di Fabrizio Casari

Quando il Sudafrica era solo il sudafrica, quando Mandela era un prigioniero e gli afrikaners erano al governo, il calcio era lontano da Città del Capo. Nelle scuole e nelle strade per bianchi si giocava a golf, a cricket. Il rito del the alle cinque era l’unico momento nel quale uomini e donne del regime somigliavano ad esseri umani.

Lo sport era quello dei colonizzatori: occhi chiari e capelli biondi, reyban rigorosamente a specchio e modi da schiavisti, era difficile trovare qualcuno correre dietro a un pallone. Preferivano semmai lo sport nazionale, quello della caccia al nero, sostituto locale della caccia alla volpe. Nei ghetti di Johannesburg, come nel paese in generale, la polizia del regime segregazionista brindava a sangue per ogni giorno di sopravvivenza dell’apartheid.

Lo sport che andava per la maggiore non era lo sport della maggioranza; quello era semmai la sopravvivenza, come fosse il remake quotidiano di “Fuga per la vittoria”. Morivano come mosche sotto la repressione della polizia nazista al servizio di Pick Botha, ma non indietreggiarono di un millimetro. Fino a quando venne il tempo buono, quello in cui, grazie alle guerre di liberazione in Africa e grazie al contributo dei cubani, l'Africa passò ad essere degli africani e il sudafrica divenne Sudafrica.

Il regime segregazionista, che aveva già perso da molto tempo la decenza ed il rispetto, cominciò a perdere quota e, un giorno, perse anche il potere. Il virus della libertà si era propagato dall’Angola al Mozambico, dallo Zimbawe alla Namibia. Il Sudafrica era l’ultima tappa di un viaggio durato persino troppo a lungo. Quando il sudafrica era l'apartheid, il suo confine era Capo di Buona Speranza; quando divenne Sudafrica il confine divenne ogni luogo del mondo.

Quando il sudafrica divenne Sudafrica, fu il giorno della fine del regime, che preferì, obbligato dalla realtà ma non per vocazione, cedere il potere senza combattere. De Klerk si dimostrò abile, scambiando dominio con sopravvivenza, apartheid con collaborazione. Venne allora il giorno di Mandela, tra le figure più belle della storia del ventesimo secolo.

Ribelle, guida di tutto un popolo, figura indomabile di combattente. Questo è stato ed è Nelson Mandela. Nessuna prigione lo trasformò mai in un detenuto: fu prigioniero, ostaggio non collaborativo, simbolo e guida della rivolta della maggioranza. La sua detenzione era inutile, perché è inutile tentare di imprigionare lo spirito di un uomo libero e, meno che mai, di un popolo che vuole diventarlo.

Tra poche ore si apriranno le celebrazioni del campionato mondiale. Coreografie a parte, tifo escluso, sarà una celebrazione diversa da tante altre. Celebrerà, prima e oltre il campionato del mondo di calcio, l’ingresso del Sudafrica nel mainstream, come fosse un atto di nascita dell’identità internazionale di un paese. Un paese che si definisce “Rainbow Nation”, arcobaleno, per descrivere un territorio libero da discriminazioni razziali.

Per questo non leggerete ora pronostici e previsioni, discussioni tecniche sulle diverse squadre e allenatori. Siamo seriamente occupati a gustarci con gli occhi gli abitanti del Sudafrica divenuti padroni del loro paese. Per la prima volta, gli stranieri sono ospiti paganti, non occupanti.
Prosit.

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