Un anno fa, i primi medici cubani venuti a prestare soccorso, lasciavano il Nord Italia. La missione era stata svolta con efficacia, restava solo una parte di quei 53 fratelli in camice bianco. Sembra passato un secolo, ormai ci si sente rientrati nella normalità, ma proprio per questo ha ancor più valore ricordare cosa successe.

Siamo oggi quasi tutti in zona bianca, ma un anno fa, di questi tempi, il mutare dei colori non era in scena. Non c’erano il bianco, il giallo, l’arancione e il rosso a decifrare l’espandersi del contagio. Il colore era la paura: la speranza di un evento che invertisse un destino amaro risultava fuori luogo, appariva come un eccesso di ottimismo. Tutta Italia era in nero, coperta da lutti sui quali un giorno, forse, sapremo di più di quel che sappiamo ora. E in mezzo a tanto dolore e a tanta incertezza, venne allo scoperto il significato dell’aggettivo “alleati”, con scene di furti di mascherine a noi destinate da parte dei nostri partners europei.

 

Ci fu però, Cuba. Che non si chiese se fossimo o no alleati, amici o partners commerciali. Vi fu indifferenza verso ogni altro termine e divenne predominante quello di Solidarietà. Arrivarono in Italia 53 tra medici specialisti, epidemiologi e infermieri cubani ad aiutarci nella battaglia contro un nemico insidioso, del quale conoscevamo poco e anche quel poco solo approssimativamente. Vennero in Italia gratuitamente, armati dei loro camici e della loro apparecchiatura, a rischio della loro stessa vita, ad aiutarci nel momento più duro. Non andarono a formare comitati nei ministeri, non si sedettero ai tavoli di esperti: si insediarono in Piemonte e Lombardia, negli ospedali situati al centro della tormenta Covid, dove morivano pazienti, medici, infermieri e speranze.

Arrivarono nei giorni delle immagini di processioni di mezzi militari contenenti defunti da disperdere: furono immagini che riportarono i più anziani a memorie dell’orrenda stagione della guerra, con l’aggiunta della paura per l’immediato. L’Italia era in ginocchio di fronte al dolore prima che al Covid. Non volevano nulla i cubani, non erano in cerca di null’altro che non fosse esercitare, anche in Italia, la loro missione internazionale, uno dei pilastri sui quali hanno costruito 62 anni di socialismo: stare dalla parte di chi soffre, di chi ha bisogno di aiuto. Mettere fine alle morti evitabili, quelle determinate dalla povertà e dall’ignoranza. Rendere la salute pubblica un diritto universale valido per tutti, a prescindere dalle sue conoscenze e possibilità.

Per questo li trovi in ogni dove del globo terraqueo: Africa, Asia, America Latina e Caraibi e, dal 2020, anche in Europa. Ovunque le malattie si fanno pandemie, i cubani ci sono. Che si chiamino Aids, Ebola, Meningite o Sars, quei camici bianchi non indietreggiano. Scoprono e diffondono gratuitamente vaccini e cure, benché a loro non arrivi nemmeno una aspirina. Vanno a prestare cure dove nessuno va per timore, e guariscono e formano ciò che sarebbe destinato a morte ed ignoranza.

Ci fu all’epoca chi, ammalato di atlantismo intersiziale, emise rantoli in forma di critiche, ritenendo quello cubano un aiuto di valore relativo, perché di scarso impatto complessivo. Non si chiese, ovviamente, quale era invece l’aiuto che proveniva dagli “alleati” ma discettava sugli aiuti “interessati” a suo dire. Perché? Perché gli aiuti provenivano dalla Russia, dalla Cina e da Cuba, mentre gli “alleati” non facevano nulla, a parte rubarci i dispositivi sanitari. Si assisteva insomma, un anno fa, ad una sorta di riproposizione di quanto prevedeva il filosofo di Treviri, quando vaticinava la dicotomia irrisolvibile tra socialismo e barbarie.

Nel ciarlare scomposto di funzionari politici travestiti da giornalisti, l’aiuto cinese e russo era “una tattica” per infiltrare le nostre poderose forze armate (intente a studiare come spezzare le reni ai pollai, forse) mentre l’aiuto cubano veniva liquidato come insignificante per peso e dimensione. Non si pose fortunatamente il tema dell’ipotetico interesse, ma solo perché non si poteva ignorare il curriculum straordinario dell’isola socialista in termini di solidarietà ed il rispetto e la riconoscenza che mezzo mondo gli tributa.

Nella epidemiologia Cuba è uno dei paesi più avanzati. Chi non sa dovrà informarsi su cosa ha fatto in Africa, in America Latina e negli stessi Caraibi, dove ha affrontato da sola l’esplosione del virus Ebola nella vicina Haiti sconfiggendolo come già aveva fatto in Africa. La virologia cubana è una delle aree di maggiore qualità di una sanità già straordinaria, con numeri che situano l’isola bloccata e osteggiata da 60 anni, ai primi posti del mondo per eccellenze sanitarie. C’è poco da aggrottare ciglia e sopracciglia, i dati dell’OMS e quelli della OPS lo confermano da decenni. Questo fa Cuba: mette a disposizione di tutti il poco che ha ed il molto che sa. Questo fece in Italia.

Proprio per l’esperienza cumulata sul campo, la missione della Brigata Henry Reeve fu un gesto di solidarietà disinteressato e anche la Spagna godette della solidarietà cubana. Si deve quindi essere dotati di un cinismo particolare, di una vergognosa codardia per poter mordere la mano di chi ti aiuta, come hanno fatto i parlamentari spagnoli a Strasburgo, che hanno deciso di presentare, insieme ai loro colleghi fascisti dell’Est Europa, una mozione di censura a Cuba, dimenticando l’aiuto che ricevettero dai cubani, che si recarono volontariamente e gratuitamente nel loro Paese, che era in ginocchio di fronte al Covid.

La mozione ha visto il voto favorevole di Berlusconi e del suo sottopancia monarchico Tajani, ma stiamo parlando della periferia della decenza. Ma il voto delle Nazioni Unite che con 184 a favore e 2 contrari chiede la fine del blocco contro Cuba, fa passare in secondo piano le cialtronate del Parlamento Europeo, ormai ridotto a immondezzaio del Vecchio Continente.

L’Italia come Paese deve prendere le distanze in forma netta e chiara da questi nauseabondi rigurgiti del franchismo. Roma ha un debito d’amore e d’onore con Cuba. Che andrebbe ripagato aiutandoli con la fornitura di quanto hanno bisogno, anche affrontando le possibili rappresaglie statunitensi, magari pronti a restituirne qualcuna. Ma, soprattutto, l’Italia dovrebbe spendere il suo peso internazionale proponendo la Brigata Henry Reeve per il Nobel per la Pace. Se non altro, almeno per una volta, non andrebbe ai criminali di guerra.

Si devono quindi attivare energie e sforzi per aiutare l’isola a dotarsi di ogni strumento medicale che non sia in grado di procurarsi da sola. Arrivata alla fase tre della sperimentazione dei suoi vaccini (Soberana e Abdala) Cuba ha bisogno di essere aiutata per poter poi aiutare tutti. La UE - e Italia e Spagna in primo luogo - per una volta invece che correre dietro ai mercanti e alle spie travestiti da dissidenti, mettano mano al portafoglio e aiutino ora, qui e in concreto, Cuba.

Dimostrino, per una volta, che gli interessa la nazione cubana e non solo destabilizzarne il governo. Se non per voglia dovranno aiutare Cuba per obbligo morale. Perché nessuno, meno che mai chi è in debito, può eludere la legge fondamentale del consesso internazionale; quella che afferma a chiare lettere la precondizione fondamentale della solidarietà, la prima di ogni verità: amore con amor si paga.

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