di Roberta Folatti


Un piccolo film - un racconto per immagini - che ha coinvolto emotivamente tutte le platee a cui è stato mostrato per la sua capacità di parlare di una vicenda assolutamente personale ma al tempo stesso universale, sentita, condivisa.
Un’ora sola ti vorrei, premiato a Locarno e al Torino Film Festival nel 2002, è uscito da qualche settimana anche in Dvd con allegato un libro, in cui la regista Alina Marazzi racconta l’origine del film e le varie fasi, tecniche ma anche emozionali, attraversate da quest’opera che, inizialmente, doveva restare in ambito familiare.

Le immagini su cui è basato il documentario infatti sono prese dai filmini amatoriali girati da Ulrico Hoepli, nonno di Alina, nel corso di diversi decenni. Sono tutte scene - viaggi, ricevimenti, giochi in giardino, figli che crescono – tratte dalla vita quotidiana della famiglia svizzera fondatrice della celebre casa editrice, specializzata in pubblicazioni scientifiche.

Un’ora sola ti vorrei descrive la parabola di Luisella, detta Liseli, figlia di Ulrico e mamma di Alina, donna bellissima, intelligente e moderna, che si suicidò nel 1972 dopo anni di ricoveri in cliniche psichiatriche per una grave (e mal curata) forma di depressione. La malattia la consumò senza che i medici riuscissero ad aiutarla e senza che la sua famiglia, e soprattutto il padre, capisse la reale portata del problema. Poi la tragedia divenne un evento da rimuovere, perchè troppo doloroso e su Liseli calò un silenzio rotto solo dal bisogno di Alina di capire chi fosse sua madre.

Il film, la cui forza dirompente sta nel montaggio, è un ricamo di immagini da principio dolcissime, arricchite dal fascino senza tempo del bianco e nero, poi sempre più drammatiche, angoscianti, perchè la Marazzi decide di mostrare il materiale avuto dalle cliniche in cui la madre fu ricoverata. Quindi diagnosi, prescrizioni di farmaci, ricevute di pagamenti, descrizioni dei sintomi con il linguaggio duro e indifferente della psichiatria.
Tutto questo stride con l’apparente serenità delle scene familiari precedenti e con la riflessiva bellezza di Liseli; le immagini girate da Ulrico sembrano uscite da una rivista di moda tanto i protagonisti sono impeccabili, educati, sofisticati. Alina stessa nel suo libro dice che quella non era la realtà, ma solo ciò che suo nonno voleva vedere.

L’altro elemento forte del film risiede nella scelta della regista milanese di usare le lettere e i diari di sua madre a commento di tutti i filmati e, ancora più suggestivo, il fatto che sia lei stessa a leggerli. Una voce narrante, quella di Alina, che a poco a poco diventa una cosa sola con l’immagine di Liseli.
Il libro che accompagna il Dvd spiega bene come sia maturato questo processo, dall’iniziale estraneità verso una madre fino a quel momento sconosciuta al progressivo appropriarsi della sua storia, del suo dolore e del suo volto.
Le parole della Marazzi sono toccanti: “L’emozione di scoprire e guardare dritto negli occhi il volto di mia madre è stata grandissima. Si rinnova, sempre in modo diverso, ogni volta che rivedo il film. All’inizio la mia era una vera e propria sete di immagini, volevo capire e scoprire ciò che non sapevo di mia madre e della mia famiglia. Ogni fotogramma era un tesoro che veniva alla luce... Era un’esperienza nuova perchè prima di allora non mi ero mai rispecchiata in un volto femminile al quale sentissi di appartenere. Questo rispecchiamento è stato l’inizio di un percorso che mi ha portato a riannodare il filo del mio passato, prima con mia mamma e poi anche con mia nonna e con le mie origini”.
La storia di Liseli è anche il ritratto sociale di un’epoca, anni delicati in cui le donne cominciavano a prendere coscienza delle proprie potenzialità ma erano ancora rinchiuse dentro un mondo convenzionale fatto di obblighi e di divieti.

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