Il procedimento di impeachment contro Donald Trump al Senato americano sta procedendo in questi giorni con l’intervento dei legali del presidente per respingere le accuse di abuso d’ufficio e di ostruzionismo, formulate in precedenza dal Partito Democratico alla Camera dei Rappresentanti. Lo scontro politico continua a mettere di fronte due fazioni dell’establishment di Washington che poco o nulla hanno di democratico. Gli ultimi sviluppi del fine settimana – dalle minacce dell’inquilino della Casa Bianca contro i leader democratici al possibile coinvolgimento nel processo del “super-falco” John Bolton – non fanno che confermare questa interpretazione.

 

Settimana scorsa i lavori al Senato erano stati monopolizzati dall’intervento della manciata di deputati democratici scelti dalla leadership del partito, i cosiddetti “impeachment managers”, per esporre il caso contro Trump e svolgere il ruolo di pubblica accusa contro il presidente. Esaurito il tempo a loro disposizione, sabato si era aperta la fase dedicata alla difesa, con i legali di Trump, tornati poi in aula lunedì, che hanno negato fermamente ogni responsabilità addebitata allo stesso presidente.

Le linee seguite dalla difesa hanno seguito alcune traiettorie ben precise. Nelle intenzioni di Trump, per cominciare, non ci sarebbe stata la volontà di sospendere gli aiuti militari per quasi 400 milioni di dollari destinati all’Ucraina per spingere il governo di questo paese a prendere provvedimenti che lo avrebbero favorito politicamente sul fronte domestico.

Le iniziative che la Casa Bianca si aspettava da Kiev avevano a che fare, come è noto, con l’apertura di indagini sugli interessi della famiglia Biden nel settore energetico ucraino e sulle possibili interferenze ucraine a favore di Hillary Clinton alla vigilia delle presidenziali americane del 2016. Per i legali di Trump, l’unico scrupolo del presidente era piuttosto la lotta alla corruzione diffusa negli ambienti di potere ucraini che, oltretutto, metteva in dubbio l’impegno di Kiev nel contrastare la presunta aggressione russa contro il paese dell’ex blocco sovietico.

Decisamente più allarmante è invece la decisione di puntare sulla tesi della sostanziale impunità del presidente nello svolgimento delle sue funzioni. Gli avvocati di Trump e, ancora prima, lo stesso ministro della Giustizia USA (“attorney general”) si sono in definitiva espressi a favore di una dottrina pseudo-legale che garantisce in pratica il potere assoluto dell’esecutivo, le cui azioni, tranne casi estremi, sarebbero totalmente fuori dal controllo del Congresso.

Infine, un’altra tesi a dir poco discutibile, e in larga misura screditata dagli esperti di diritto costituzionale negli USA, consiste nel sostenere che per procedere contro il presidente, quest’ultimo deve avere commesso un crimine previsto dal codice penale americano. Questa interpretazione non risulterebbe del tutto corretta, perché il procedimento di impeachment ha una natura principalmente politica o, quanto meno, la soglia necessaria a rimuovere un presidente dal suo incarico risulta più bassa rispetto a quella fissata dal diritto penale USA per l’incriminazione o la condanna di cittadini comuni.

L’intera vicenda continua in ogni caso a essere sfruttata dalla Casa Bianca per i propri scopi politici che coincidono in gran parte col tentativo di Trump di mobilitare le forze più reazionarie della società americana. Il pericolo di questa strategia lo si è visto ancora una volta nel fine settimana, quando Trump ha minacciato nemmeno troppo velatamente su Twitter il politico democratico di riferimento nella procedura di impeachment, il deputato della California, Adam Schiff.

Trump ha definito quest’ultimo un “politico corrotto” e una “persona molto malata” che “non ha ancora pagato il prezzo per ciò che ha fatto al nostro paese”. Simili messaggi in stile mafioso del presidente degli Stati Uniti contro i propri avversari politici non sono una novità e spesso nel recente passato hanno provocato minacce di morte contro i destinatari, se non tentativi falliti di attacchi violenti. Solo qualche giorno fa, Trump aveva ad esempio “ritwittato” un’immagine manipolata dei due leader democratici di Camera e Senato – Nancy Pelosi e Charles Schumer – in abiti islamici davanti a una bandiera dell’Iran, accusandoli di avere difeso questo paese dopo che entrambi avevano espresso deboli critiche per l’assassinio del generale Qasem Soleimani.

Il deputato Schiff, da parte sua, ha denunciato domenica mattina il “tweet” del presidente, definito come una “minaccia” nei suoi confronti. La rabbia di Trump verso il presidente della commissione Intelligence della Camera è da ricondurre non solo al suo ruolo di primissimo piano nella promozione dell’impeachment, ma anche alla sua recente citazione di una notizia circolata negli USA. Schiff, cioè, ha rilanciato una rivelazione secondo la quale la Casa Bianca sarebbe pronta a “punire” quei senatori repubblicani che intendono votare a favore della condanna di Trump.

Le intimidazioni del presidente non cambiano comunque la natura del processo in atto e il carattere anti-democratico di esso. Nel suo intervento sui programmi americani di informazione della domenica, lo stesso Schiff ha chiarito infatti come il procedimento sia, in ultima analisi, un tentativo di punire Trump per le sue scelte di politica estera che hanno messo a repentaglio l’offensiva anti-russa, attorno alla quale sono coalizzate le fazioni più potenti del “deep state” americano.

La dimostrazione più lampante dell’alleanza tra il Partito Democratico e gli ambienti “neo-con” più radicali per colpire Trump è la disputa attorno all’eventualità di una testimonianza al Senato dell’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Bolton. L’ex ambasciatore USA presso le Nazioni Unite si è detto disponibile a fornire la propria versione degli eventi, ma lo farà solo se il Congresso e la Casa Bianca troveranno un accordo. Trump ha infatti imposto il silenzio ai suoi collaboratori ed ex collaboratori, così che un’eventuale richiesta di comparizione del Senato rischia di sfociare in un scontro legale che sarebbero i tribunali a dover risolvere.

La questione della testimonianza di Bolton si è infiammata nel fine settimana, quando il New York Times ha pubblicato alcuni stralci di un libro di prossima pubblicazione scritto dall’ex consigliere di Trump. In essi, Bolton sostiene di avere intrattenuto alcune conversazioni con il presidente sulla questione al centro dell’impeachment e di potere confermare come Trump intendeva appunto congelare gli aiuti già stanziati dal Congresso a favore di Kiev fino a che non fossero state decise indagini ufficiali ai danni di Joe Biden e del figlio Hunter, nonché per fare luce sulle interferenze ucraine nel voto del 2016.

Quella che sembra una mossa coordinata per rinvigorire un procedimento destinato a morire al Senato con l’assoluzione di Trump dovrebbe servire in primo luogo a convincere alcuni repubblicani “moderati” ad appoggiare la richiesta del Partito Democratico di convocare una serie di testimoni dell’accusa, come appunto John Bolton. Al termine degli interventi di accusa e difesa, i senatori avranno facoltà di fare domande alle due parti e, in seguito, l’aula dovrà votare eventuali mozioni che chiedono la pubblicazione di nuovi documenti o la convocazione di testimoni.

Quest’ultimo è il principale obiettivo dei democratici ma, per avere successo, avranno bisogno dell’appoggio di almeno quattro senatori repubblicani. Almeno un paio si sono già detti disposti a valutare l’ipotesi di invitare testimoni e almeno altri due appaiono possibilisti. Il coinvolgimento di John Bolton, tra le figure più reazionarie dell’establishment della “sicurezza nazionale” americana, serve dunque a questo preciso scopo.

Se, al contrario, le proposte democratiche dovessero essere bocciate, il Senato potrebbe procedere già tra pochi giorni con un voto definitivo che, salvo clamorosissime sorprese, stabilirà il proscioglimento di Trump. In questo caso, la prossima settimana il presidente potrà tenere il suo discorso sullo stato dell’Unione libero dal fardello dell’impeachment, iniziando con ogni probabilità a sfruttare la vicenda come un’arma elettorale che rischia seriamente di danneggiare le prospettive del Partito Democratico.

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