Sono in molti al di fuori dei circuiti dei media ufficiali a pensare che il conflitto in Ucraina darà una spinta forse decisiva alle tendenze multipolari in atto già da alcuni anni. A farne le spese sarà il dominio già traballante degli Stati Uniti, con lo spostamento del baricentro strategico globale verso il continente asiatico. Un indizio potenzialmente esplosivo dell’accelerazione che questo processo starebbe vivendo è la notizia, circolata in questi giorni, che l’Arabia Saudita starebbe finalizzando con la Cina un accordo per vendere il proprio petrolio a Pechino non più in dollari ma in yuan. Se confermato, questo scenario rappresenterebbe l’inizio della fine dei cosiddetti “petrodollari”, su cui si basa in gran parte la posizione finora indiscussa dell’America di superpotenza finanziaria e, di conseguenza, economica, politica e militare.

 

La stipula di contratti di fornitura di greggio in yuan tra Riyadh e Pechino è in discussione in realtà da anni, ma gli eventi degli ultimi mesi e, in particolare, delle settimane seguite all’inizio delle operazioni russe in Ucraina, potrebbero avere convinto la casa regnante saudita a considerare seriamente questa opzione. Le ragioni che hanno presumibilmente influito su questo cambiamento di rotta dell’Arabia sono fondamentalmente due: il malcontento nei confronti dell’alleato americano o, più precisamente, per le insufficienti garanzie di sicurezza offerte da Washington e il peso crescente dell’economia asiatica e del consumo di petrolio in questo continente.

Il ruolo del dollaro come principale riserva valutaria mondiale è assicurato precisamente dal reinvestimento dei dollari utilizzati per le transazioni petrolifere in “asset” in questa valuta e per investimenti in mercati denominati in dollari. Ciò determina appunto la posizione dominante del dollaro e la potenza finanziaria degli Stati Uniti che possono, in sostanza, stampare moneta in modo virtualmente illimitato per finanziaria le proprie spese. Su questa realtà si fonda la forza degli USA ed è il frutto di un accordo siglato tra l’amministrazione Nixon e i regnanti sauditi negli anni Settanta del secolo scorso, in base al quale questi ultimi accettavano di vendere petrolio esclusivamente in dollari in cambio della “protezione” americana. Attualmente, circa l’80% delle transazioni petrolifere nel mondo sono effettuate in dollari.

In questo equilibrio consolidato si è evidentemente inserita la Cina che, per restare all’ambito petrolifero, è oggi destinataria di oltre un quarto delle esportazioni di greggio saudita. I piani strategici di Pechino non si fermano però qui. La transizione in atto è favorita da una collaborazione che tocca svariati settori, da quello del nucleare civile a quello militare. Una partnership che ha intrapreso insomma una direzione diametralmente opposta a quella tra Riyadh e Washington. Basti pensare, per avere un’idea dello stato dei rapporti tra i due alleati storici, ai recenti rifiuti del sovrano saudita, Salman, e dell’erede al trono, Mohammad bin Salman (MBS), di parlare telefonicamente con il presidente Biden, impegnato a trovare qualche milione di barili di petrolio da immettere sul mercato al posto di quello russo.

Mentre il feeling tra il regno wahhabita e l’amministrazione Trump era cosa ben nota, le relazioni bilaterali si sono deteriorate con l’avvento di Biden alla Casa Bianca. Uno dei fattori cruciali, oltre al rinnovato impegno per rimettere in piedi l’accordo sul nucleare iraniano, è stato probabilmente la freddezza americana nei confronti dell’aggressione saudita nello Yemen, anche se più per un problema di immagine internazionale che per scrupoli dovuti al massacro di civili. Alle relative restrizioni alla vendita di armi ai sauditi da impiegare in Yemen si devono aggiungere i mancati interventi americani per difendere il regno dalle crescenti offensive dei “ribelli” Houthis, contro cui combattono dal 2015 nel paese della penisola arabica.

A ben vedere, questi fattori sono più una conseguenza del malumore diffuso a Washington per la politica estera sempre più indipendente dell’Arabia Saudita, la cui leadership sotto il sovrano de facto Mohammad bin Salman, ha intensificato i legami non solo con la Cina ma anche con la Russia. Un funzionario saudita di alto livello citato nei giorni scorsi dal Wall Street Journal ha spiegato che “le dinamiche sono radicalmente cambiate. Le relazioni tra Riyadh e Washington non sono più le stesse. La Cina è il primo importatore di greggio del pianeta e [Pechino] sta offrendo parecchi incentivi al regno”.

Da considerare in questa equazione c’è anche il progressivo sganciamento degli Stati Uniti dal petrolio saudita. Negli anni Ottanta, gli USA importavano circa due milioni di barili di greggio al giorno dall’Arabia, mentre nel dicembre dello scorso anno ammontavano a 500 mila. Le esportazioni saudite dirette in Cina hanno avuto invece un trend inverso e nel 2021 sono state in media di quasi 1,8 milioni di barili al giorno.

Oltre a indebolire il dollaro e la posizione globale degli Stati Uniti, l’utilizzo dello yuan nelle transazioni petrolifere comporterebbe un rafforzamento della valuta cinese sui mercati finanziari internazionali. Allo stesso tempo, l’esempio saudita potrebbe incoraggiare altri produttori di petrolio a considerare lo yuan per i pagamenti, innescando un effetto domino che non farebbe dormire sonni tranquilli agli americani. Dopo l’Arabia, i maggiori fornitori di greggio della Cina sono la Russia, l’Angola e l’Iraq. L’economista Gal Luft dell’Institute for the Analysis of Global Security, autore di un volume sulla de-dollarizzazione, ha riassunto in questo modo le dinamiche appena descritte: “Il mercato del petrolio, e per estensione tutto il mercato globale delle materie prime, rappresenta la polizza assicurativa dello status del dollaro come valuta di riserva. Se questo mattone viene rimosso, il muro inizia a crollare”.

Come si diceva all’inizio, l’impulso della guerra in Ucraina potrebbe risultare determinante. Per semplificare, la facilità con cui gli USA e l’Occidente hanno preso iniziative per escludere la Russia, almeno a livello teorico, dal sistema finanziario internazionale, deve avere fatto riflettere molti paesi, a cominciare appunto dalla Cina, sulla necessità di creare un sistema alternativo in questo ambito, svincolato dal controllo di Washington e dei suoi alleati.

Le forze centrifughe non interessano peraltro solo il settore petrolifero, per quanto importante. La stessa esclusione di alcune banche russe dal sistema di comunicazione interbancario SWIFT ha già accelerato il perfezionamento di quelli alternativi che Mosca e Pechino hanno introdotto da tempo. Notizia dei giorni scorsi è anche l’intesa raggiunta tra la Cina e i paesi dell’Unione Economica Eurasiatica (Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan) per l’istituzione di un meccanismo finanziario e monetario indipendente dal sistema dominato dal dollaro. Questa Unione guidata dalla Russia è sempre più integrata nella “nuova via della seta” cinese (“Belt and Road Initiative”) e l’insieme dei progetti promossi in collaborazione con Pechino rappresentano un richiamo fortissimo non solo per altre organizzazioni multilaterali asiatiche (ASEAN, SCO), ma anche per singoli paesi dello stesso continente (Iran, Siria) e di altri continenti (Africa, America Latina).

Sempre legata alla crisi ucraina è infine anche la discussione in corso per la vendita di petrolio russo all’India attraverso un meccanismo che utilizzi rubli e rupie, sganciato cioè dal dollaro. Anche in questo caso le implicazioni sono tutt’altro che trascurabili. L’India, che a lungo aveva importato petrolio dall’Iran sotto sanzioni, è da molti anni al cento delle strategie americane di contenimento della Cina e i governi di qualsiasi orientamento succedutisi a Delhi hanno finora promosso il consolidamento della partnership con Washington. Per una serie di ragioni di natura economica e strategica, però, le resistenze all’interno della classe dirigente indiana sono aumentate negli ultimi tempi, fino a sfociare in una clamorosa opposizione alle pressioni americane per isolare la Russia, con cui peraltro l’India intrattiene storicamente relazioni molto strette, soprattutto sul fronte delle forniture militari.

La posta in gioco è in definitiva lo scardinamento del sistema unipolare dominato dagli Stati Uniti, da ottenere attraverso azioni coordinate tra le potenze emergenti. In questo quadro, la spallata ai “petrodollari”, anche se ben lontana dall’essere definitiva, potrebbe diventare l’elemento decisivo e, per questa ragione, sarà contrastata in tutti i modi da Washington. Sono tuttavia le stesse contraddizioni delle iniziative americane per invertire il declino a incoraggiare le dinamiche multipolari, come dimostra la guerra in Ucraina e la vera e propria isteria sanzionatoria che si sta abbattendo sulla Russia di Putin.

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