di Daniele Rovai

Il 13 agosto di quest’anno il governo Berlusconi ha deciso di commissariare la Sogin, l’azienda pubblica nata nel 1999 per realizzare in 20 anni lo smantellamento dei vecchi impianti nucleari. Troppe spese e nessun avanzamento significativo dei lavori. Meglio chiuderla e far nascere due realtà: una prettamente indirizzata al nuovo corso nucleare trasferendo le sue competenze alle aziende che lo rilanceranno in Italia (Finmeccanica, Ansaldo, Enel); una che resti ad occuparsi della messa in sicurezza delle vecchie scorie. Secondo indiscrezioni, potrebbe diventare un’agenzia ministeriale. Maggioranza tutta d’accordo quindi nel chiudere, e ristrutturare, una società che dal 2000 al 2008, pur spendendo 1.185.000 (1 miliardo 185 milioni) di euro - integralmente pagati dalle famiglie italiane con una tassa sulla bolletta elettrica - non ha portato avanti alcun smantellamento. Certo, sorprende il fatto che proprio quando con l’ultimo Ad, l’ing. Massimo Romano, la Sogin stava iniziando a fare qualcosa - gli ultimi due bilanci presentavano addirittura un attivo - arrivi la decisione di commissariarla.
   
Durante il periodo di transizione la società sarà guidata da un commissario e due vice commissari nominati dal governo. Il loro compito, formalizzato proprio qualche giorno fa, è quello di rivedere la mission di Sogin - pur mantenendo in essere l’attività di controllo dei siti - sulla base delle disposizioni date dalla legge 99/09 (la legge che delega il governo a scrivere le nuove norme nucleari) per predisporre un piano articolato pluriennale per lo smantellamento “con riferimento a diverse opzioni provvedendo a stimare i costi da sostenere”. La conferma che si dividerà la Sogin in due e sarà rivisto tutto il piano di smantellamento. Dieci anni e tanti soldi buttati al vento.

Uno dei tre commissari scelti dal governo è Giuseppe Nucci, tra il 2005 e il 2006 Amministratore delegato della SOGIN. Un ritorno insomma. A lui, nel 2005, il ministro dell’economia affida il compito di mettere a posto i conti di una società che era riuscita in un impresa impossibile: presentare un bilancio, quello del 2004, in rosso! Una società pubblica che lavora con degli indirizzi dati direttamente dal governo e che ha un finanziamento che le copre tutte le spese, può andare in rosso? In Italia sì.

Il Bilancio 2004 viene comunque approvato ed invece di licenziare tutti e 7 i componenti del Consiglio (magari con le dimissioni dei ministri colpevoli quanto i manager) si cambia un solo dirigente, in questo caso l’Ad, e incredibilmente si porta da 7 a 9 il numero dei consiglieri (riconfermando i vecchi, ovviamente).
   
Nucci si cala subito nella parte. Mentre il 28 novembre 2005 al tavolo della trasparenza della Basilicata dichiara di voler riformare l’attività di SOGIN per renderla più efficiente, utilizzando sempre più le risorse interne e sforzandosi di ridurre i costi, un mese prima - il 15 ottobre - si fa “assumere” da quella stessa società come dirigente per i progetti esterni in campo ambientale (PEA) e nucleare (PEN); due incarichi che non hanno portato alcun risultato se non una remunerazione extra per l’Ad di 230.000 euro l’anno, ai quali aggiungere una cifra variabile - tetto massimo 70.000 euro - a seconda del raggiungimento di determinati traguardi.

Non solo: il CdA decide anche di “premiare” Nucci gratificandolo con una buona uscita pari alla retribuzione che avrebbe ottenuto per la durata del mandato (3 anni) anche in caso di sue dimissioni - o licenziamento da parte dell’azionista di maggioranza - prima della fine del mandato stesso. Un incentivo, dice la delibera, per premiare “l’impegno dell’Amministratore Delegato a non dimettersi per l’intera durata del mandato, se non su richiesta dell’Azionista di riferimento”(?). Una “novità inusuale”, scrive invece la Corte dei Conti quando esaminerà i conti della società, per un compenso a suo dire sproporzionato, che “potrebbe risultare ingiustificatamente oneroso per la società”. E infatti, quando il governo Prodi lo licenzia Nucci riceve un assegno di buona uscita che solo per la parte da dirigente ammonta a 795.000 euro! La cifra finale è poi sicuramente maggiore, visto che si deve sommare l’emolumento, ovviamente triplicato, come Ad.
   
Ed ecco la sorpresa. Il Commissariamento della Sogin è un atto dovuto e necessario: dovuto perché la società, seppur guidata da un Commissario con poteri straordinari, non ha fatto il suo dovere. Necessario perché la Lega ha saputo che l’ultimo Ad, Massimo Romano appunto, “ha creato ex novo la funzione di direttore generale della società, facendosi nominare per questa funzione dell'attuale Consiglio di amministrazione, al solo fine di ottenere, in modo surrettizio, un congruo aumento di stipendio (quasi un milione di euro).” Una “indecente operazione di appropriazione indebita” che fortunatamente “l'intervento tempestivo della Corte dei conti ha minato.”. Sono le testuali parole dette dal deputato leghista Stefano Allasia il 23 ottobre 2008 durante la discussione alla Camera del Ddl 1441 ter, oggi legge 99/09.

In realtà la Corte dei Conti non ha bloccato niente. La Corte in questi casi non ha poteri sanzionatori ma solo di denuncia al Parlamento ed al governo. L’ipotetico “stipendio” di Romano per il 2008, che la Corte aveva calcolato in 890.000 euro lordi, superava il tetto imposto dalla Finanziaria 2008 per le remunerazioni dei dirigenti pubblici. E infatti, quello che era stato deliberato, forse un po’ superficialmente, l’8 novembre 2008, già il 1 gennaio 2008 non era più valido. E Romano, secondo fonti ufficiali, pur mantenendo la qualifica di dirigente ha solo preso l’emolumento di Ad.
   
Insomma: si commissaria una società che in questi due anni aveva iniziato finalmente a fare il suo lavoro per un fatto che non è avvenuto e si nomina subcommissario la persona che, invece, dal doppio incarico ha ricevuto un guadagno? Una riflessione: la classe politica (e i manager da lei scelti) che gestirà i tanti miliardi - più di 20 - che serviranno a far partire il “nuovo” nucleare, è la stessa che in 10 anni non è riuscita a smaltire le “vecchie” scorie lasciate dall’avventura precedente. Un buon inizio, non c’é che dire!
   

di Liliana Adamo

Ad accompagnare le esternazioni del segretario generale dell'Onu, Ban Ki Moon e l’appello accorato nel lungo discorso del presidente americano, Barak Obama, l’incontro al vertice dell’Onu sul clima, appena svoltosi a New York, ha avuto sullo sfondo l’ennesimo, apocalittico scenario meteorologico: la tempesta di polvere ocra che ha reso il cielo acceso d’arancione offuscando letteralmente tutta la cosa est australiana.

Mentre il caos e un’atmosfera da quieta Armageddon regnavano a Sidney, altre città sono state messe a dura prova: Adelaide ha subito piogge torrenziali fra le più violente degli ultimi anni, Melbourne è stata letteralmente sommersa da grani di grandine, grossi come palle da baseball, così come tutte le zone del South Wales. Questo, giusto per riferire di uno strano parallelismo.

E se nel frattempo, sulle coste australiane gli esperti si aspettano un’altra tempesta simile fra un paio di settimane, il countdown per il clima è già scattato. Di fatto, durante il summit conclusivo che si terrà a Copenaghen, nel mese di dicembre, più d’ogni altro aspetto si discuterà delle improrogabili regole comuni, vanificate da tempo, a limitare i danni causati dal global warming. Intanto, notizia d’ultima ora, la replica “picche” da parte della Commissione UE al governo italiano, che intendeva “rinegoziare” il tetto per le emissioni di CO2 nell’atmosfera.

Vale a dire, come il nostro paese, al cospetto della legislazione comunitaria, assuma sempre toni autoreferenziali, del tutto incompatibili ai proclami dell’aprile scorso a Siracusa, durante il vertice del G8 sul clima, quando, in un rapporto firmato dal Ministro dell’Ambiente, sig.ra Prestigiacomo, si confidava in un “impegno costruttivo di tutti perché il bene-ambiente è “globale” per eccellenza e le soluzioni, le decisioni, le scelte per essere valide e produttive di effetti positivi non possono che essere condivise”. A evidenziare, ancora, che fra il dire e il fare…

Nelle sue dichiarazioni pubbliche all’assemblea dell’ONU, il segretario generale Ban Ki Moon appare come un uomo piuttosto schivo e ragionevolmente moderato, conosciuto per la sua riservatezza e la sua abilità diplomatica, ma l’impeto con il quale ha affrontato il discorso sui cambiamenti climatici non sorprende quasi quanto la sua crescente frustrazione dovuta alla cronica mancanza d’obiettivi comuni tra le potenze internazionali. Parlando ai leader del mondo, il suo monito è stato lapidario: “L’omissione di raggiungere un accordo esauriente a Copenaghen, sarebbe moralmente ingiustificabile, economicamente miope e politicamente colpevole”.

Perché i governi hanno cominciato a dare i primi modesti segnali senza però muoversi verso un obiettivo comune e il discorso calza per i paesi evoluti ma anche per quelli in via di sviluppo, le cui economie richiedono un ulteriore sfruttamento delle risorse esistenti. C’è bisogno di una seria inversione di tendenza.

Ora, la Cina è disposta a ridurre il suo inquinamento entro il 2020, senza precisare come e di quanto, il Giappone è risoluto nel riaffermare il suo ambizioso piano, riducendo drasticamente le sue emissioni e rendendosi disponibile ai paesi in via di sviluppo, offrendo nuove tecnologie verdi cui sta approntando, migliorarne le condizioni economiche di base, senza devastazioni ambientali. Ottimo proposito, peccato che il governo nipponico non abbia presentato un solo dato realistico per attuarlo.

La Francia, addirittura, aspirerebbe a una leadership mondiale per la supervisione e il controllo alle nuove politiche verdi. Gli Stati Uniti si sono impegnati a trovare una soluzione e, per la prima volta, grazie alla lungimiranza del suo nuovo presidente, accettano pienamente le proprie colpe per l’escalation del riscaldamento globale. Ma non c’è più tempo neanche per le recriminazioni, il countdown scorre inesorabile verso il nuovo summit di Copenaghen e, senza impegni concreti, si rischia il solito teatrino di parole vuote, in attesa del futuro.

 

di Alessandro Iacuelli

Dai primi di settembre, per la precisione attorno al 9, lo stabilimento di produzione di alluminio primario della multinazionale Alcoa, situato in Sardegna tra Portovesme, Portoscuso e Parinigianu, ha avuto una serie di incidenti a catena che hanno provocato una grave fuoriuscita di fluoro. La perdita di gas, tossico, ha generato una nube che ha reso l'aria irrespirabile. Le emissioni incontrollate, in cui al fluoro sono associate altre sostanze inquinanti non ancora identificate, spinte dai venti, si sono dirette verso l'abitato di Portoscuso.

In un primo tempo, prima che cambiasse la direzione del vento, l'allarme ha riguardato l'abitato di Paringianu, dove tuttavia non è stata necessaria l'evacuazione degli abitanti. La nube, alta qualche decina di metri e larga quasi mezzo chilometro, nella parte visibile, appare provenire dal reparto elettrolitico dello stabilimento, che risulta essere da settimane fuori controllo nonostante gli estremi tentativi dei tecnici Alcoa di rimediare ad una situazione che, con il passare dei giorni, sta diventando sempre più insistente.

Il reparto elettrolitico è il cuore della fabbrica, ma la mancanza di manutenzioni e di sostituzione degli anodi, ha mandato in tilt tutto il reparto. La direzione dello stabilimento ha fermato 60 celle elettrolitiche, ma probabilmente troppo tardi, inoltre si prevede, che se non saranno trovati i dovuti correttivi, altre celle dovranno essere bloccate. Quindi, serie di guasti, che si sono susseguiti nella Sala elettrolisi dello stabilimento dell'alluminio. La Provincia la settimana scorsa, aveva ingiuto all'Alcoa di ridurre le emissioni entro i limiti di legge pena la fermata degli impianti.

L'Agenzia regionale per l'ambiente ha certificato l'inquinamento da fluoro attorno allo stabilimento. Le analisi effettuate dai tecnici dell'Arpas hanno rivelato la presenza di fluoro fino a 124 microgrammi per normalmetrocubo, vale a dire oltre sei volte il limite consentito che è di 20 microgrammi. I risultati delle analisi sono stati trasmessi agli enti competenti, Provincia e Comune, perché adottino i provvedimenti conseguenti.

 Ad aiutare i tecnici locali sono arrivati tre esperti dal Brasile, dalla Spagna e dalla Danimarca, con l'appoggio dell'amministratore delegato di Alcoa Europe, Giuseppe Toia, che in passato ha messo mano con competenza alla gestione del reparto elettrolitico. Essenzialmente per fare la conta dei danni, che non sono solo di natura ambientale e sanitaria, ma anche economici e con una possibile ricaduta occupazionale, infatti il riavvio di una cella elettrolitica industriale ha un costo di 300 mila euro, e l'Alcoa ne ha fermate 60.

In questo giorni, nessuno si sbilancia di fronte a questo incidente, che potrebbe determinare pesanti conseguenze per il futuro stesso della fabbrica. L’arrivo del responsabile europeo del settore primario Marcos Ramos a Portovesme, solo alcuni giorni fa, ha avuto come conseguenza la garanzia che Alcoa è pronta a finanziare "per quanto possibile" il riavvio di un certo numero, imprecisato, di celle.

Sempre in questi giorni, con l'aria ferma per mancanza di vento, lo stabilimento si presenta coperto da una nebbia al fluoro. Il consigliere comunale Angelo Cremone ha inviato un esposto al prefetto chiedendo l’immediato intervento dell’Arpas e delle autorità sanitarie. "Da qualche settimana", precisa Cremone, "ho depositato in municipio la richiesta di convocazione del consiglio comunale ma non ottenuto risposta. Sembra che la salute dei cittadini non susciti grande interesse, eppure tra i consiglieri comunali e tra gli amministratori ci sono medici, tecnici competenti ed esperti in sicurezza e farmacisti".

Il sindaco di Portoscuso, Adriano Puddu, ha sollecitato l’assessore comunale all’Ambiente a fare intervenire l’Arpas, l’agenzia regionale, per sottoporre a controllo le linee elettrolitiche. Da parte sua, l’assessore comunale all’Ambiente, Daniele Fois, teme la chiusura dell’impianto, se non si riusciranno a eliminare al piu’ presto le anomalie all’origine della fuoriuscita del fluoro.

L’allarme inquinamento all'Alcoa è stato lanciato fin dai primi di luglio dai lavoratori che, durante un incontro con la direzione, erano stati rassicurati del fatto che la situazione era sotto controllo. Ma la nube di fluoro, visibile in particolare la notte, non ha cessato di aleggiare sopra lo stabilimento.

Intanto, i dati dell'Arpas sulle emissioni di fluoro stanno creando allarme e preoccupazione tra gli abitanti di Portoscuso e tra gli stessi lavoratori dell'Alcoa. Diversi cittadini hanno chiesto l'intervento della prefettura anche perché dal Comune dalla Provincia le decisioni vengono rimandate a quando si avrà un quadro più completo deli risultati dei rilievi ambientali effettuati dall'Agenzia regionale. I lavoratori della Sala elettrolisi dell'Alcoa hanno chiesto e ottenuto dalla direzione aziendale il blocco di altre celle elettrolittiche dove la temperatura aveva superato i mille gradi perché in quelle condizioni si sarebbero verificate le maggiori emissioni di fluoro.

 

 

di Daniele Rovai

La prima bugia è che l’Italia sia paese denuclearizzato. Nel 1987 il referendum non proibì la costruzione di nuove centrali sul nostro territorio: rese solo più complicato il loro insediamento. Il governo non poteva più comprare il consenso delle popolazioni e non poteva più decidere al posto degli enti locali. E’ vero che il terzo quesito vietava ad ENEL di costruire centrali…ma all’estero! E anche se tra il 1990 e il 1991 le 4 centrali atomiche furono spente, e fu ordinato ad ENEL di disattivarle, quell’iter non si è ancora concluso lasciando vigenti su quei siti le prescrizioni nucleari degli anni ’70.

Per far ripartire quella stagione, solo interrotta, bastava aspettare la fine della moratoria (1993) e presentare il progetto dell’impianto nucleare al Ministro dell’Industria (oggi MSE) rispettando la procedura indicata dal Decreto Legislativo 230 del 15 marzo 1995 che, recependo le direttive europee sulla gestione delle radiazioni ionizzanti, oltre a definire i parametri e le norme per l’uso delle sorgenti radioattive, indica quale percorso fare per costruire, gestire e smantellare un impianto nuclerare. Un iter sicuramente complicato - la legge prevede che le autorizzazioni alla costruzione siano date per step - che il referendum sicuramente aveva reso ancor più difficoltoso, ma assolutamente percorribile.

Se in Italia non si sono costruite nuove centrali è perché dopo gli incidenti in America (Tree Mile Island) e in Russia (Chernobyl) garantire la sicurezza dei nuovi impianti faceva aumentare vertiginosamente i costi di costruzione, rendendole non remunerative. In Europa, l’ultima centrale ordinata è quella francese di Civauex, nel 1988, mentre Belgio, Spagna e Germania hanno deciso di non costruirne più. Dall’altra parte del mondo, negli Stati Uniti, l’ultimo ordine è addirittura del 1975.

La seconda bugia è che lo Stato Italiano volesse smantellare quegli impianti. Non c’é alcuno smantellamento in atto, ma solo la tenuta in sicurezza di 4 vestuste centrali atomiche e 5 obsoleti laboratori di ricerca nucleari. Impianti costruiti a pochi metri dalle rive dei fiumi dove sono stoccate, in pessime condizioni di sicurezza, 28.000 metri cubi di scorie radioattive e più di 1.000 tonnellate di combustibile nucleare.

Nel 1999 il governo Prodi creò la SOGIN per smontare quelle centrali. E anche se l’idea corrente era quella di chiudere le centrali a fine vita e aspettare almeno 100 anni prima di aggredire l’isola nucleare, la SOGIN lo avrebbe fatto in 20 anni! Lo chiamarono “smantellamento accellerato” e l’Italia, un paese che aveva abbandonato l’atomo 20 anni prima, sarebbe stato il primo paese al mondo a praticarlo!

Una missione impossibile, come ha candidamente riconosciuto nel 2007 il suo ultimo Amministratore - l’ing. Massimo Romano - per il quale “le attività di progettazione e committenza” della società “si sono rivelate più complesse di quanto originariamente prefigurato” e che la società “non é stata del tutto in grado di riorientare regolamenti, risorse e know-how dalle attività di esercizio a quelle di decommissioning.” Si tratta di 1.200 milioni di Euro, interamente versati nelle casse della società dalle famiglie italiane grazie ad una tassa che grava sulla loro bolletta elettrica, buttati al vento.

In realtà la SOGIN nasce per eliminare il “ramo secco” del nucleare, che costava all’ENEL centinaia di miliardi l’anno. Oltre che un costo inutile, era una zavorra che avrebbe danneggiato il collocamento in Borsa dell’azienda appena privatizzata. Perciò si esternalizzò quello che rimaneva dell’ufficio nuclere di ENEL: 580 “guardie giurate” troppo costose da mantenere, creando la SOGIN. Oggi la chiameremmo bad company. Ieri era l’azienda che avrebbe chiuso il ciclo nucleare.

L’unica verità è che in Italia esiste una lobby nucleare. Un “potere forte” che ha un solo scopo: la realizzazione - ieri come oggi - di cattedrali nel deserto per garantire anni di commesse milionarie agli industriali e laute prebende ai partiti politici. Però serviva che quella prima inutile avventura, costata alle finanze pubbliche ben 25,5 miliardi di Euro, rimanesse sconosciuta. Sarebbe così stato più semplice rivenderla agli Italiani come nuova, appena se ne fosse presentata l’occasione.

Grazie all’incompetenza della SOGIN, ci sono già dei siti nucleari dai quali sarà logico ripartire. Poi, per non ritrovarsi orde di manifestanti o ordinanze dei sindaci a bloccare i cantieri, ecco le “nuove” norme nucleari - inserite nella legge 99/09 - con le quali si renderà sicuro e veloce l’iter per la costruzione degli impianti. In questo modo si supereranno gli esosi controlli del D.lvo 230 che però resterà il riferimento principe per la sicurezza radiologica e la gestione del materiale radioattivo.

Il governo assicurerà poi la vigilanza armata dei cantieri, accollandosi le eventuali spese di costruzione extra se queste saranno dovute a ragioni non riconducibli al costruttore. Garantirà delle compensazioni ai territori che accetteranno le centrali; se però l’ente locale non li accetterà, il governo sceglierà per lui (in pratica si annulla il referendum del 1987).

Nel febbraio del 2006 “Nova Res Publica”, una think tank culturale della destra liberale che in quel periodo annoverava nel suo comitato scientifico Giulio Tremonti e Guido Possa, organizzò un incontro presso la Casa dell’Energia dell’Azienda Elettrica Milanese. Il tema? Aprire un “dibattito costruttivo, apartitico e non ideologizzato” sull’energia nucleare fra esponenti della politica, dell’industria e della ricerca scientifica. Come riferì il giornale Quotidiano Energia, dal dibattito venne fuori che “potrebbe essere il 2015 la data di riferimento per la creazione di un consorzio nazionale con l’obiettivo di realizzare un primo pacchetto di centrali nucleari, in Italia”. Una data suggerita da Roberto Poti, il direttore Sviluppo nuove iniziative di Edison, che propose anche “la costituzione di un consorzio che, sfruttando economie di scala e sinergie, desse vita a un programma di circa 10 mila MW (6 centrali)”.

Al dibattito, scrisse ancora QE, erano presenti “il presidente del Cnr Fabio Pistella, Alberto Renieri (Enea), Carlo Lombardi ed Ennio Macchi (Politecnico di Milano), Othman Sabli (del colosso francese Framantone, che costruisce i reattori Epr oggi Areva), Jaime Segarra (General Electric), Fernando Naredo (Westinghouse), Giuseppe Zampini (Ansaldo Nucleare), Michel Bernard (Edf), Andrea Testi (Enel) Roberto Potì (Edison), Mario Molinari (Energia), Michele Sparacino (Aem) e Flavio Bregant (Federacciai).”

di Alessandro Iacuelli

Quella apparsa sui giornali italiani alla vigilia del ferragosto sembrava una notizia estiva e di poco conto: i turisti e i residenti sull'isola di Ischia sono rimasti al buio a causa di un lungo black-out nell'erogazione di energia elettrica. Secondo Terna, la società che gestisce la rete elettrica, si è trattato della rottura di un cavo sottomarino, peraltro per cause abbastanza imprecisate. Secondo la versione ufficiale dei fatti, alcuni operai di una non precisata ditta avrebbero reciso involontariamente i cavi dell'alta tensione della centralina di Cuma causando l'immediato black-out sull'isola. Subito dopo l'incidente, l'Enel ha inviato sull'isola circa 60 gruppi elettrogeni per garantire il minimo livello di operatività della linea elettrica e un folto gruppo di tecnici destinati a sovraintendere le operazioni di ripristino della rete e di gestione dell'emergenza. Mentre si procedeva al ripristino, il 13 agosto c'è stata una nuova rottura di uno dei quattro cavi, nei pressi di Casamicciola Terme, secondo Terna causata da un'ancora.

Dei disastri ambientali causati dalla rottura di cavi sottomarini a Ischia ci siamo già occupati, su Altrenotizie, nel 2007: l'isola non è dotata di una propria centrale elettrica, e l'energia le viene erogata da Cuma, tramite una batteria di cavi sottomarini. I cavi sono di un tipo piuttosto vecchio, il cui interno è tenuto in pressione tramite un canale riempito di olio, con una sezione di 18 millimetri, e si tratta di un olio fluido contenente PCB.

Si tratta, infatti, di conduttori risalenti al 1987, e all'epoca i limiti di legge vigenti di tolleranza di PCB erano decisamente più alti rispetto ad oggi. Solo l'anno dopo, nel 1988, sarebbe stata vietata l'immissione sul mercato di PCB, assieme ad una drastica riduzione per gli impianti ancora in esercizio. E qui sorgono i primi dubbi riguardo a quanto avvenuto.

Se si è trattato di una rottura dovuta ad un'ancora, tra l'altro ad opera di un'imbarcazione non identificata, allora la Terna non ne sarebbe responsabile. Se, viceversa, si è trattato di un cedimento strutturale, ci sarebbe la responsabilità diretta dell'operatore. L'ipotesi non si può al momento escludere. La Terna ha individuato la rottura meccanica del cavo e quindi si schiude pericolosamente la possibilità di un nuovo disastro ecologico dovuto alla fuoriuscita di olio fluido.

La rottura è proprio nel tratto di costa antistante la spiaggia di Suor Angela, in questo periodo frequentatissima dai bagnanti. Eppure, non è stato applicato alcun principio di precauzione, che impone in questi casi la necessità di assicurare un alto livello di protezione, almeno avvisando bagnanti e turisti della presenza di olio fluido usato per la saturazione dei cavi. Non solo. Quello di Ischia è uno degli ecosistemi più importanti dell'intero Mediterraneo, indicato come "habitat prioritario" dalla Comunità Europea, con la presenza di un'Area Marina Protetta denominata “Regno di Nettuno”, che include i fondali marini di Ischia, Procida e dell'isolotto di Vivara.

L'olio fluido usato dalla Terna nei cavi sottomarini è infatti una miscela di sostanze inquinanti. Contiene olii elettricamente isolanti, ricchi d’idrocarburi, Policlorobifenili, che sono inquinanti organici persistenti. E le quantità non sono affatto piccole: secondo un rapporto di analisi fornito da Enel alla Prefettura di Napoli all'inizio dell'anno scorso, i PCB totali sono, nel tratto tra Cuma e Lacco Ameno, nell'ordine di oltre diecimila nanogrammi per ogni Kg, ben oltre ogni limite legale e sanitario di compatibilità con la salute umana. Ma ci sono altri problemi, con i cavi sottomarini di questo tipo.

Quando si rompe un cavo sottomarino ad olio fluido, l'operatore elettrico se ne accorge perchè rileva una perdita di pressione dell'olio all'interno del cavo stesso. A questo punto, per evitare l'infiltrazione d'acqua all'interno del cavo, ma anche per spazzare via l'acqua già infiltratasi al momento della rottura, tecnicamente procede iniziando a pompare nuovo olio in pressione nella conduttura, in tal modo i cavi vengono portati ad una pressione interna superiore a quella dell'acqua marina. Questo metodo è usato anche per individuare il punto di rottura del cavo. Il grave svantaggio è che dalla lesione fuoriesce continuamente olio fluido, che va a disperdersi in mare, inquinandolo in un modo irreversibile.

I cavi in questione, costruiti dalla Pirelli, hanno all'interno un canale per l'olio del diametro di 18 mm in un circuito ad alta pressione. In caso di rottura, questo canale non deve mai potersi svuotare per essere sostituito dall'acqua e per questo motivo l'olio fluido deve essere mantenuto a pressione superiore alla pressione circostante dell’acqua. Quando il cavo a causa della rottura perde olio, questa perdita è compensata in maniera continuativa (con la relativa fuoriuscita in mare) tramite il pompaggio dalla stazione primaria di Cuma.

Secondo le caratteristiche tecniche fornite dalla Pirelli, per i primi 20 giorni, che è il tempo massimo di intervento e riparazione, ogni singolo cavo rotto rilascia in mare circa 6.25 tonnellate di olio con le rispettive sostanze inquinanti. Ma la rottura del 13 agosto è avvenuta nello spazio antistante una famosa e frequentatissima spiaggia, affollata di turisti desiderosi di fare il bagno.

Poi, c'è l'aspetto propriamente energetico della questione. I cavi di cui si parla non assicurano e non hanno mai assicurato l'alimentazione ischitana, che sono in pieno agosto, al momento di massimo afflusso di turisti, raggiunge i 51MW. Attualmente l'isola è alimentata con altri 5 cavi di tipo a media tensione, quindi non ad olio fluido, provenienti dalla stazione di Foce Vecchia, sulla terra ferma, inseriti ad anello con le stazioni di Lago Patria e di Pozzuoli.

La domanda quindi è d'obbligo: se c'è tutta questa energia elettrica, senza l'ausilio della linea ad Alta Tensione ad olio fluido con PCB ad elevatissimo rischio ambientale, perché questi vecchi cavi, irregolari, fuorilegge da quando ci sono, e pericolosi non vengono messi fuori servizio ed eliminati?

La linea elettrica sottomarina tra Cuma e Lacco Ameno non è mai stata autorizzata all'esercizio, è priva della concessione di utilizzo del pubblico demanio ed è stata costruita nel 1992, mentre il PCB nei cavi sottomarini era già vietato dal 1988. L'unica concessione demaniale di cui si trova traccia è quella n. 113/94 del 14.6.1994, nella quale è scritto che la concessione stessa è valida fino al 31.12.1993, cioè ha una scadenza addirittura antecedente la data del rilascio, e non risulta che sia mai stata più rinnovata. Ma allora, a cosa serve realmente il collegamento sottomarino tra Cuma e Lacco Ameno? Cosa può far ottenere, se non la distruzione di un'isola, non solo della sua vocazione turistica ma anche del suo raro ecosistema, che è una perla del Mediterraneo?


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