Come già in Venezuela e in Nicaragua, con identiche modalità e comuni complicità, gli Stati Uniti stanno tentando di rovesciare con un colpo di Stato il legittimo governo di Evo Morales in Bolivia. Preoccupati dal tempo che scorre e riduce le proteste e delle missioni internazionali che dovrebbero certificare l’esito elettorale favorevole a Morales, hanno deciso di accelerare i tempi e nei giorni scorsi hanno sabotato l’elicottero con il quale il Presidente doveva spostarsi. Solo l’abilità del pilota lo ha salvato. Vecchia, sinistra abitudine quella degli USA, di far esplodere in volo i presidenti sgraditi a Washington, da Omar Torrijos a Panama a Samora Machel in Mozambico.

 

Già all’inizio di quest’anno, Washington ammonì Evo Morales a non ripresentarsi ma, come ricordò Evo, in Bolivia comandano i boliviani e non gli americani. La Corte Suprema autorizzò la ricandidatura di Evo che, come previsto, ha stravinto le elezioni. Per innescare il golpe gli USA raccontano che il margine tra Evo e Meza sarebbe inferiore ai dieci punti e, per questo, si dovrebbe accedere al secondo turno. Il che, semplicemente, è un falso. E comunque, anche con una distanza maggiore e anche se vi fosse stato un secondo turno che avesse certificato senza dubbi la vittoria di Evo, non sarebbe cambiato nulla.

L’obiettivo statunitense è cacciare Evo Morales e restituire la Bolivia alle multinazionali USA e il piano è sempre stato quello di rifiutare qualunque risultato che non fosse stato la vittoria della destra, chiamando alla frode e scatenando incidenti nella speranza che il governo mandasse i militari a reprimere. L’opposizione non riconosce la sconfitta maturata in una tornata elettorale giudicata corretta e serena da tutti gli osservatori elettorali internazionali, ma la storia dei dieci punti è funzionale alla strategia golpista. Perché un golpe, per essere in qualche modo venduto alla comunità internazionale, ha bisogno di almeno un appiglio formale, non può procedere dichiarando intento di ripristinare il dominio statunitense su un altro paese. Ovviamente, la famosa “comunità internazionale” si guarda bene dal chiedere a che titolo gli Stati Uniti si ergono a giudici delle elezioni altrui, visto che le loro, dove vince chi ha più denaro e meno voti, sono l’antitesi di un processo democratico e trasparente. Ma il terreno per gli USA resta in salita: indifferenti al golpismo statunitense, 120 paesi hanno già espresso le loro congratulazioni ad Evo Morales per la sua rielezione; particolarmente vicini i presidenti Daniel Ortega, Nicolas Maduro, Miguel Diaz Canel e il neo eletto presidente argentino Alberto Fernandez.

In una situazione che rischia in ogni momento di trasformare la Bolivia in un campo di battaglia, Evo ha scelto una strategia politicamente accorta. Nessun uso della forza che non sia strettamente necessario, apertura agli osservatori OSA e UE per assistere al nuovo conteggio dei voti e disponibilità ad andare a nuove elezioni ove venisse dimostrato che il margine è inferiore al 10%, ovvero la misura che rende superfluo il ricorso al secondo turno.
C’è il rischio che la strategia di Evo non risulti determinante per una soluzione, perché il conteggio dei voti è solo una scusa per innescare il tentativo di colpo di Stato. Il governo USA chiede elezioni a tutti come prova di democrazia ma ne riconosce la legittimità solo quando i suoi candidati vincono. Ha cominciato nel 1973 con il Cile e non ha mai smesso, utilizzando la medesima strategia ai quattro angoli del pianeta. La tattica è quella consueta, lo stesso hanno fatto in Venezuela: non riconoscere il voto è la prima mossa per delegittimare la sinistra che vince le elezioni e sui loro governi si gettano come avvoltoi con sanzioni, embarghi, aggressioni politico-diplomatiche e commerciali, con l’intento di costringerli alla resa. Il non riconoscimento dei risultati elettorali quando perdono ricorda al mondo intero come gli Stati Uniti riconoscano i loro interessi come i soli legittimi e il loro dominio come unica norma del diritto internazionale. Le loro multinazionali, del resto, che comprano a suon di miliardi di dollari le presidenze statunitensi, devono azzerare le politiche sociali a carattere inclusivo nei diversi paesi per poter entrare a volo radente nelle rispettive economie; sia con il FMI che utilizza la leva del prestito che con i fondi privati speculativi che s’impadroniscono dei servizi sociali, eliminandone la gratuità e trasformandoli in un colossale business.

Evo Morales, però, è uno di quei presidenti che governano per il loro Paese e non destinano le risorse nazionali ai portafogli delle multinazionali USA. Ha espulso la DEA e le forze di sicurezza statunitensi in Bolivia, così come le multinazionali petrolifere che si sono rifiutate di rinegoziare i contratti per lo sfruttamento energetico. Le minacce di Casa Bianca e congressisti e l’elaborazione di piani golpisti, in cammino da mesi, non hanno invertito i pronostici: Evo sarà ancora il Presidente della Bolivia perché così vogliono gli elettori. Del resto perché dovrebbero scegliere diversamente?
Fino al 2005 la Bolivia era il paese più povero della regione. Nei circa 14 anni del governo di Evo, è divenuta leader della crescita economica Sudamericana con una media del 4,9% negli ultimi sei anni e con una inflazione che il Fondo Monetario Internazionale stima in un 2% per il 2019. Il PIL è stato quadruplicato arrivando dai 9,5 miliardi di dollari nel 2005 ai 40 del 2018. Ha ridotto della metà la povertà estrema, passando dal 38,2 del 2005 al 15,2 del 2018. Secondo i dati FAO, la denutrizione è passata dal 30 al 19%. Le disuguaglianze si sono ridotte e la disoccupazione dall’8,1 è scesa al 4,3% mentre la speranza di vita è passata dai 64 anni ai 73. Risultati che sono stati possibili assumendo un modello di economia mista, che prevede dunque l’intervento dello Stato (sia come regolatore che imprenditore) e quello dei privati che concorrono alla generazione del PIL.

La crescita economica ha origine nella scelta di nazionalizzare i settori strategici: era necessario rinegoziare i contratti con le multinazionali del ramo estrattivo, che tenevano per loro l’82% dei proventi delle risorse e pagavano allo stato boliviano il 18%. Invertiti completamente i parametri, con il controllo dello Stato sugli idrocarburi e l’elettricità, principali esportazioni boliviane all’estero, i proventi sono rimasti nel Paese invece che volare nei conti off-shore delle multinazionali statunitensi dell’energia, permettendo gli investimenti pubblici per il finanziamento delle politiche sociali.
Le politiche ridistributive hanno generato una spirale virtuosa: l’aumento dell’occupazione, la crescita dei salari e il sostegno alle piccole imprese artigianali a carattere familiare (che forniscono il 60% dell’occupazione) hanno determinato l’innalzamento della domanda interna. Di questo trend di crescita ne ha beneficiato anche il settore informale, che non è più immerso nella povertà ed ha creato ulteriore impiego. Tra gli interventi a sostegno dell’economia familiare, vanno segnalati il bonus agli studenti, quello alle donne in gravidanza e quello agli anziani.

Sono dati che corrispondono ad un poderoso divieto d’accesso per le multinazionali statunitensi specializzate nel saccheggio dei paesi a sovranità limitata e risorse illimitate, e dunque il golpe statunitense è in marcia; ma la mobilitazione di sindacati e comunità indigene a sostegno di Evo cresce costantemente anche nei territori dove l’opposizione ottiene più consensi.

Minatori, ferrovieri, studenti ed altri settori della popolazione, sostenitori di Evo, hanno già deciso di presidiare La Paz e, se necessario, di agire in prima persona per ripristinare l’ordine costituzionale. Diversi gli episodi di aggressioni a indigeni e simpatizzanti governative da parte di squadracce del latifondo che scatenano il loro razzismo sulle donne indigene. Queste, a decine di migliaia, sono scese in piazza due giorni fa proprio nella zona di Santa Cruz contro il razzismo e a fianco di Evo.
La Bolivia é proiettata suo malgrado in uno scenario difficile. Ancora una volta l’ingerenza degli Stati Uniti sembra destinata a produrre morte, distruzioni e sofferenze. Il tutto nel solito contesto internazionale, con la complicità dei partiti, dei giornali, delle ONG e dei sindacati europei. Il silenzio assordante dell’Unione Europea è parte di quella servitù agli USA che il Presidente Daniel Ortega ha recentemente ricordato senza giri di parole all’ambasciatore di Bruxelles a Managua. Strasburgo condanna Caracas e Managua ma tace su Quito e Santiago, perché per i nemici si protesta e per gli amici si comprende.

Chi sia Trump è ormai noto. Ma è bene ricordare a tutti quelli che lo vorrebbero giustamente fuori dalla Casa Bianca che, volgarità a parte, i suoi avversari statunitensi ed europei non sono tanto migliori di lui.

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