia gravissima per Mosca, c’è una condizione che Trump pretende per dare eventualmente il suo OK al pacchetto. Il presidente vuole cioè completa autorità per decidere se applicare effettivamente le misure punitive previste o tenerle in sospeso. Tradotto: Trump crede di potere avere a disposizione uno strumento finalmente efficace di pressione da usare su Putin se dovesse insistere nel rifiutare la proposta di tregua temporanea avanzata da Washington e Kiev o qualsiasi altra condizione dettata dalla parte perdente.

La fermezza russa nel respingere qualsiasi proposta (inganno) che non affronti le cause ultime della questione ucraina sta infastidendo non poco Trump. Con o senza l’arma delle nuove sanzioni, tuttavia, la Casa Bianca continuerà a non avere elementi in mano per convincere il Cremlino a fermare le operazioni militari. Elementi di cui Trump non dispone perché non è pronto ad affrontare le questioni più ampie di natura strategica e relative all’architettura della sicurezza europea da cui Putin non è disponibile a prescindere per discutere seriamente di un accordo di pace.

D’altra parte, il governo russo non è minimamente impensierito né influenzato dalle uscite pubbliche di Trump o dai suoi ricorrenti insulti verso Putin. Il portavoce del Cremlino Peskov ha affermato mercoledì che il suo governo è consapevole dello “stile rude” del presidente americano e di ciò non se ne preoccupa né aggiusta le proprie decisioni in base alle dichiarazioni del giorno. Mosca, ha aggiunto Peskov, conferma il proprio impegno al dialogo e al ripristino di normali relazioni con gli Stati Uniti.

Poche armi e poco efficaci

Sullo stesso piano delle sanzioni vanno messi anche i proclami e i ripensamenti sulle armi americane da inviare o meno all’Ucraina. Tralasciando il dettaglio delle affermazioni contraddittorie di Trump negli ultimi giorni, la sostanza della diatriba sulle forniture di missili e altri equipaggiamenti a Kiev, prima sospese, poi sbloccate e in seguito messe più o meno in dubbio, va ricondotta nuovamente ai tentativi di riuscire in qualche modo a influenzare le decisioni russe.

Nella confusione che regna alla Casa Bianca e al Pentagono emerge un dato oggettivo, che è la scarsa disponibilità di Patriot o di altri armamenti nei depositi USA e, di conseguenza, l’impossibilità di fare una qualche differenza nel teatro di guerra ucraino. In definitiva, invece di prendere atto della realtà e discutere seriamente delle questioni che possono davvero contribuire a mettere fine alla guerra, Trump e l’Europa preferiscono continuare ad auto-illudersi di avere la forza e gli strumenti per incidere sull’andamento del conflitto e sulle scelte russe. Ovvero, di potere dettare i termini della pace nonostante stiano subendo una sconfitta gigantesca sul piano militare e strategico.

Sul campo, intanto, la Russia continua ad avanzare inesorabilmente e a liberare città dopo città, logorando le forze ucraine. Putin sembra comunque volere evitare un cambio di passo, così da preservare le vite dei militari russi, ma anche la tenuta della società e delle infrastrutture ucraine nonché per lasciare aperta la porta alla diplomazia. Senza un riscontro dell’Occidente basato sull’accettazione della realtà – e della sconfitta – gli obiettivi fissati da Mosca saranno raggiunti con mezzi militari, ma il costo per l’Ucraina risulterà ancora più salato e la responsabilità di ciò sarà tutta delle cancellerie occidentali.

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