Usa 2016


Il fatto che un paese di oltre 300 milioni di abitanti si ritrovi alla vigilia delle elezioni presidenziali con una sfida tra due candidati - Hillary Clinton e Donald Trump - profondamente impopolari e che incarnano gli aspetti più deteriori rispettivamente del panorama politico e dell’élite degli affari negli Stati Uniti, è prova sufficiente dello stato di crisi in cui versa nel 2016 la “democrazia” americana.

Se i contorni della sfida per la conquista della Casa Bianca, ormai alle battute finali, sembrano avere poche spiegazioni razionali, il percorso dei candidati dei due principali partiti americani è la conseguenza logica, anche se non necessariamente inevitabile, di un lunghissimo processo di selezione che ha influenzato ed è stato a sua volta influenzato sia dal clima politico sia da tensioni, contraddizioni, resistenze e spinte in avanti che caratterizzano la complessa società di questo paese.

Per cominciare, Hillary e Trump avevano inaugurato le rispettive campagne elettorali nella prima metà del 2015 con aspettative ben diverse. La prima, considerata la favorita d’obbligo nelle primarie del Partito Democratico, ha finito col rischiare la seconda clamorosa bocciatura, dopo quella del 2008. Il miliardario di New York, che sembrava avere davanti a sé una montagna insormontabile, ha invece sbaragliato in fretta i rivali Repubblicani, cavalcando un’ondata di frustrazioni e risentimenti nei confronti di tutto ciò che viene identificato con l’establishment di Washington.

L’approdo alla nomination del suo partito da parte di Hillary è stato dunque molto più difficoltoso di quanto ci si poteva attendere fino a poco meno di dodici mesi fa. Il suo successo e, stando ai sondaggi, il più che probabile ingresso alla Casa Bianca, non sono in ogni caso il risultato della sua maggiore popolarità tra l’elettorato teoricamente di riferimento del Partito Democratico o nel paese in genere.

Ciò che l’ha spinta a un passo dalla presidenza della prima potenza economica e militare del pianeta è stata innanzitutto una massiccia campagna condotta sostanzialmente in concerto dai media “mainstream”, a cominciare, anche se non solo, da quelli considerati di posizioni più o meno “liberal”, e dall’apparato di potere Democratico.

A partire dai mesi che hanno preceduto le primarie, l’impegno è stato in definitiva quello di creare l’impressione tra gli elettori che la nomination dell’ex segretario di Stato di Obama fosse di fatto inevitabile e che le consultazioni tra i sostenitori del partito poco più di una formalità. Ciononostante, la competizione interna al partito si è protratta fino quasi alla convention di Philadelphia a fine luglio.

A questa propaganda a favore di Hillary si sono poi accompagnate altre iniziative decisamente scorrette, se non del tutto illegali, da parte degli organi amministrativi del Partito Democratico. Queste manovre, condotte comprensibilmente lontano dai riflettori e rivelate solo grazie a documenti pubblicati da WikiLeaks, erano dirette a creare le migliori condizioni politiche, ma anche per così dire logistiche, per una vittoria della Clinton attraverso la penalizzazione del suo sfidante, Bernie Sanders.

Il senatore del Vermont, nominalmente indipendente e da sempre auto-definitosi “democratico-socialista”, nonostante le forze con cui ha dovuto fare i conti, ha rappresentato l’elemento più sorprendente e potenzialmente progressista di un quadro politico paralizzato come quello americano. Se Sanders ha, forse suo malgrado, suscitato un entusiasmo con pochi precedenti negli ultimi decenni tra i giovani americani e le classi più disagiate, il suo ruolo non è mai stato in realtà di rottura, né tantomeno “rivoluzionario”.

Soprattutto alla luce della patetica involuzione del suo percorso politico, passato dagli attacchi a Hillary per i legami inestricabili con i grandi interessi economici e finanziari alla promozione della ex first lady come unica scelta “progressista” per la Casa Bianca, è possibile delineare con certezza i contorni della sua fallita corsa alla nomination Democratica.

Il significato della partecipazione di Sanders alle primarie Democratiche non è stato cioè diverso, anche se ha riscosso molto più successo, di quelle dei vari Jesse Jackson, Howard Dean o Dennis Kucinich negli anni scorsi. Tutte queste candidature, nate e spesso promosse proprio dall’establishment, avevano in definitiva l’obiettivo di intercettare i malumori tra la popolazione, se non addirittura il sentimento di rivolta, per convogliarli in maniera inoffensiva verso il vicolo cieco del Partito Democratico.

Tutti gli sforzi per il successo della candidatura di Hillary Clinton sono così da ricondurre alla necessità per gran parte del sistema politico, militare, dell’intelligence e del business di installare alla Casa Bianca un presidente che garantisca continuità alle politiche perseguite dalle ultime due amministrazioni dopo l’11 settembre e il lancio della “guerra al terrore”.

Anzi, in un frangente segnato dall’accelerazione della crisi della posizione americana sullo scacchiere internazionale - come conferma l’aggravarsi del caos in Siria, l’allontanamento di alleati storici come le Filippine e l’acuirsi del rischio di un conflitto con Russia e Cina - l’ascesa di un “falco” come Hillary Clinton alla presidenza garantisce il consolidamento delle politiche aggressive e dell’impegno militare all’estero, sia pure con conseguenze potenzialmente rovinose.

Hillary, d’altra parte, non a caso ha incassato il sostegno di centinaia di ex militari ed ex membri della comunità dell’intelligence, così come di diplomatici e autorevoli osservatori delle cose di politica estera, molto spesso chiaramente identificabili con il Partito Repubblicano e le correnti “neo-con”.

Allo stesso modo, l’ex segretario di Stato è inequivocabilmente la candidata dell’industria finanziaria americana, grazie alla quale la sua famiglia ha potuto arricchirsi enormemente. Ciò prefigura, anche agli occhi di quanti nutrissero ancora qualche dubbio, un chiaro orientamento reazionario anche sul fronte domestico, per quanto riguarda le politiche economiche e della sicurezza.

Il profilo della candidata Clinton minaccia di allontanare dal Partito Democratico una parte più o meno sostanziosa degli elettori di sinistra che aveva abbracciato la campagna di Sanders. Proprio per convincere questa fetta di votanti a recarsi alle urne e a scegliere Hillary, i Democratici hanno messo in atto uno sforzo notevole, cercando di bilanciare gli appelli alla destra e l’ostentazione delle credenziali da “comandante in capo” con la promozione di politiche apparentemente progressiste, spesso basate sul presupposto che una svolta a sinistra del baricentro politico americano possa essere determinata dalla sola conquista della presidenza di un politico di sesso femminile.

Il senso di fiducia che la candidatura di Hillary Clinton assicura comunque ai poteri forti negli Stati Uniti è moltiplicato dalle perplessità e dai timori che suscita la figura di Donald Trump. Ancor più della sua sfidante, il candidato Repubblicano incontra la giustificata ostilità di ampie fasce della popolazione americana, ma il rifiuto che gli oppone l’establishment, in parte anche del suo partito, ha motivazioni diverse dalla repulsione per atteggiamenti e posizioni di stampo fascista.

Le ragioni sono da ricercare piuttosto in proposte politiche di carattere vagamente isolazionista sul fronte della politica estera e, sia pure nella confusione manifestata in questi mesi, in programmi economici non sufficientemente rigorosi per quanto riguarda la spesa pubblica. La crescente rivalità con la Russia ha offerto poi un’altra arma per attaccare Trump, accusato puntualmente di essere troppo tenero nei confronti del Cremlino, quando non addirittura una sorta di burattino manovrato da Putin.

Eppure, la scalata di Trump, se è stata indubbiamente possibile grazie al deserto della sinistra americana, risponde a una necessità di riconquista di un qualche spazio politico di quegli strati della popolazione americana che hanno subito pesantemente le conseguenze della deindustrializzazione e della globalizzazione capitalistica degli ultimi decenni. Sfruttando appunto il vuoto del progressismo nel panorama politico USA, Trump ha orientato il disgusto verso la politica e il risentimento derivante da affanni economici cronici in direzioni reazionarie, alimentando sentimenti xenofobi e ultra-nazionalisti.

Facendo tesoro dei recenti esempi del populismo di destra, Trump ha così capitalizzato la predisposizione anti-sistema ampiamente presente anche nell’elettorato Repubblicano, in parte manifestatasi negli ultimi anni con il fenomeno dei Tea Party, per sbarazzarsi di rivali con appoggi politici e finanziari di gran lunga più pesanti dei suoi.

Singolarmente, nella sua corsa verso la nomination Trump ha schiantato sia i candidati ben visti dai vertici del partito - da Jeb Bush a John Kasich a Marco Rubio - sia quelli promossi come alternativi al sistema, a cominciare dal senatore del Texas, Ted Cruz, al governatore del New Jersey, Chris Christie, al “non politico” Ben Carson.

La campagna elettorale di Trump e la sua stessa figura hanno tuttavia prodotto contraccolpi non indifferenti che hanno contribuito al progressivo sprofondare nel livello di gradimento degli elettori, stando almeno a quanto raccontano i sondaggi. Assieme all’establishment del partito, o a buona parte di esso, Trump ha finito cioè con l’alienare anche una fetta consistente di elettori Repubblicani, orientati probabilmente a disertare le urne o a dirottare il proprio voto verso altri candidati.

A prendere le distanze da Trump potrebbero essere in particolare i Repubblicani moderati, sensibili alle sirene clintoniane, ma anche quelli di tendenze più marcatamente conservatrici, riconducibili grosso modo ai Tea Party e schierati in larga misura con Ted Cruz durante le primarie. L’8 novembre prossimo, questi ultimi sembrano forse destinati a fare del candidato del Partito Libertario, l’ex governatore Repubblicano del New Mexico, Gary Johnson, uno degli “outsider” aspiranti alla Casa Bianca con maggiore successo dai tempi di Ross Perot.

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