Si chiama Esequibo, e tutto ciò che sta in superficie, sopra e sotto dei suoi 160.000 chilometri quadrati, è venezuelano. Checché ne dicano, a Miami e a Dallas, dove vige il convincimento che tutto ciò che vale a sud del Rio Bravo è proprietà di chi sta a nord dello stesso fiume. Esequibo è un territorio piccolo, ma ricco di ogni risorsa e proprio per questo oggetto di miserabili tentativi di spoliazione da parte di Exxon Mobil, che è una delle multinazionali e delle compagnie petrolifere che, dalla sua sede a Dallas, costruisce la politica energetica statunitense nell’area centro-sudamericana e caraibica. Alla compagnia statunitense, come ad altre società internazionali, il governo della Guyana ha dato frettolosamente ed illegittimamente autorizzazione allo sfruttamento minerario e ittico di un territorio che non è il suo. Senza se e senza ma.

 

Sono diversi, infatti, i trattati e gli accordi bilaterali tra Gran Bretagna e Spagna che, originati al tempo delle colonie, delimitano con chiarezza l’appartenenza dei reciproci territori. Con l’indipendenza dalle colonie e la nascita dei nuovi stati nel corso del XIX secolo, si diedero ambiguità interpretative sempre sostenute da Londra circa i limiti territoriali. Ma il Venezuela ha storicamente rivendicato la propria sovranità sull’Esequibo, sostenuta del resto da diversi accordi bilaterali.

Ultimo quello di Ginevra del 1966. Dunque Caracas, basandosi su argomentazioni che risalgono all’epoca coloniale e che trovano conferma negli accordi successivamente intervenuti, rivendica quanto inoppugnabile in Diritto: ovvero che il territorio dell’Esequibo, pur conteso giuridicamente dalla Guyana, ha sempre fatto parte della geografia venezuelana, dunque è venezuelano in tutto e per tutto. Del resto, se il suo territorio è un prolungamento del Venezuela, se flora e fauna sono le stesse del Venezuela, se l’etnia appartiene a quelle presenti in Venezuela, se i minerali sono gli stessi di cui dispone il Venezuela, risulta molto probabile che quel territorio sia Venezuela.

Il governo della Guyana, di fronte alle proteste di Caracas che non consente l’espropriazione da parte della Exxon Mobil delle risorse dell’Esequibo, su richiesta degli USA ha fatto appello agli USA. I quali, dal canto loro, si sono fatti scudo della richiesta di sostegno e, casualmente, si sono fatti trovare pronti a schierarsi per “difendere la Guyana dalle minacce”. Quali sarebbero? Un referendum promosso dal governo bolivariano che ha indicato con il voto due concetti basilari: il primo che i venezuelani hanno a cuore la loro integrità territoriale; il secondo è che non hanno dubbi sul fatto che vada rivendicato e difeso ogni palmo del territorio nazionale.

Da parte di Miraflores non sono mai giunte minacce dirette di natura militare per porre fine allo scippo del territorio, ma viene ricordato come l’integrità dello stato non sia oggetto di trattative. Dunque o si riconosce la sovranità venezuelana su un territorio venezuelano, oppure i venezuelani faranno in modo che la si riconosca ricorrendo alle armi del Diritto Internazionale e della diplomazia e garantendo comunque ed in ogni modo che il saccheggio del suo territorio non venga perpetrato.

Impossibile non vedere come l’avidità imperiale anglosassone tenti con ogni mezzo di strappare terre, risorse e sovranità in ogni luogo del mondo a suo esclusivo vantaggio. Come già con Taiwan, gli Stati Uniti, autentici predatori ad alta e bassa quota degli averi altrui, ritengono di poter arricchire i loro depositi valutari e di risorse attraverso il saccheggio dei beni di altri paesi. Ma il Venezuela ha dato ampie dimostrazioni al mondo intero di come nemmeno il più feroce degli embarghi possa funzionare del tutto, nemmeno i tentativi destabilizzatori e le manovre internazionali, che utilizzano persino la farsa del presidente-farsa eletto dal vicepresidente USA riescono ad avere la meglio sulla Rivoluzione Bolivariana.

L’interesse ad una accelerazione della crisi è però tutto anglosassone ed ha a che vedere con la possibilità di mantenere il loro dominio - ovvero quello della Exxon - sulle risorse minerarie e petrolifere della repubblica cooperativa della Guyana. Per questo, proprio in ragione della provocazione statunitense, la crisi politica tra Venezuela e Guyana ha assunto una dimensione che travalica la zona. A dimostrazione dell’interesse per l’escalation militare, infatti, gli USA hanno dispiegato unità navi da guerra e soldati nella zona, sperando di poter aggredire il Venezuela, magari creando il casus belli sulla pelle della Guyana. Gli USA, grazie alle loro basi militari in Colombia (7), posizionandosi in Guyana porterebbero una ulteriore minaccia al Venezuela e agli altri stati amazzonici. E non va dimenticato come l’Amazzonia sia terra vitale sotto numerosi aspetti per la sopravvivenza del dominio unipolare statunitense.

La manovra USA non è sfuggita al Presidente della Colombia, Petro, che denuncia l’attività dei fuoriusciti colombiani, che da anni - sostiene - in accordo con Trump, tentano di riprodurre su scala regionale il conflitto con Mosca. Invita anche Petro al dialogo, vuole la pace e chiede ai paesi latinoamericani di formare un gruppo di mediazione, auspicando possa essere l’occasione per far rivivere l’UNASUR.

E se è a Mosca che si pensa, Mosca risponde. La portavoce del Ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ricorda che “la Russia si oppone alla pressione ed alle interferenze straniere negli affari degli stati sovrani, specialmente quando si tratta di temi delicati che richiedono precauzione da parte dei paesi terzi, sia a livello pubblico che privato”. “La Russia - ricorda la Zakharova - riafferma la sua posizione di principio per la quale l’America latina deve continuare ad essere una zona di pace, come stabilito nel Vertice CELAC del 2014 a La Habana. Appoggiamo - ha concluso la portavoce di Lavrov - gli sforzi per rafforzare l’unità regionale e diamo il benvenuto ai paesi latinoamericani e caraibici che consolidano la loro posizione come centri influenti dell’emergente mondo multipolare”.

Anche Lula ha ricordato come la Regione sia Regione di Pace e, in un colloquio telefonico con il Presidente Maduro, si è detto contrario all’adozione di misure unilaterali che potrebbero far precipitare la situazione. Ha quindi chiesto al Presidente di turno della CELAC, Ralph Consalves, di farsi promotore in prima persona di una iniziativa dell’organismo continentale finalizzata al dialogo.

Detto e fatto. La Guyana ha accettato di modificare l’atteggiamento precedente, ispirato da Washington e Londra, e si dice pronta al dialogo. Il suo presidente, Irfaan Alí, giovedì 14 alle 10 incontrerà Maduro, Gonsalves e Lula a San Vicente.

La Guyana ha dunque accettato l’idea di un dialogo diretto come strumento di risoluzione della controversia, indicando così un mutamento di rotta rispetto all’atteggiamento tenuto fino ad una settimana fa. Non ha molta importanza stabilire se questo è avvenuto ad opera di valutazioni circa l’opportunità di un muro contro muro con Caracas, né se ha influito l’esito del referendum celebratosi in Venezuela che ha mostrato a tutti, interessati o no, come la battaglia per il recupero della sovranità venezuelana sull’Esequibo sia questione sentita da tutta la popolazione e non, come alcuni media filo-statunitensi hanno insinuato - una manovra propagandistica a fini elettorali del bolivarismo.

La convocazione della riunione dice che, per il momento, la strategia della provocazione cara a Washington e Londra, diventa più difficile. Del resto a spingere per l’apertura di un tavolo negoziale non c’era solo Caracas con i suoi alleati internazionali. Gli stessi paesi aderenti al Mercosur avevano lanciato l’allarme su una possibile escalation della tensione e chiamato al dialogo, e i governi dei paesi aderenti al Caricom, pur sostenendo (non potrebbe essere altrimenti) le rivendicazioni della Guyana, sollecitano anch’essi il dialogo come unica soluzione alla controversia.

L’America Latina e Caraibica si è dunque mobilitata al fine di generare un dialogo e liberare il tavolo dalla presenza ingombrante e non richiesta degli anglosassoni, che dovrebbero al più rispondere e risarcire sia la Guyana che il Venezuela dei patimenti infertigli durante l’occupazione coloniale. A 200 anni dalla Dottrina Monroe è un buon segnale di indipendenza ed autosufficienza politica del subcontinente.

Il tentativo, obbligatorio e non discutibile, è quello di addivenire ad un accordo che tolga dal tavolo della discussione l’opzione dell’uso della forza. La sovranità territoriale del Venezuela, messa in discussione dagli interessi statunitensi e britannici, che vedono con avidità imperiale le risorse naturali del territorio dell’Esequibo, non possono e non devono prevalere sul Diritto Internazionale e sulla vocazione alla pace ed alla convivenza regionale, che resta l’elemento imprescindibile per ogni ipotesi di sviluppo condiviso dei diversi paesi della Regione.

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