Quella in corso potrebbe essere una settimana decisiva per le sorti delle trattative attorno a un difficilissimo accordo sul nucleare iraniano. Le posizioni di Washington e Teheran restano distanti sui nodi più importanti della questione, primo fra tutti quello del diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio per scopi civili, mentre l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) continua a operare come un’entità politica, assecondando le posizioni di Europa e Israele, con effetti potenzialmente distruttivi sul processo diplomatico in corso. Il governo della Repubblica Islamica, intanto, resta fermo sulle proprie posizioni e ha rivelato di essere venuto in possesso di informazioni riservate sulle dotazioni nucleari militari mai riconosciute dello stato ebraico. Rivelazioni che, se corrispondenti al vero, potrebbero introdurre un ulteriore elemento di rischio nei piani di Tel Aviv per bombardare i siti nucleari iraniani.

Proposte e controproposte

Dopo il quinto round di negoziati tra Stati Uniti e Iran, l’amministrazione Trump lo scorso 31 maggio aveva consegnato ai rappresentanti di Teheran una proposta di accordo per risolvere la questione del nucleare. Questa bozza è stata respinta pubblicamente da vari esponenti della Repubblica Islamica, essenzialmente perché vi erano elementi che si scontrano con i punti fermi fissati dall’Iran. Il primo è il diritto di questo paese a conservare il proprio programma di arricchimento dell’uranio entro i livelli consentiti dal Trattato di Non Proliferazione nucleare (TNP), di cui l’Iran è firmatario.

Secondo quanto riportato dalla stampa internazionale, gli USA consentirebbero la possibilità di arricchimento a un livello molto basso e per un periodo di tempo limitato, oltre a inserire questa attività in un programma condiviso con altri paesi mediorientali e, verosimilmente, spostandola fuori dall’Iran. L’idea del “consorzio” era stata accettata in precedenza e, forse, anche proposta da Teheran, ma condizione imprescindibile era che l’arricchimento avvenisse in territorio iraniano, così da non rendere vani sforzi, investimenti e sacrifici fatti negli ultimi decenni.

La Repubblica Islamica ha lamentato anche l’assenza nella proposta USA di un meccanismo dettagliato che porti alla cancellazione delle sanzioni che gravano su Teheran. È evidente e del tutto legittimo che l’Iran debba avere garanzie chiare e ben definite sulle contropartite economiche e finanziarie derivanti dalla firma di un accordo con Washington. Per queste ragioni, gli iraniani hanno fatto sapere che consegneranno agli americani una controproposta “equilibrata e ragionevole”.

Trump ha comunque espresso una visione pessimistica nella giornata di lunedì, quando ha ribadito che la posizione americana resta ferma sulla necessità di azzerare il programma iraniano di arricchimento dell’uranio. Se si tratti o meno della solita tattica negoziale per fare pressioni sul proprio interlocutore non è chiaro, ma se così non fosse è difficile comprendere l’utilità del nuovo round di colloqui che entrambe le parti hanno annunciato, anche se dando informazioni contrastanti. Per gli USA, l’incontro è in programma giovedì, per gli iraniani domenica prossima in Oman.

L’insistenza americana a prolungare le trattative, pur sapendo che alcune richieste non verranno mai accettate dall’Iran, potrebbe essere dovuta al fatto che la Casa Bianca stia creando i presupposti di un’azione militare. In altre parole, per dare l’impressione di avere esaurito tutte le opzioni diplomatiche e di non avere altra scelta che passare alle bombe davanti ai rifiuti iraniani. Qualcuno, invece, ritiene che i negoziati siano un modo per creare divisioni all’interno della classe dirigente di Teheran, dove le élites meglio disposte verso l’Occidente potrebbero alla fine convincere i “falchi” a fare concessioni e ad accettare un accordo non troppo favorevole in cambio di future occasioni economiche dagli USA.

Il fattore Netanyahu

Sempre lunedì, Trump ha avuto una conversazione telefonica con il premier israeliano/criminale di guerra, Benjamin Netanyahu, durante la quale l’argomento Iran è inevitabilmente emerso. La versione ufficiale vuole che il presidente americano abbia avvertito ancora una volta il leader sionista a non procedere con un attacco militare contro l’Iran mentre sono in corso i negoziati tra Washington e Teheran. In tutto ciò vi è con ogni probabilità una parte di teatro, anche se, viste le relative frizioni tra USA e Israele nelle ultime settimane, non si può escludere del tutto che Netanyahu stia valutando unilateralmente di passare all’opzione militare.

Il primo ministro è d’altra parte sempre più isolato e politicamente in crisi, così che l’apertura di un altro fronte di guerra potrebbe essere un tentativo di rimescolare le carte e ricompattare il fronte sionista. Ad aggiungere un ulteriore elemento di crisi per Netanyahu è l’ultimatum della componente ultra-ortodossa del suo regime, che chiede una legge per esentare dal servizio militare gli studenti dei testi sacri. Se, viste le implicazioni, un accordo politico appare ancora possibile, esiste comunque qualche rischio che il governo Netanyahu possa a breve incassare un voto di sfiducia.

Come accennato in precedenza, da valutare sarà anche il recente annuncio iraniano di avere ottenuto documenti segreti sul programma nucleare militare dello stato ebraico. Il governo di Teheran ha affermato che renderà pubblico il materiale nei prossimi giorni, ma ha avvertito che esso ha già dato un impulso importante alle capacità militari della Repubblica Islamica. In sostanza, in caso di attacco militare da parte israeliana, l’Iran risponderà duramente colpendo anche le installazioni nucleari di Tel Aviv.

La questione, al di là dell’attendibilità della notizia diffusa da Teheran, mette in luce ancora una volta la doppiezza non solo di Israele, ma anche dell’Occidente e delle autorità nucleari internazionali. È universalmente riconosciuto che Israele disponga di un numero imprecisato di armi atomiche, pur non avendolo mai ammesso e non avendo mai ratificato il TNP. Al contrario dell’Iran, lo stato ebraico non è però soggetto a nessuna pressione, nonostante agisca fin dalla sua nascita in violazione di qualsiasi norma del diritto internazionale e stia portando avanti da oltre venti mesi un vero e proprio genocidio.

Oltretutto, come hanno rilevato ancora esponenti del governo iraniano, lo sviluppo del programma nucleare illegale di Israele è stato possibile grazie al contributo non solo degli Stati Uniti, ma anche di alcuni paesi europei, come la Francia. Paesi, cioè, che oggi agitano la minaccia di nuove sanzioni o di attacchi militari contro la Repubblica Islamica per un programma nucleare esclusivamente civile e che anche i loro servizi di intelligence non ritengono abbia implicazioni militari.

AIEA e “snapback”

Tutte le manovre americane per tenere in vita il processo diplomatico potrebbero essere infine un diversivo per dirottare altrove le responsabilità del naufragio dei negoziati, ovviamente attribuendo in ultima istanza la colpa a Teheran. Il quotidiano israeliano Haaretz ha scritto a questo proposito che il “consiglio dei governatori” dell’AIEA, riunitosi questa settimana, potrebbe a breve dichiarare l’Iran in violazione dei propri impegni in relazione al TNP.

La decisione, tutta politica e determinata dalle pressioni di USA, Europa e Israele, avrebbe conseguenze disastrose perché fornirebbe un assist a quei paesi – europei – che minacciano di reintrodurre le sanzioni ONU che l’Iran si era visto sospendere con la firma dell’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 (JCPOA). A livello ufficiale, l’AIEA lamenta la mancata collaborazione dell’Iran relativamente, tra l’altro, all’accesso degli ispettori ad alcuni siti nucleari e al ritrovamento di particelle di uranio la cui origine resta in dubbio. L’Iran, da parte sua, sostiene che i rapporti dell’agenzia ONU si basano su informazioni ultra-screditate fornite da Israele. Le questioni sarebbero quindi svincolate dalla vicenda dell’accordo in discussione con gli USA, ma in realtà l’AIEA sembra lavorare precisamente contro la diplomazia.

Una condanna da parte dell’AIEA verrebbe infatti subito sfruttata da Francia, Germania e Regno Unito per attivare il meccanismo dello “snapback”, previsto dal JCPOA. Se uno dei firmatari di quest’ultimo accordo, tranne gli USA che ne sono usciti nel 2018, ritiene che l’Iran non ne rispetti il dettato può forzare un voto sulla reimposizione delle sanzioni al Consiglio di Sicurezza, senza possibilità di veto dei membri permanenti. Il ritorno delle sanzioni multilaterali affosserebbe evidentemente all’istante il processo diplomatico in corso.

Teheran non rispetta in effetti i vincoli del JCPOA almeno dal 2019, ma ciò è avvenuto come diretta conseguenza dell’abbandono dell’accordo l’anno precedente da parte della prima amministrazione Trump. A quel punto, e dopo avere atteso inutilmente i paesi europei che promettevano un accordo rivisto, la Repubblica Islamica non ha più rispettato le limitazioni al proprio programma nucleare, come consentiva peraltro lo stesso JCPOA in caso a boicottarlo per primo fosse uno dei paesi firmatari (gli USA).

La scadenza ultima per invocare lo “snapback” è il prossimo mese di ottobre e, visti i tempi tecnici, uno o più paesi coinvolti nel JCPOA avranno al più tardi fino ad agosto per muoversi in questo senso. Questa e le prossime settimane saranno perciò cruciali. Molto, se non tutto, dipenderà dall’andamento dei negoziati USA-Iran, ma Teheran ha già avvisato che, in caso di reintroduzione delle sanzioni ONU, lascerà il Trattato di Non Proliferazione, oltre che il tavolo delle trattative con la mediazione omanita.

Un’escalation, quella in vista, che potrebbe facilmente sfociare in un’aggressione militare di Israele con o senza la collaborazione americana. In quel caso, il Medio Oriente potrebbe esplodere definitivamente, mentre Washington e Teheran favorirebbero, con le loro stesse azioni, quello che sostengono di volere evitare a tutti i costi, vale a dire un Iran avviato verso la costruzione di armi nucleari.

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