La candidatura alla Casa Bianca dell’ex vice-presidente democratico Joe Biden sembra essere entrata in una fase ascendente grazie al precipitare del gradimento di Donald Trump a fronte soprattutto dei gravissimi problemi economici e sanitari che stanno attraversando gli Stati Uniti. Altri due fattori ancora più importanti, e tipicamente decisivi per garantirsi il successo alle urne nel sistema politico americano, sono però all’opera per lanciare il 77enne Biden verso la presidenza, vale a dire l’impennata dei finanziamenti elettorali e il sostegno dell’apparato di potere governativo, altrimenti noto come “Deep State”.

Sul fronte denaro, una serie di circostanze sta cambiando rapidamente gli equilibri tra i due partiti. Mentre Trump e il Partito Repubblicano fino al mese di aprile avevano un vantaggio in termini di fondi a disposizione di quasi 200 milioni di dollari, più recentemente Biden e i democratici hanno iniziato a incassare cifre enormi dai propri finanziatori. A maggio, anzi, per la prima volta il Comitato Nazionale Democratico e il suo candidato alla presidenza hanno registrato entrate superiori a quelle dei rivali (80,8 milioni di dollari contro 74). Secondo fonti interne al Partito Democratico, a giugno il totale mensile dei finanziamenti elettorali potrebbe addirittura sfondare quota 100 milioni.

L’inversione di tendenza rispetto alle primarie, quando le entrate di Biden apparivano tutto fuorché entusiasmanti, è senza dubbio da collegare alle cambiate condizioni politiche, elettorali e sociali negli USA, in primo luogo a causa dell’emergenza Coronavirus. Il New York Times ha spiegato che la rapida conclusione della stagione delle primarie a causa dell’epidemia ha determinato il precoce coalizzarsi del partito attorno al candidato in pectore, evitando la dispersione di risorse tra gli altri aspiranti alla Casa Bianca.

Inoltre, la drammatica circolazione del virus ha in pratica azzerato le attività elettorali e ridotto al minimo le spese logistiche e quelle destinate ai membri dello staff di Biden. Questi elementi hanno consentito un sensibile risparmio e un conseguente accumulo di risorse da investire da qui a novembre. Soprattutto, la crescente repulsione nei confronti di Trump ha spinto molti americani a donare all’unica alternativa su piazza, nonostante lo scarso entusiasmo generato dall’ex vice-presidente democratico.

La macchina elettorale di Biden e del partito ha visto così allargarsi il bacino dei donatori negli ultimi mesi, fino a contare, per il mese di maggio, su oltre 900 mila contributi in denaro. A risultare decisivi non sono state tuttavia le donazioni di poche decine di dollari sborsate da una moltitudine di piccoli finanziatori, come era accaduto fino a qualche mese fa per la candidatura di Bernie Sanders. Al contrario, l’accelerazione delle entrate per Biden è stata in gran parte prodotta dall’intervento dei grandi finanziatori, cioè uno dei principali punti di riferimento del Partito Democratico.

Senza la possibilità di organizzare cene e ricevimenti esclusivi, durante i quali ricchissimi donatori staccano assegni a parecchi zeri spesso alla presenza del proprio candidato, in queste settimane si è ripiegato su eventi virtuali che hanno permesso ugualmente di raccogliere una valanga di denaro. Un veterano sostenitore del Partito Democratico ha spiegato che un evento di questo genere a favore di Biden ha fruttato venerdì scorso più di due milioni di dollari. L’importo minimo per partecipare tramite il software Zoom era in questo caso di 50 mila dollari. Nel solo mese di giugno, appena sei eventi virtuali riservati ai grandi donatori democratici hanno portato nelle casse della campagna di Biden quasi 22 milioni di dollari.

Aperto invece a tutti gli elettori è stato il comizio on-line di martedì a cui hanno preso parte Biden e l’ex presidente Obama. In poco più di un’ora, 175 mila persone hanno donato 7.6 milioni all’ex vice-presidente. L’intervento di Obama rientra nella strategia del partito per cercare di mobilitare soprattutto i giovani americani, non esattamente eccitati dalla candidatura di Biden, e gli elettori che cercano un’alternativa progressista all’attuale amministrazione. Il timore dei leader democratici è per una possibile ripetizione dei fatti del novembre 2016, quando i sondaggi favorevoli e l’enorme quantità di denaro su cui poteva contare Hillary Clinton, anch’essa legata a doppio filo come Biden all’establishment di Washington, non furono sufficienti a evitarle la sconfitta.

Quale sia in ogni caso l’aspirante alla presidenza favorito dai poteri forti all’interno dell’apparato di potere americano è facilmente immaginabile. L’avversione in questi ambienti per Trump è cresciuta a dismisura dall’inizio dell’anno. La gestione disastrosa dell’emergenza Coronavirus, così come delle proteste contro la brutalità della polizia, ha screditato ancora di più il presidente repubblicano, a cui il “Deep State” americano continua a non perdonare una politica estera confusionaria, troppo tenera nei confronti dei rivali strategici degli Stati Uniti e, in definitiva, non adeguata a garantire gli interessi dell’imperialismo a stelle e strisce nel mutato clima internazionale.

A mostrare le dinamiche in atto dietro le quinte a Washington è stata un’esclusiva pubblicata questa settimana dalla Reuters. Una ventina di ex funzionari ed esponenti di spicco dell’apparato della “sicurezza nazionale” USA, tutti affiliati al Partito Repubblicano, sarebbero cioè pronti a esprimere pubblicamente il proprio sostegno e a partecipare attivamente alla campagna di Joe Biden. Tra gli altri figurano membri delle amministrazioni Reagan, Bush senior e Bush junior. A loro dire, un secondo mandato di Trump metterebbe a serio rischio la sicurezza nazionale americana.

Negli stessi termini si era espresso giorni fa l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, John Bolton, in occasione dell’uscita del suo libro di memorie dalla Casa Bianca. Bolton non era arrivato a dichiarare di voler votare per Biden a novembre, ma auspicava una mobilitazione per evitare la rielezione del suo ex diretto superiore. Queste sezioni della classe dirigente americana, al di là dell’appartenenza politica, vedono dunque nel democratico Biden una scelta più che sicura per riassestare gli obiettivi di politica estera degli Stati Uniti.

Biden, da parte sua, non ha esitato a mostrate piena disponibilità verso questi ambienti. In risposta alla rivelazione della Reuters, uno dei suoi portavoce ha assicurato che l’ex vice-presidente intende “unire il paese e rimediare al caos provocato da Trump, costruendo la coalizione più vasta possibile che includa anche i repubblicani sconvolti da quello a cui hanno assistito negli ultimi quattro anni”.

Queste aperture confermano quali saranno i principi ispiratori di un’eventuale amministrazione Biden. Il fatto che nelle strutture di potere si stia procedendo verso un consolidamento degli equilibri a favore di quest’ultimo era apparso chiaro già all’indomani delle manifestazioni esplose dopo l’assassinio per mano della polizia a Minneapolis dell’afro-americano George Floyd. Attuali ed ex alti ufficiali militari avevano voltato le spalle al presidente proprio mentre cercava di mobilitare le forze armate per soffocare nel sangue la rivolta.

Gli appoggi e il denaro a disposizione di Biden potrebbero comunque non bastare a garantirgli la vittoria a novembre, anche perché consentono a Trump di presentarsi nuovamente come il candidato anti-establishment. La vera campagna elettorale non è nemmeno iniziata e i limiti del candidato democratico, a cominciare da quelli rappresentanti da uno stato mentale in evidente deterioramento, rischiano di farne una vittima sacrificale di Trump nei prossimi mesi. A suo vantaggio giocano ad ogni modo le condizioni dell’economia americana, assieme all’involuzione ultra-reazionaria, per non dire fascista, dell’inquilino della Casa Bianca. Se ciò basterà a fare di Trump un presidente di un singolo mandato è ancora tutto da verificare.

Quel che è certo è che per molti versi una futura amministrazione Biden sarebbe su posizioni più estreme di quella attuale, soprattutto in politica estera. In questi mesi, l’ex vice-presidente ha infatti più volte attaccato Trump da destra, accusandolo in sostanza di non avere mostrato sufficiente aggressività nella gestione delle crisi internazionali degli ultimi anni: dal tentato golpe in Venezuela allo scontro con la Corea del Nord, dal contenimento della Cina all’offensiva contro la Russia, fino al coinvolgimento nel conflitto siriano.

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