I risultati delle elezioni di qualche giorno fa in Libano hanno mandato segnali contraddittori circa gli equilibri politici di un paese che sta attraversando una drammatica crisi economica, per la quale continuano a non vedersi immediate soluzioni. I cambiamenti nel numero dei seggi assegnati alle varie forze politiche sono stati relativamente trascurabili, mentre il dato forse più significativo sembra essere l’ingresso in parlamento di un numero tutto sommato elevato di candidati non legati a partiti su base settaria. Il sistema fondato sulla suddivisione netta tra le varie comunità religiose resta tuttavia intatto, così come il periodo post-elettorale riproporrà quasi certamente una delle dinamiche più tipiche della vita politica libanese, ovvero interminabili trattative per la formazione di un gabinetto che, più ancora che in passato, dovrà mettere assieme idee, attitudini e alleanze internazionali diametralmente opposte.

 

Il tema preferito dalla stampa ufficiale in Occidente e in Medio Oriente è stato quello dell’indebolimento di Hezbollah e, in generale, del fronte di “Resistenza” sciita e dei suoi alleati cristiani. Questa alleanza deteneva una maggioranza di 71 seggi su 128 nel parlamento uscente, ma dopo il voto di domenica il numero complessivo è sceso a 58. Il calo non è dovuto tanto a Hezbollah e al movimento sciita Amal, quanto piuttosto alla flessione degli altri partiti cristiani e drusi che fanno parte di questo blocco politico. A essere sconfitti sono stati anche alcuni candidati di spicco di queste ultime comunità, spesso battuti da neofiti della politica svincolati da affiliazioni religiose.

Un acceso dibattito ha provocato in particolare la prestazione dei due principali partiti cristiani maroniti. Il Movimento Patriottico Libero (FPM) del presidente, Michel Aoun, e di suo genero ed ex ministro degli Esteri, Gebran Bassil, tradizionale alleato di Hezbollah, è stato scavalcato dai nazionalisti delle Forze Libanesi (LF) del criminale di guerra Samir Geagea. Questi ultimi hanno messo al centro della propria campagna elettorale l’indebolimento di Hezbollah e il disarmo del “partito di Dio”. Geagea, il cui movimento è accusato di avere ucciso sette membri di Hezbollah e Amal durante una manifestazione di protesta lo scorso ottobre, ha beneficiato del massiccio sostegno dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti, nonché di Israele, soprattutto dopo che Riyadh aveva perso il proprio punto di riferimento sunnita in Libano, il Movimento del Futuro dell’ex premier Saad Hariri, ritiratosi mesi fa dalla politica e impegnato in una campagna di boicottaggio delle elezioni.

Il vuoto creato da Hariri nella comunità sunnita ha favorito i candidati indipendenti, il cui ingresso in politica va ricondotto al movimento di protesta anti-sistema e anti-settario esploso nell’autunno del 2019. I seggi ottenuti da questi candidati sono 13 e potrebbero diventare decisivi per la formazione del nuovo governo, dal momento che i due principali schieramenti, quello dominato da Hezbollah-Amal-FPM e quello filo-saudita e filo-occidentale, non potranno disporre autonomamente di una maggioranza in parlamento.

Nonostante ancora una volta la questione del ruolo di Hezbollah nella vita politica e nella società libanese sia stata promossa artificialmente dai rivali del partito-milizia sciita e dai loro sponsor a Riyadh, Washington e Tel Aviv, i risultati non sembrano aver dato loro ragione. Hezbollah ha ottenuto oltre 20 mila voti in più rispetto al 2018 e il più alto numero di consensi in singoli distretti, quelli considerati sue roccaforti, anche se la peculiarità del complicatissimo sistema elettorale libanese ha pesantemente diluito il peso della performance del “partito di Dio”.

Questo dato conferma come Hezbollah resti estremamente popolare tra la comunità sciita e il principio della difesa dell’indipendenza del Libano, nonché il ruolo di deterrente contro la minaccia israeliana, continuino a trovare consensi nel paese dei cedri, per non parlare dei servizi basilari che è in grado di assicurare a fronte della carenza assoluta di quelli pubblici.

Il sistema elettorale e politico uscito dagli accordi che misero fine alla guerra civile (1975-1990) prevede l’assegnazione di 64 seggi del parlamento alla comunità musulmana e altrettanti a quella cristiana. All’interno di queste quote ci sono poi ulteriori suddivisioni in base alle varie comunità che compongono le due fedi. Inoltre, la carica di presidente deve essere ricoperta da un cristiano, quella di primo ministro da un sunnita e quella di “speaker” del parlamento da uno sciita. Le difficoltà nel far combaciare tutti gli ingranaggi politici ha quasi sempre creato lunghi periodi di stallo in Libano, con le trattative per la formazione dei vari governi protrattesi per mesi.

Il precipitare della situazione economica negli ultimi anni ha reso sempre più urgenti misure a sostegno di una popolazione che, secondo alcune stime, si trova oggi tra il 75% e l’80% al di sotto del livello ufficiale di povertà. I governi occidentali, con quello francese in prima linea, spingono da tempo per “riforme” drastiche che, tuttavia, la classe politica libanese non è disposta a implementare per non destabilizzare un sistema che le garantisce ampi privilegi. Le iniziative lanciate da Parigi e da Washington puntano però in buona parte sull’adozione delle direttive rovinose del Fondo Monetario Internazionale in cambio di prestiti, mentre il vero obiettivo dei governi occidentali, di Israele e dei regimi del Golfo Persico continua a essere l’indebolimento di Hezbollah e la fine dell’influenza dell’Iran sul paese dei cedri.

A questo proposito, è interessante osservare come l’accusa ricorrente nei confronti di Hezbollah è che il partito-milizia sciita abbia consegnato il Libano alla Repubblica Islamica. Le Forze Libanesi cristiane hanno insistito in campagna elettorale sull’impegno a difendere la sovranità del paese, sottraendolo appunto alla morsa in cui lo costringerebbe Teheran attraverso Hezbollah. Queste posizioni riflettono evidentemente l’agenda saudita, americana e israeliana e, ad ogni modo, non si tratta di un elemento nuovo, visto che il Libano è tradizionalmente terreno di confronto tra potenze regionali e non solo.

Quel che va sottolineato è tuttavia il particolare attivismo di USA e Arabia Saudita nel sostenere la campagna delle Forze Libanesi e dei partiti sunniti potenzialmente in grado di intercettare i voti degli elettori orfani di Hariri. Rivelazioni giornalistiche nelle scorse settimane avevano parlato addirittura di “valigie di denaro” proveniente da Riyadh e destinato a influenzare l’esito del voto in Libano. L’ambasciata saudita e quella americana si sono inoltre impegnate apertamente per far confluire il maggior numero di voti possibile sui partiti disposti a promuovere gli interessi di Riyadh e Washington, assieme a quelli di Tel Aviv.

Le “interferenze” di questi paesi sul processo elettorale in Libano sono state insomma continue e ben documentate, anche perché avvenute in buona parte alla luce del sole. C’è da chiedersi quale sarebbe stata la reazione dei governi di Stati Uniti o Arabia Saudita se lo stesso comportamento lo avessero tenuto i diplomatici iraniani o siriani. La questione della sovranità libanese è in altre parole in discussione solo se a metterla a rischio è l’Iran. Le manovre per influenzare il processo politico in questo paese da parte dei governi occidentali e dei loro alleati in Medio Oriente sono invece considerate parte integrante della normale dialettica democratica.

Le speranze sollevate infine da molti osservatori per i possibili progressi che si intravedono, grazie all’apertura delle porte del parlamento libanese a un numero consistente di candidati indipendenti, devono essere approcciate con cautela. Il movimento di protesta che si era diffuso in fretta tra il 2019 e il 2020 si è infatti dissolto quasi completamente sotto il peso delle difficoltà economiche crescenti e della frustrazione per un sistema bloccato come pochi altri nel pianeta.

Quei timidi segnali arrivati dal voto rischiano di rimanere tali nelle prossime settimane, quando a prendere il sopravvento saranno nuovamente i conflitti politici e le ingerenze esterne. A testimonianza della realtà poco incoraggiante c’è il dato dell’astensionismo, tradizionalmente elevato in Libano e quest’anno ancora più marcato. Gli elettori recatisi alle urne sono stati appena il 41% del totale, una percentuale cioè di otto punti inferiore rispetto al voto del 2018, prima cioè del movimento popolare anti-sistema che, per un breve periodo, aveva fatto intravedere qualche possibilità di cambiamento nel paese dei cedri.

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