Il controllo e la manipolazione dell’informazione in Occidente sono giunti a uno stadio talmente avanzato da avere spinto il governo americano a istituire una speciale commissione che in molti hanno definito in questi giorni come un vero e proprio “ministero della Verità” di sapore orwelliano. Il nuovo organo sarà alle dipendenze dell’ultra-repressivo dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS) e si dedicherà in gran parte a combattere la “disinformazione russa”. Retorica a parte, il vero incarico della commissione sarà di mettere il bavaglio a qualsiasi voce critica della politica estera di Washington.

 

Sono principalmente due gli eventi che hanno portato l’amministrazione Biden a creare questo comitato di censura. Il primo è chiaramente la guerra in Ucraina e il secondo la recente acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk. La controffensiva anti-russa poggia infatti sull’opera di una rodatissima macchina della propaganda che da settimane sta cercando di decontestualizzare il conflitto in corso per attribuire al Cremlino l’intera responsabilità della guerra. Questo compito viene già svolto dai media ufficiali in collaborazione con il governo degli Stati Uniti e gli altri paesi della NATO, ma il processo di falsificazione della realtà è talmente macroscopico da richiedere in aggiunta il ricorso a ulteriori strumenti di censura per silenziare le opinioni contrarie o, semplicemente, di coloro che cercano di dare un quadro equilibrato e oggettivo dei fatti di queste settimane.

Ciò è in atto da tempo anche sui principali “social media” occidentali, impegnati a cancellare decine di account “filo-russi” e a segnalarne molti altri senza alcun fondamento come “affiliati allo stato russo”. L’istituzione della commissione sulla disinformazione indica ora un’intensificazione della repressione di opinioni che si discostano da quelle ufficiali, messa in atto con tutte le armi a disposizione di un dipartimento, come il DHS, ben rodato da due decenni di attività da stato di polizia nell’ambito della “guerra al terrore” e del contrasto all’immigrazione clandestina.

Il secondo fattore da considerare è il possibile scardinamento delle regole sulla pubblicazione dei contenuti su Twitter dopo l’acquisto del fondatore di Tesla. Musk ha condotto la propria scalata al “social” in nome della libertà di espressione più o meno assoluta, prospettando un allentamento delle restrizioni finora imposte appunto per combattere la “disinformazione”. Senza entrare nel merito delle implicazioni relative al controllo di una piattaforma come Twitter da parte dell’uomo più ricco del pianeta, la sola ipotesi di una nuova politica che permetta di esprimere liberamente critiche contro l’imperialismo americano ha innescato il panico a Washington, soprattutto negli ambienti del Partito Democratico.

A proposito dei democratici, è interessante ricordare come molti esponenti di questo partito durante l’amministrazione Trump avessero invocato la dissoluzione del dipartimento della Sicurezza Interna sull’onda degli abusi commessi nei confronti degli immigranti provenienti dal confine meridionale. Con l’approdo di Biden alla Casa Bianca, il DHS sembra invece avere intrapreso un percorso di trasformazione in un organo di contrasto alla “propaganda russa”, riguardo sia alle solite “interferenze” nel processo elettorale USA sia alle operazioni militari in Ucraina.

Il dipartimento per la Sicurezza Interna fu creato dall’amministrazione Bush jr. all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001 e diventò in fretta un elemento cruciale dell’apparato di sorveglianza destinato teoricamente a contrastare il terrorismo di matrice islamista. In questo senso, il DHS ha contribuito in maniera decisiva all’erosione dei diritti costituzionali e democratici negli Stati Uniti, operando come organo di intelligence e, in parallelo, di repressione vera e propria.

Se ci fossero dubbi sull’utilità della commissione voluta dalla Casa Bianca, a fugarli basterebbe l’identità della persona che è stata scelta per dirigerla. La responsabile delle attività di lotta alla “disinformazione” sarà Nina Jankowicz, il cui curriculum rappresenta alla perfezione il fanatismo “liberal” nella promozione degli interessi imperialistici USA in nome dei valori democratici. La Jankowicz ha lavorato a lungo per il National Democratic Institute (NDI), affiliato al famigerato National Endowment for Democracy (NED), organismo creato dall’amministrazione Reagan per condurre operazioni in precedenza svolte dalla CIA e principalmente dedicate al rovesciamento di governi sgraditi a Washington, sotto la bandiera della democrazia a stelle e strisce.

Uno dei fondatori del NED, Allen Weinstein, spiegava al Washington Post in un’intervista vecchia di trent’anni come “molte cose che noi [il NED] facciamo oggi le faceva clandestinamente la CIA 25 anni fa”. Per il NDI, Nina Jankowicz ha lavorato a “progetti di assistenza per la promozione della democrazia” in Russia e Bielorussia. Nel concreto, questi “progetti” puntano a destabilizzare quei governi che non intendono allinearsi agli interessi americani, alimentando movimenti di protesta riconducibili, nella loro forma più radicale, alle cosiddette “rivoluzioni colorate”.

Oltre ad avere prestato i suoi servizi a Washington, tra il 2016 e il 2017 la Jankowicz ha ricoperto a Kiev l’incarico di “consigliere per la disinformazione e le comunicazioni strategiche” del ministero degli Esteri ucraino. Va ricordato che negli anni successivi al colpo di stato del 2014 appoggiato dall’Occidente, il regime ucraino post-Maidan ha portato avanti una campagna feroce di repressione contro ogni elemento filo-russo o comunque contrario al muro contro muro con Mosca nella politica, nei media e tra la popolazione in generale.

Il compito di personaggi come Nina Jankowicz era dunque in sostanza di proiettare in Occidente l’immagine di un governo liberale e democratico, esposto alla minaccia di un’aggressione militare da parte di una potenza dittatoriale come la Russia. Il tutto mentre sul fronte domestico si compiva una deriva autoritaria, accelerata tra l’altro dall’integrazione negli organi dello stato di elementi apertamente neo-nazisti.

Queste stesse attività la Jankowicz le ha svolte anche dopo essere tornata in patria, ottenendo immediatamente un posto ben retribuito presso il Wilson Center, uno dei think tank finanziati dal governo che si dedicano alla promozione di un’aggressiva politica estera USA. Un’anticipazione di quella che sarà la sua gestione della nuova commissione sulla disinformazione si può dedurre dalle prese di posizione negli ultimi anni sulle questioni legate al cosiddetto “Russiagate” che aveva coinvolto l’ex presidente Trump.

L’esempio più clamoroso fu l’attacco al New York Post dopo la pubblicazione della notizia del rinvenimento di materiale compromettente, in relazione agli affari della famiglia Biden in Ucraina, da un computer portatile appartenente al figlio dell’attuale presidente americano, Hunter. La Jankowicz aveva bollato la rivelazione come un’operazione di propaganda russa, ma recentemente l’autenticità della notizia è stata confermata anche da pubblicazioni ufficiali come New York Times e Washington Post.

Nella sua crociata contro qualsiasi denuncia dei crimini americani, la Jankowicz non poteva trascurare un attacco frontale contro WikiLeaks, definito “feccia”, accusato di diffondere “disinformazione”, nonostante non sia mai stata smentita una sola rivelazione del sito di Julian Assange, e di essere parte della propaganda russa. Altri giornalisti e testate indipendenti sono stati additati a loro volta dalla neo-direttrice della censura di Washington come diffusori di “fake news” oppure “agenti russi” o “complottisti”.

In merito all’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk, la Jankowicz ha seguito la stessa linea d’attacco. Il numero uno di Tesla è stato oggetto di polemica perché ritenuto un “assolutista della libertà di espressione”, valore che per la Jankowicz rappresenta piuttosto una forma di “abuso”. A suo dire, lo schema “libertà di espressione contro censura” è una “falsa dicotomia” e ciò che servirebbe è piuttosto una più robusta forma di “regolamentazione” dei contenuti del “social media”, ovvero un rigido controllo che blocchi la diffusione di opinioni contrarie alla versione ufficiale dei fatti offerta dal governo americano e dai suoi alleati.

In questo scenario, è evidente che il compito del nuovo “ministero della Verità” negli USA sarà anche di intensificare gli sforzi per far passare sotto silenzio il carattere e i crimini del regime ucraino. Come per i conflitti in Siria o a Gaza, i massacri commessi dalle forze affiliate all’Occidente vengono quasi del tutto ignorati, mentre i casi che riguardano i nemici di Washington sono subito denunciati a gran voce, anche quando non ci sono prove delle reali responsabilità.

Un esempio di questa dinamica è l’indagine, pubblicata in questi giorni dalla giornalista canadese indipendente Eva Bartlett, sul bombardamento di settimana scorsa del mercato di Donetsk per mano del regime di Kiev. L’attacco, da considerare a tutti gli effetti come un atto di terrorismo, è stato condotto deliberatamente in un orario in cui il mercato era affollato di civili e ha fatto cinque vittime e 23 feriti. Eva Bartlett ha spiegato che l’operazione fa parte della “incessante campagna di bombardamenti di edifici civili nelle repubbliche del Donbass” che Kiev ha portato avanti in questi ultimi otto anni. “I media occidentali”, continua la reporter canadese, “non ne parlano” e “i politici occidentali non esprimono condanne”. Quando, invece, i giornalisti si recano sui luoghi dei fatti e documentano le stragi, “vengono messi a tacere”.

Un altro esempio lampante della strategia di disinformazione all’opera in Occidente è il trattamento riservato da media, politici e commentatori alle organizzazioni paramilitari ucraine di tendenze neo-naziste. Fino a pochi mesi fa, anche molte pubblicazioni “mainstream” avevano correttamente documentato il carattere estremista e violento di gruppi come il battaglione Azov, nonché i pericoli derivanti dalla loro integrazione nelle forze di sicurezza di Kiev. Con l’inizio delle operazioni militari russe a fine febbraio, al contrario, nonostante i neo-nazisti ucraini abbiano manifestato un radicalismo ancora più preoccupante, questi ultimi sono stati oggetto di una sorta di ripulitura d’immagine, diventando di volta in volta semplicemente “nazionalisti”, “patrioti” o addirittura “kantiani”, fino a che un articolo di qualche giorno fa del New York Times ha definito come se nulla fosse il “reggimento Azov una unità dell’esercito ucraino”.

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