di Giovanni Gnazzi

Un mondiale finito come doveva finire, con la squadra più forte sul podio. Tra i verdetti, oltre alla consacrazione della vincitrice, numerose sorprese ma nessuna novità assoluta. Per tutta la fase dei gironi è stato possibile illudersi di grandi stravolgimenti del calcio globalizzato, con Inghilterra, Spagna e Italia e Russia che lasciavano il torneo magari senza infamia, ma certo senza lodi.

Sembrava vivere la favola della Costa Rica e dell’Iran, degli USA e della Colombia, ma alla fine le quattro finaliste sono state Argentina, Germania, Olanda e Brasile, cioè quattro delle storiche capitali del calcio globale, anche se l’Olanda vi appartiene solo dalla metà degli anni ‘70.

Per i brasiliani la festa non è finita certo come avrebbero voluto. C’è però da sottolineare come il Brasile non poteva ottenere più di quello che ha ottenuto. Anzi forse ha raccolto persino di più di quello che poteva legittimamente aspettarsi: i verdeoro di oggi sono una squadra che possiede solo due fuoriclasse e un paio di buoni giocatori. Risultano poco diplomatiche le parole dell’ex capitano tedesco Mathaus, che senza mezzi termini ha accusato i brasiliani di piangere in ogni occasione; chi conosce i brasiliani sa come il futebol sia una religione laica che non conosce limiti. Uno dei tanti riti sincretici del modo di essere, d’interpretare il calcio.

Quello che lascia pensare, semmai, è che quel modo tutto brasileiro di concepire il calcio sia stato soffocato da un export continuato dei suoi migliori talenti, che arrivano in Europa ad imparare come la tattica e il cinismo siano superiori all’inventiva e alla fantasia, come l’equilibrio in campo sia più importante della giocata creativa, di quella lucida follia che, unici al mondo, li ha fatti giocare con il 4-2-4, autentico azzardo in faccia al controllo dei match.

Il calcio brasiliano riprenderà ad essere quello che è sempre stato, soprattutto se i suoi allenatori impareranno cos’è il calcio carioca. Ma c’è un altro Brasile che, a dispetto di quanto prevedevano le cassandre (spesso interessate), ha saputo gestire con ordine e capacità un evento che avrebbe messo a dura prova le capacità organizzative di qualunque paese.

Si ipotizzano ora ripercussioni politiche sulle elezioni dell’autunno prossimo; forse confondendo speranza con analisi s’intravvede la possibilità che Dijlma paghi anche la sconfitta al mondiale. Ma se la squadra di Scolari non era all’altezza, quella della destra brasiliana sta messa pure peggio.

Quanto ai suoi tifosi, avviliti e tristi per quanto possa esserlo i brasiliani, hanno almeno tirato un sospiro di sollievo nel non dover assistere ai rivali storici argentini che alzavano la coppa Rimet in casa loro. Divisi tra l’appartenenza all’America Latina e la rivalità con gli argentini, erano incerti su chi tifare.

Ma poi, durante la finale, la torcida argentina - senza rispetto per il dolore degli anfitrioni e pensando di mietere bottino in terra nemica - ha stupidamente voluto cantare la canzoncina argentina che irride al Brasile, già intonata per tutto il mondiale. E’ stata una pessima idea. Lassù, dal Corcovado, la saudade brasileira ha prima guardato e poi colpito. E i brasiliani, per conforto, hanno ringraziato a passo di samba.

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