Lo sfondamento di Berlusconi non c’è stato, è vero. Il leader del Pdl, che vaticinava un risultato intorno al 45% e la sua popolarità al 75%, si è dovuto accontentare di perdere due punti percentuali dalle precedenti politiche. Lui sostiene essere colpa di Veronica, Noemi e Kaka, dei comunisti e di Murdoch, ma questo conta poco. Il fatto è che i voti che perde sono in parte minore l’esito di una cannibalizzazione interna alla destra, che sposta sulla Lega consensi prima forzitalioti, e in parte maggiore il segnale di un elettorato che comincia ad essere stanco del personaggio. Ma il parziale ridimensionamento del Pdl appare sì come un dato importante, ma non certo l’elemento attorno a cui far ruotare l’analisi del voto, che dev’essere ben più ampia e dolorosa. Non è il momento delle pietose bugie o delle sfumature linguistiche.

Il risultato elettorale italiano - che vedremo di seguito - è frutto del contesto europeo. Nell’Europa allargata senza costruzione politica, impoverita, senza progetto economico e abbandonata nel suo orizzonte ideale, la crisi del sistema neoliberista ha prodotto milioni di disoccupati e decine di milioni di paure generalizzate. Che vanno analizzate e comprese, non ignorate. Il tentativo di scaricare la crisi sui più deboli ha prodotto un rifiuto generalizzato della politica, manifestatosi con un astensionismo storico, o ha fatto vincere ovunque una destra xenofoba spesso dai tratti neonazisti, attorno alla quale si spalmano le incertezze, le paure e l’odio sociale che la crisi economica ha inoculato come virus micidiale nel corpo europeo.

In questo senso non è un caso che tutti i governi - chi più, chi meno - abbiano pagato un prezzo elettorale alto. La loro manifesta incapacità a progettare una soluzione alla crisi, un cambio di rotta deciso nelle politiche economiche e sociali, ha esposto al richiamo del darwinismo sociale gli orientamenti elettorali. Del resto, proprio l’aver accarezzato le pulsioni peggiori delle società di massa è stato il modello comunicativo su cui a destra (ma non solo) si è costruito il consenso nel continente.

Il razzismo sociale viaggia in libertà per il vecchio continente e solo l’inadeguatezza dell’estrema destra, che si presenta come un circo di pagliacci, pieni di paccottiglia nostalgica e di odio diffuso, impedisce d’intravedere in loro un possibile approdo politico per decine di milioni di disperati. Improbabili politici e squadristi riciclati non possono rappresentare un progetto politico compiuto e, forse ancora per qualche tempo, l’assenza di un leader e il mancato sostegno delle forze economiche dominanti impedisce l’avverarsi immediato di scenari drammatici.

Ma non ne priva affatto le potenzialità a breve-medio termine di dispiegarsi - per quanto in forma non omogenea e discontinua - con tutta la sua gravità e pericolosità. Quella europea è una vera e propria crisi di civiltà e d’identità, dalla quale si esce solo in due modi: o con un rinnovamento profondo delle forze democratiche, che dovranno essere capaci di reinventare analisi e letture, proporre politiche e idee di trasformazione sociale in senso progressista, o - in assenza di questo collante ideale e politico - con una possibile sterzata autoritaria della quale del resto, già in passato, l’Europa si è dimostrata tristemente capace.

Il voto italiano è perfettamente coerente con lo scenario continentale. Guadagna terreno una Lega che condiziona ormai definitivamente il Pdl; resiste ed avanza l’Udc di Casini che ha ora modo di giocare la sua partita preferita, quella di mettersi all’asta per il miglior offerente; perde i soliti milioni di voti che è ormai abituato a perdere ad ogni tornata il Pd (salvo dire, appunto ogni volta, che “ha tenuto”); perde la sinistra che, divisa, dopo l’uscita dal Parlamento italiano esce anche da quello europeo. Per il Pd si apre - benché tardivamente - la fase del ripensamento sulla praticabilità, prima che sulla funzionalità, del progetto. In due anni sono riusciti a far cadere il governo Prodi, a riconsegnare Roma e molte altre province italiane alla destra, a rompere l’unità del centrosinistra e a disperdere l’enorme lascito elettorale ereditato dal Pci prima e dall’Ulivo poi.

Una terrifica associazione d’incapaci, ignari di ogni storia e di ogni battaglia, ormai sempre nella parte della foto che ritrae gli accosciati. Nel non rappresentare un problema per nessuno, pensavano di risultare una buona soluzione per tutti. Ora saranno i Teodem a lasciare il Pd per andare nelle confortevoli braccia di Casini, e questo forse aprirà nuovi scenari. In fondo, in sfregio e spregio alle teorie bislacche dell’autosufficienza, anche i dati delle europee dicono che i voti del fronte progressista, uniti, pure in questo sfascio generale di analisi, idee, proposte, leader, valgono comunque il 40% dell’elettorato. Mettono cioè le basi numeriche, almeno quelle, per contrastare con forza il governo. Si può e si deve ripartire dal Pd per ricostruire l’opposizione, ma si può e si deve pensare di azzerarlo - così com’è - per ricostruire una sinistra ed un fronte progressista che ridia luce a qualsivoglia progetto di superamento in avanti di questo mesto quadro politico.

Progetto che non può più essere solo il frutto di balletti sul filo della corda, ma che ha bisogno di un rilancio delle ragioni della sinistra. I residui di ciò che fu la scommessa di Rifondazione dell’inizio degli anni ’90, sembrano ormai lo specchio deformato del politicismo, soprattutto quando si veste di purezza ideologica come contraltare al deserto di progetti e idee. Di scissione in scissione, quelli abili a provocarle e quelli abili a cavalcarle pagano il prezzo per intero. Certo, diverso è il peso della sconfitta per chi esiste da 17 anni e chi invece da due mesi e diverse sono anche le prospettive politiche che fanno da sfondo, la stessa spendibilità e credibilità di un progetto; ma per ora questo è il dato.

Adesso si tratta di riaprire le finestre chiuse per fare entrare aria nuova. Si tratta di garantire l’esodo di questi tragici gruppi dirigenti che hanno sperperato il patrimonio politico ed elettorale che avevano più o meno elegantemente scippato. Servono volti, parole e pratiche nuove. Non è certo con l’arroccarsi nelle fragilissime mura di castelli, ormai più simili a sepolcri, che si rianima la storia.

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