L’unico aspetto positivo dell’opinione espressa martedì dall’Alta Corte britannica sull’estradizione di Julian Assange è che il fondatore di WikiLeaks non verrà consegnato nelle prossime ore alla “giustizia” americana. La decisione presa dai due giudici del tribunale di Londra segna infatti una nuova tappa della persecuzione contro il 52enne giornalista australiano. Ai suoi legali è stata cioè formalmente riconosciuta la possibilità di appellarsi alla sentenza di estradizione negli Stati Uniti, ma questo diritto potrà essere negato nelle prossime settimane semplicemente se il governo di Washington presenterà alla corte alcune semplici garanzie sul rispetto dei diritti di Assange, senza nessuna possibilità di avere la certezza che verranno rispettate. Inoltre, l’Alta Corte ha ristretto drasticamente le basi sulle quali potrà teoricamente appoggiarsi il ricorso contro l’ordine di estradizione, escludendo le prove più recenti contro gli USA e la questione fondamentale della natura politica del caso Assange.

 

I giudici Victoria Sharp e Jeremy Johnson hanno fissato al prossimo 16 aprile la scadenza entro la quale il governo americano dovrà fornire innanzitutto la garanzia che all’accusato, in quanto cittadino di un paese straniero, non saranno negate le protezioni previste dal Primo Emendamento alla Costituzione americana. In secondo luogo, dovrà essere esclusa l’ipotesi di una condanna alla pena capitale.

In altri termini, la giustizia britannica riconosce che l’estradizione di Assange negli Stati Uniti comporta rischi gravissimi – relativi al mancato rispetto della libertà di parola e di stampa, a discriminazioni derivanti dal non essere cittadino americano e all’applicazione della pena di morte – ma, ciononostante, continua a negargli la libertà e chiede anzi rassicurazioni formali allo stesso governo che gli dà la caccia e che ha cercato più volte di rapirlo e assassinarlo.

Le prove di questi piani estremi, valutati dall’allora direttore della CIA, Mike Pompeo, durante la presidenza Trump, non potranno essere introdotte nel dibattimento di appello dalla difesa di Assange. Tenuto fuori dalla decisione dei giudici è incredibilmente anche l’aspetto dalle maggiori implicazioni, vale a dire le ragioni politiche del procedimento a carico di Assange, che, in base alle norme previste dal trattato di estradizione tra USA e Regno Unito, farebbero immediatamente cadere la richiesta americana.

In definitiva, l’Alta Corte ha stabilito che il governo di Washington potrà mettere le mani su Assange se entro il 16 aprile presenterà una semplice e non vincolante “nota diplomatica” in cui si sostiene che il sospettato godrà delle protezioni del Primo Emendamento e non verrà condannato alla pena di morte. L’iter fissato martedì dai giudici prevede una decisione finale il 20 maggio prossimo.

L’ennesimo prolungamento dell’odissea di Julian Assange non è stato nemmeno in questo caso alleviato dalla concessione della libertà provvisoria su cauzione. La reclusione per ormai quasi cinque anni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh è assurda e ingiustificata ed è stata equiparata a tortura da esperti, medici e dallo stesso relatore speciale dell’ONU, Nils Melzer. Questo ulteriore accanimento è parte integrante della farsa pseudo-legale orchestrata da Stati Uniti e Regno Unito per distruggere il fondatore di WikiLeaks, responsabile di avere fatto conoscere a tutto il mondo i crimini dell’imperialismo americano e dei suoi alleati.

Il giornalista inglese Jonathan Cook ha scritto in un post su X (ex Twitter) dopo la sentenza dell’Alta Corte che il procedimento di estradizione “non ha mai avuto al centro i fatti e il diritto”, ma si è sempre trattato di “guadagnare tempo”, di “far sparire Assange dalla vista dell’opinione pubblica”, di “screditarlo” e di “annientare la più importante piattaforma di pubblicazione dei crimini dei governi”, rivelati dai “whistleblowers”. E, “possibilmente, per arrivare a una soluzione finale del problema posto da Assange all’impunità dei governi”, ovvero la sua morte, favorita dalle “conseguenze dello stress causato dalla detenzione e da un procedimento giudiziario senza fine”.

Volendo cercare un minuscolo spiraglio di speranza, alla vigilia del verdetto dell’Alta Corte di Londra il Wall Street Journal aveva dato notizia in esclusiva dell’esistenza di una trattativa tra il dipartimento di Giustizia americano e i legali di Assange. A quest’ultimo sarebbe stato offerto un patteggiamento in base al quale dovrebbe dichiararsi colpevole del reato minore di “uso improprio” di documenti governativi riservati, mentre le altre più gravi imputazioni, riconducibili all’ultra-reazionario Espionage Act del 1917, verrebbero lasciate cadere. In questo modo, Assange rivedrebbe la libertà, visto che la condanna eventualmente determinata dal reato ammesso sarebbe superata dai quasi cinque anni di detenzione in Gran Bretagna.

Un’ammissione di colpa di questo genere stabilirebbe comunque un pericoloso precedente per via della criminalizzazione di fatto dell’attività giornalistica. Tuttavia, alla luce della gravissima persecuzione che sta subendo Assange da oltre un decennio e delle sue condizioni precarie di salute, quella prospettata dal Journal sarebbe da considerare in larga misura una soluzione positiva. I suoi avvocati avevano comunque smentito la notizia, anche se è verosimile che un eventuale negoziato di questo genere necessiti della più assoluta riservatezza.

A motivare l’amministrazione Biden potrebbe essere la ricerca di una via d’uscita a un caso che sta creando un serio problema di immagine per gli Stati Uniti, soprattutto negli ultimi mesi, segnati dalla mobilitazione anche di parecchi media “mainstream” e dello stesso governo australiano. L’arrivo in manette in America di un giornalista, anzi del più importante giornalista investigativo della sua generazione, per fronteggiare un processo politico che potrebbe sfociare in una condanna al carcere a vita non sarebbe insomma uno spot opportuno per la campagna elettorale del presidente democratico.

Resta il fatto che la sorte di Assange e le decisioni prese nel Regno Unito e negli Stati Uniti non hanno e non avranno nessun rapporto con la giustizia e la democrazia. Se così fosse, Assange non avrebbe trascorso un solo giorno in carcere o dentro l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Qualunque sia l’epilogo, il suo caso sarà determinato da fattori di opportunità e scelte di natura politica. La battaglia di Washington e Londra contro le voci critiche e indipendenti continuerà quindi anche dopo che Assange conoscerà il suo destino.

Tornando alle procedure legali a sua disposizione, un eventuale verdetto a favore dell’estradizione, ratificata ufficialmente dal ministro dell’Interno Priti Patel nel giugno 2022, chiuderebbe definitivamente ogni possibilità di appello davanti alla giustizia britannica. Resterebbe un estremo ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, i cui pareri sono vincolanti per i paesi, come il Regno Unito, che ne riconoscono la giurisdizione. Londra, inoltre, ha finora sempre rispettato le sentenze di questo organo.

La difesa di Assange è già pronta a presentare un’istanza alla Corte di Strasburgo nel momento in cui l’Alta Corte britannica dovesse respingere l’appello. In base all’articolo 39 del proprio regolamento, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo può emettere un’ingiunzione nell’arco di poche ore, entrando in contatto con il paese coinvolto nel caso e, per quanto riguarda Assange, sospendere l’estradizione verso gli USA. L’ordine sarebbe comunque provvisorio, in attesa di un verdetto finale sul merito della vicenda giudicata dal Regno Unito. I tempi in questo caso possono andare dai 18 mesi fino a svariati anni.

Visto il totale disprezzo del diritto e dei principi democratici da parte della giustizia e del governo britannico nel caso del numero uno di WikiLeaks, sono però in molti a temere che, per anticipare un appello alla Corte di Strasburgo, Londra possa decidere di metterlo in tempi rapidissimi su un volo per gli Stati Uniti, rendendo di fatto inutile un’eventuale ordine per sospendere la procedura di estradizione.

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