di Alessandro Iacuelli

Nelle scorse settimane, l'Ispra ha pubblicato il rapporto annuale sui rifiuti speciali nel nostro Paese, relativo ai dati del 2009. Un corposo rapporto di 443 pagine che racconta in modo dettagliato quanti sono i nostri rifiuti non domestici, come li smaltiamo, quali sono i flussi. I dati non sono affatto confortanti, anzi per certi versi mostrano un segnale preoccupante: dopo tre anni di andamento decrescente, nel 2009 i valori pro capite di rifiuti non derivanti dal consumo sono tornati a crescere (+0,9%), e non è certo confortante la quantità complessiva di rifiuti speciali prodotta: è di quasi 130 milioni di tonnellate, per la precisione 128,5, di cui i non pericolosi sono 52,6 milioni di tonnellate.

Centotrenta milioni di tonnellate significa il quadruplo dei rifiuti solidi urbani prodotti dall'intero Paese, con buona pace per chi crede ancora che i problemi della gestione dei rifiuti riguardino gli RSU, o la raccolta differenziata. Occorre anche tenere conto che la cifra pubblicata dall'Ispra è sottostimata, essendo desunta dai MUD, i moduli cartacei con i quali le aziende dichiarano quanti rifiuti sono stati generati dalle loro attività produttive, di conseguenza non si tiene conto dei milioni di tonnellate che sono stati "evasi", che non sono stati contabilizzati attraverso i MUD, e che sono andati ad ingrossare il volume di affari delle ecomafie.

Scendendo in dettaglio, i settori che hanno maggiormente prodotto rifiuti speciali non pericolosi risultano essere quello delle costruzioni e demolizioni e quello delle attività manifatturiere, con percentuali pari rispettivamente al 49,8% e 25,8% del totale. Per quanto riguarda i rifiuti pericolosi ed i tossico-nocivi, questi derivano tutti dai settori della metallurgia, della chimica e della farmaceutica.

Si tratta di rifiuti non prodotti dai consumi quotidiani dei cittadini, ma di rifiuti generati durante la produzione delle merci che verranno poi distribuite, rifiuti prodotti già a monte del ciclo di consumo. 130 milioni di tonnellate significa poco oltre le due tonnellate all'anno per ogni singolo cittadino italiano. Decisamente troppo per un Paese con poco spazio e con pochi impianti di smaltimento adeguati, come il nostro.

Un dato del genere, in un qualsiasi Paese civile, dovrebbe far riflettere sui processi industriali usati in Italia, e soprattutto spingere verso investimenti che possano migliorare quegli stessi processi, spesso antiquati, nella direzione di una riduzione dello spreco di materiali in fase produttiva. Un dato del genere dovrebbe spingere industrie come quella chimica, giusto per fare un esempio generico, a migliorare i cicli produttivi e a considerare poco convenienti quei processi dove il 30% della materia prima divene prodotto commerciabile, ed il rimanente 70% diviene già rifiuto durante la fase di produzione.

Invece in Italia, anche se amiamo definirci un Paese civile, avviene in questi giorni qualcosa di diverso, per inventare come smaltire, o meglio far sparire, questi 130 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, prodotti un solo anno. In Italia succede che il ministro Corrado Clini presenta un disegno di legge che autorizza l'uso di rifiuti speciali per produrre cemento, che verrà poi usato per costruire strade, viadotti, ferrovie, abitazioni, scuole ed ospedali. Usare rifiuti nei cementifici, per produrre materiale edile. Proprio da noi, dove abbiamo già avuto scandali di rifiuti tossici nascosti negli impasti per la costruzione di edifici, come a Treviso, o di autostrade come la Bre.be.mi.

Ad un recente convegno dell'Aitec Nomisma, il ministro Clini nel suo intervento ha dichiarato: "Vareremo entro fine mese un decreto che prevede l'impiego di combustibili solidi secondari nei processi industriali, in particolare nel settore del cemento, che aiuterà anche molte regioni ad uscire dallo stato di emergenza".

Da un lato, l'affermazione fa piacere: finalmente si ammette che nelle regioni, non solo la Campania, dove vanno avanti lunghe e pericolose emergenze rifiuti, la causa non è quella della cattiva gestione dei rifiuti urbani, che sono incredibilmente pochi rispetto alla montagna di rifiuti speciali che produciamo, dall'altro lato, si traccia una strada altrettanto pericolosa: l'uso come combustibile dei rifiuti speciali, e non si specifica quali, in centrali, cementifici e magari in futuro anche termovalorizzatori.

Secondo Clini, questa mossa risolverebbe il problema dello smaltimento dei rifiuti speciali e constrasterebbe il predominio della criminalità organizzata nel settore. In pratica, la mossa "geniale" di Clini è quella di fare concorrenza alle ecomafie: se loro bruciano i rifiuti tossici in tanti roghi abusivi in campagna, perchè non legalizzare questa pratica?

Il passo successivo, una volta varato il decreto legge, è facilmente prevedibile senza fare ricorso a sfere di cristallo: tra i codici CER che possono essere bruciati in quei cementifici che già ora non sono precisamente dei luoghi dove viene praticata la salvaguardia ambientale, verranno inclusi i tre codici relativi alle ormai celebri ecoballe sparse sul territorio campano e non solo.

E poi? E poi solo la fantasia potrà mettere un limite ad una cosa che in nessuna parte del mondo si fa: l'incenerimento dei rifiuti industriali, che per loro natura chimico-fisica sono troppo più pericolosi dei rifiuti urbani.

L'augurio, per ora, è che su un simile decreto, non di smaltimento ma di avvelenamento sistematico del territorio e della popolazione, si sviluppi un movimento di protesta e di opposizione che per portata politica e sociale dovrebbe assumere proporzioni maggiori di altri movimenti già visti, a cominciare di no-tav, nel frattempo restiamo in attesa di vedere il decreto che varerà il ministero, e relativi regolamenti attuativi.

di Alessandro Iacuelli

Alla fine, fatalmente, doveva succedere. Attorno alle ore 20,00 del 20 marzo, una piazzola di stoccaggio delle famigerate ecoballe campane, situata proprio nell'area antistante l'ingresso dell'inceneritore di Acerra, è andata a fuoco. Fiamme altissime ed oltre 200 vigili del fuoco impegnati nello spegnimento del rogo più tossico che si sia mai visto in Campania. Con buona pace per chi sostiene che l'emergenza rifiuti sia un ricordo del passato.

Di emergenza campana e di Ecoballe, Altrenotizie.org se ne occupa da circa sei anni con attenzione costante. Le ecoballe prodotte dalla FIBE per anni nei sette impianti di CDR campani, realizzati per risolvere una minima parte dell'emergenza rifiuti, quella relativa ai rifiuti urbani, non sono mai state utilizzabili. Indagini della magistratura, analisi sia pubbliche sia di enti indipendenti, hanno dimostrato la loro irregolarità sia sul piano legale che su quello chimico-fisico.

Sono troppo umide per poter essere incenerite, contengono sostanze ed oggetti che avrebbero dovuto essere eliminati in fase di selezione, e che non possono essere bruciati. Nessun impianto d’incenerimento, e non solo in Italia, è in grado o è disposto a bruciare combustibile derivato dai rifiuti che, nella migliore delle ipotesi, farebbe balzare alle stelle le emissioni nocive, ben oltre i limiti di legge, nonostante filtraggi e attenzioni varie riguardo i fumi. Nella peggiore, potrebbero addirittura danneggiare gli impianti d’incenerimento.

Non possono essere indirizzate verso alcuna discarica, si tratta di rifiuti speciali che hanno bisogno di discariche di tipo II B, e sommando la capacità di tombamento di tutta l'Italia, non si potrebbe smaltire che una piccola parte di CDR, saturando tutto il sistema nazionale di discariche.

Niente discariche, impossibile esportarle poiché sono talmente velenose che nessuno le vuole, niente incenerimento; in pratica al momento - anche da un punto di vista puramente scientifico - il problema non ha soluzione: non si sa cosa fare dei 4 milioni e mezzo di ecoballe (ciascuna pesa 1,4 tonnellate) sparse principalmente sul territorio campano.

Senza soluzione tecnica, ma pesano tutte, una ad una, quelle ecoballe, sul groppone politico di chi è responsabile della loro eliminazione, e della bonifica del territorio martoriato dai veleni. Per questo motivo, non è remota la possibilità, come avvenuto per altri motivi all'Aquila in occasione del terremoto, che stanotte qualcuno abbia brindato: si è liberato di una piccola quantità di quel veleno non eliminabile.

E qui le cose si complicano. Dai primi rilievi effettuati, appare chiaro che l'incendio è di natura dolosa. Ad appiccare il fuoco sarebbe stato un dispositivo a tempo, collocato attraverso due fori sotto il telone protettivo. In due punti, uno verso nord e uno verso ovest. Tecnicamente, si voleva distruggere appositamente il sito: due focolai iniziali, perpendicolari tra loro, per generare due fronti di fiamma. Fiamme e fumo, ma stavolta senza i filtri attivi applicati in fase di post-combustione dagli impianti d’incenerimento, ma a cielo aperto. Paradossalmente, il danno sarebbe stato minore se fossero state incenerite, pertanto è sintomatico che nessun inceneritore abbia voluto procedere alla combustione.

Le fiamme hanno immediatamente superato i 20 metri di altezza, ben visibili anche dai comuni limitrofi, hanno scatenato panico e allarmismo in tutta la zona. I vigili del fuoco sono intervenuti immediatamente con 6 squadre di circa 40 unità ciascuna, e tre autogru per separare le balle del fronte fiamma dal resto della piazzola, la numero 2 dell'area di Pantano ad Acerra.

Non si è potuto procedere immediatamente con lo spegnimento: i Vigili del Fuoco hanno attendere i militari del l nucleo specializzato NBCR, sigla che sta per Nucleo batteriologico e Contaminazioni Radioattive, per la messa in sicurezza del sito.

Gli interrogativi a questo punto si moltiplicano: la zona di Pantano, non solo l'inceneritore ma anche le piazzole per le ecoballe, compresa quella andata a fuoco, sono state dichiarate, all'inizio del governo Berlusconi del 2008, "area di interesse strategico nazionale". In pratica, sono zone militari sottoposte ad un vero e proprio segreto di Stato. L'area dell'inceneritore, ed anche la piazzola numero 2, sono sottoposte ad un controllo perimetrale da parte dell'esercito, 24 ore su 24. Allora la domanda spontanea è: com’è possibile entrare in una zona militare, bucare il telone in due punti, applicare un dispositivo a tempo per accendere l'incendio, e andare via senza essere visti?

Il danno è enorme. La nube tossica è già stata spinta dai venti un po' ovunque, a quest'ora le ceneri sono già ricadute sulla Campania. Impossibile indicare con certezza chi sia il mandante, anche perché sono in parecchi ad avere interesse a far sparire le ecoballe. Probabilmente, nei prossimi giorni s’inizierà a parlare per l'ennesima volta, sui giornali e in TV, di camorra, si userà ancora una volta l'alibi camorristico per seppellire motivazioni politiche.

Sta a chi ha a cuore il problema, provare a smentire l'eventuale depistaggio dell'opinione pubblica. La camorra, se è entrata nella vicenda, al limite ha messo a disposizione della manovalanza per l'esecuzione, ma le responsabilità politiche sono certamente più grandi rispetto a quelle della criminalità organizzata.

Tanto per fare un esempio, nel territorio del comune di Acerra giacciono (o meglio giacevano) 58.000 tonnellate di ecoballe. Il tutto in modo non legale o in deroga alle leggi vigenti, alla luce di un'emergenza che non è mai finita. Quando si dice "in modo non legale" ci si riferisce ad esempio, - ma non solo - al fatto che le piazzole di Pantano sono sprovviste di Valutazione di Impatto Ambientale. Ebbene, le ecoballe di Pantano sono state soggette ad un'ordinanza della Provincia di Napoli, firmata dal presidente Luigi Cesaro, del giugno 2011.

In tale ordinanza, Cesaro ordinava la rimozione delle ecoballe disseminate per Acerra in tanti piccoli terreni, e individuava proprio nella piazzola 2 di Pantano il sito dove stoccarle temporaneamente. Essendo la piazzola priva di VIA, lo stoccaggio non poteva superare i 90 giorni: le ecoballe andavano sgomberate entro 90 giorni.

I 90 giorni sono passati da parecchio, e la presidenza della Provincia di Napoli non è stata in grado di risolvere il problema, reperire un sito adatto e sgomberare le ecoballe. Ora, come per miracolo,  il problema è risolto: la piazzola due è stata sgomberata. Dalle fiamme.

di Alessandro Iacuelli

Greenpeace ha pubblicato la mappa delle centrali nucleari in Europa. La mappa è interattiva e cliccando sui puntini gialli che identificano i reattori nucleari è possibile conoscere il livello di rischio per chi abita nel territorio circostante a varie distanze. Sono ben 437 i siti segnalati sulla mappa e per ciascuno si può vedere il numero delle persone che potrebbero essere coinvolte in caso di incidente nucleare a distanze di 30 km, 75 km, 150 km, 300 km. Una delle centrali più vicine ai confini italiani è la centrale svizzera di Muehleberg: la popolazione coinvolta nel raggio di 300 km è di quasi 50 milioni di persone.

A pochi giorni dal primo anniversario dell’incidente nucleare di Fukushima, Greenpeace lancia la mappa interattiva intitolata "Quanto sei a rischio?" Quel che emerge é come milioni di persone vivano nelle vicinanze di un reattore nucleare. L'associazione ambientalista vuole avvertire, con questo messaggio, che tutte queste persone sono in pericolo: vivono in un'area che, in caso di incidente nucleare, potrebbe venire altamente contaminata ed essere quindi evacuata.

La tesi di fondo è che non ci sono reattori nucleari sicuri: Greenpeace ricorda come gli ultimi sessant'anni siano stati costellati di incidenti nucleari, piccoli e grandi, di cui vengono ricordati solo Fukushima, Chernobyl, Tokaimura e Three Mile Island, mentre le altre centinaia di incidenti, in cui il disastro è stato solo sfiorato, sono caduti nel dimenticatoio.

Solo sei anni fa in Svezia uno dei reattori della centrale nucleare di Forsmark ha rischiato di arrivare pericolosamente vicino alla fusione del nocciolo a causa di un guasto ai sistemi di sicurezza, causato da un semplice black-out di corrente. Nelle ultime settimane, il direttore della centrale nucleare Fukushima Daini, sorella della centrale di Fukushima Daiichi, ha ammesso che anche il suo impianto è stato vicino alla fusione nelle ore successive al terremoto e allo tsunami dell’11 marzo.

Greenpeace è dunque convinta che solo grazie a dei semplici "colpi di fortuna" o disastri sfiorati che la lobby dell’industria nucleare continua ad affermare che quella dell’atomo è "un'energia sicura", o addirittura un'energia pulita. Ovviamente non si può essere sempre fortunati e, come Fukushima ha dimostrato al mondo intero, il nucleare sicuro non esiste. Anzi, l'unico modo per evitare un altro incidente come quello di Fukushima è chiudere gradualmente tutte le centrali nucleari e sostituire l'energia dell’atomo con l'efficienza energetica e la produzione da fonti rinnovabili".

Ovviamente tutte le centrali segnate sulla mappa sono sotto stretto controllo, tuttavia Greenpeace fa notare come sia spesso addirittura la casualità, prima ancora dell'incuria, a provocare incidenti, il che non mette nessuno al riparo in maniera completa.

In tutto il mondo, milioni di persone vivono nelle vicinanze di un reattore nucleare, quindi in una zona che, in caso di incidente nucleare, potrebbe venire contaminata. E non ci sono parametri di sicurezza che tengano, come proprio Fukushima ha dimostrato. Ad oggi non è possibile affermare che ci sia una sola centrale sicura al cento per cento, visto che, anche in caso di perfetto funzionamento della centrale, c'è sempre l'incognita meteorologica in agguato.

Poi ci sono le conseguenze: le radiazioni sono ingestibili, non conosciamo esattamente i loro effetti che non hanno confini geografici o temporali. Non ci sono barrire nazionali o internazionali contro la contaminazione dell'aria, dell'acqua e del suolo.

Argomento attuale più che mai, in tutto il mondo, Europa compresa. L'ondata di freddo che si è abbattuta sull'Europa nelle scorse settimane, ha riacceso la discussione sul nucleare in molti paesi dell'Unione, preoccupati della qualità del proprio parco energetico e dei problemi legati all'affrancamento dalle forniture di gas russo.

Ad incendiare il dibattito ci sono le recenti dichiarazioni del ministro dell'Energia francese, Eric Besson, che ai microfoni dell'emittente Europe 1, ha rivelato l'intenzione del governo Sarkozy di allungare di altri 40 anni la vita delle centrali nucleari nazionali. Una scelta in controtendenza con il diffuso sentimento anti atomo cresciuto nell'opinione pubblica internazionale dopo l'incidente di Fukushima.

Secondo il quotidiano Le Monde, il 9 febbraio la Francia ha battuto il proprio record di consumo di energia elettrica, con un picco di domanda pari a 101.700 megawatt. Besson si é rallegrato della capacità del nucleare di coprire circa il 63% di quel picco con la messa in moto di circa 55 reattori nucleari su 58.

Anche la Gran Bretagna non ha fatto mistero di voler proseguire nel suo programma nucleare. Dopo l'annuncio, lo scorso anno, di otto centrali nucleari di nuova generazione in cantiere per il 2025, David Cameron ha reso nota un'ampia intesa proprio con la Francia per un programma di cooperazione sul nucleare civile. La dichiarazione congiunta, ha fatto sapere Downing Street, "dimostra l'impegno comune sul futuro dell'energia nucleare civile e la nostra visione condivisa di un'energia sicura, sostenibile e conveniente che sostenga la crescita e contribuisca a raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni nocive".

L’Italia ha rinunciato alle centrali nucleari con il referendum ma questo non la mette al sicuro. Essa è infatti circondata da nazioni che producono e sfruttano energia nucleare e che hanno centrali anche lungo i nostri confini. Un incidente in queste centrali avrebbe effetti devastanti anche sull'Italia. Il che ovviamente non è un motivo sufficiente per dire sì al nucleare. Greenpeace, e tantissimi italiani, sono convinti di no: le centrali ai nostri confini sono semmai un motivo in più per continuare l'opera di sensibilizzazione verso il pericolo del nucleare.

A questo serve la mappa dei siti nucleari mondiali: una "panoramica" sul pericolo nucleare in cui siamo, nostro malgrado, immersi. Si trova all'indirizzo http://risksofnuclear.greenpeace.org/

 

di Alessandro Iacuelli

Era la metà del dicembre scorso quando, in pompa magna, il premier giapponese Yoshihiko Noda annunciava che i reattori della centrale nucleare di Fukushima Daiichi, a quasi un anno dal disastro nucleare, erano ormai siano ormai stabili e sicuri. Pochi mesi, e quell'annuncio si è scontrato con una dura realtà basata su fatti, non certo su annunci politici tesi alla propaganda: gli impianti nucleari colpiti dallo tsunami non sono affatto stabili, tantomeno sicuri.

Si verificano quasi a giorni alterni, infatti, continue nuove piccole fughe radioattive. Puntualmente smentite sia dalla Tepco (la società che gestisce gli impianti) che dal governo nipponico, ma evidenziate puntualmente dalla rete di strumenti di misurazione collocati nell'area.

Il primo febbraio scorso si è verificata una fuga abbastanza grave: una quantità di acqua radioattiva, compresa tra le otto e le nove tonnellate, è uscita proprio dal fatidico reattore numero 4. La Tepco ha dato garanzia che nulla è arrivato fuori dal perimetro dell'edificio, e che l'acqua sarebbe finita in un impianto di drenaggio interno, che termina in un deposito collocato all’interno dell’impianto stesso. Sempre secondo la Tepco, l'acqua era "scarsamente contaminata", rispetto al livello di contaminazione dell'acqua di mare usata durante il picco dell’emergenza nucleare, quando la si sparò in pressione per tentare di raffreddare i reattori.

Proprio questa enorme quantità d'acqua usata l'anno scorso per il raffreddamento, costituisce ora una grande fonte di pericolo. Durante l'emergenza fu in gran parte raccolta: essendo altamente contaminata da radioisotopi, essa stessa radioattiva, non poteva essere certo fatta tornare in mare, o sparsa sui terreni. Quell'acqua è stipata ancora adesso nelle piscine dentro l'impianto ed è in fase di trattamento per far diminuire la concentrazione di radioisotopi accumulati.

Queste piscine, probabilmente, hanno delle perdite. Ma né la Tepco né il governo di Tokio lo ammetteranno mai. Altrimenti sarebbe difficile da spiegare come mai anche nelle settimane precedenti ci sia stato un continuo susseguirsi di altre perdite. Da un punto di vista puramente scientifico, senza tirare in ballo la politica, basta questo a dimostrare che il complesso di reattori non è affatto messo in sicurezza.

Nonostante questo, il premier Noda aveva addirittura dichiarato che "l'area intorno all’impianto è sufficientemente sicura da permettere il rientro degli sfollati". Tutto questo dimostra quel che si è già osservato fin dal giorno dell'incidente, o meglio dell'inizio degli incidenti a Fukushima: in Giappone non si è in grado di fornire un'informazione trasparente riguardo la situazione di Daiichi.

A questo, a dire il vero, eravamo abituati: fin dal giorno dello tsunami nessuno in Giappone era in grado di dire nulla di diverso da un generico "non sta succedendo niente", ritardando di fatto soccorsi, evacuazione della popolazione, intervento della comunità scientifica internazionale, aggravando con ciò una situazione già disastrosa. La lezione non è stata imparata, a Tokio, e si continua sulla strategia del nascondere la polvere sotto il tappeto, nella probabile illusione che le radiazioni si fermino, come ad un semaforo, in prossimità delle stazioni di rilevamento della radioattività distribuite in tutto il mondo.

Il 7 febbraio scorso, i tecnici della Tepco hanno dovuto faticare non poco per riprendere il controllo di uno dei reattori: la temperatura era pericolosamente salita. La stessa Tepco era stata costretta ad aumentare la quantità di acqua di raffreddamento iniettata nel reattore numero 2 per raffreddarlo. Questo è successo dopo la perdita delle otto tonnellate d'acqua dal reattore 4.

Con buona pace per gli annunci dati mesi fa dalla politica, secondo cui era stato possibile fare l'arresto a freddo dei reattori, nel reattore 2 c'è stato, secondo il quotidiano inglese The Guardian, un aumento di oltre 20 gradi di temperatura. Arresto a freddo un po' improbabile, visto che la Tepco sta continuando ad immettere nel reattore acido borico ed acqua, gli ingredienti necessari per prevenire una reazione di fissione a catena.

Come risolvere, poi, il problema della contaminazione elevata dei fondali marini attorno agli impianti di Daiichi? Come evitare la diffusione delle ceneri, terre e polveri radioattive sedimentate? Su questo la Tepco non ha dubbi: ha già annunciato che coprirà con tonnellate di cemento i fondali.  Una curiosa "pavimentazione" del mare, le cui operazioni sono già iniziate da tre giorni e che dureranno circa quattro mesi.

Si tratta di 70.000 metri quadri di fondale, quelli dove è stato registrato il picco più elevato di radioattività dopo le misurazioni più recenti. Impresa abbastanza difficile e costosa: tramite una grossa tubatura collegata a un'imbarcazione, il cemento verrà pompato verso il fondale marino. Intorno all’area è stata prevista una barriera di protezione, considerando che durante la cementificazione selvaggia alcuni dei sedimenti a rischio potrebbero sollevarsi, disperdersi, entrare nelle correnti marine, espandersi. Per il governo giapponese, questo piano di cementificazione del mare è un'adeguata "messa in sicurezza".

Un bel mix di problemi, tra piscine che perdono, acqua contaminata che va a spasso, sedimenti radioattivi sul fondo marino. E tutto questo, senza considerare quella che dovrebbe essere la principale domanda da porsi, e sulla quale pretendere risposte dal Giappone: l'uranio fuso nei reattori durante l'incidente, dove si trova? Dove è finito? E' ancora lì? E' stato rimosso? E in tal caso, dove è stato portato? A queste domande, non proprio di dettaglio, né la Tepco né il governo nipponico forniscono risposte.

di Sara Seganti

Anche l’Italia fa la sua parte, piccola ma rilevante, nella speculazione sui generi alimentari. Land grabs e investimenti speculativi nei mercati delle materie prime sono due cause all’origine di numerosi conflitti ambientali che percorrono il sud del mondo e che, non di rado purtroppo, si trasformano anche in gravi conflitti alimentari. Infatti, anche se non tutti i conflitti ambientali si trasformano in conflitti alimentari, è generalmente vero il contrario: e cioè che ogni crisi alimentare nasce con la compartecipazione di un conflitto ambientale.

I due ambiti sono strettamente interconnessi: ad esempio, la tendenza all’accaparramento di larghi appezzamenti di terra, il land grabbing, da parte di imprese o Paesi stranieri come sta avvenendo in Africa senza regolamentazione alcuna, genera immediati conflitti ambientali con le popolazioni che ne usufruivano e scatena, sul medio termine, crisi alimentari.

Perché più terra cade nelle mani degli stranieri e meno cibo rimane per il consumo interno; più materie prime si trasformano in biocarburanti, più è difficile reperire gli alimenti locali; più aumentano i prezzi, più si specula sui mercati finanziari degli alimenti. Finché non si verificano le emergenze alimentari, che non sono affatto meno gravi che nel passato, nonostante sarebbe possibile nutrire meglio quel miliardo di persone che nel mondo soffre la fame.

Anche se l’Italia non compare nelle prime file dell’elenco dei responsabili, sempre più numerose sono le notizie circa il diffuso coinvolgimento anche delle aziende italiane nella speculazione sul cibo tramite l’acquisizione di terre fertili nel sud del mondo e la speculazione finanziaria sui mercati delle materie prime alimentari. Giulia Franchi della Campagna per una riforma della Banca Mondiale ha dichiarato al quotidiano Italia Oggi di stimare in 1,5 milioni gli ettari comprati da aziende italiane negli ultimi anni nel sud del mondo. Il fenomeno del land grabbing riguarda, infatti, anche grandi gruppi privati italiani come Eni e Benetton, Agroils e Green power attivi nel grande giro d’affari dei combustibili alternativi a quelli di origine fossile, in genere attratti dalla produzione a basso costo di agrocarburanti nel continente africano.

Secondo un rapporto pubblicato da "Action Aid" sui biocarburanti, nel 2010, il settore si è espanso rapidamente negli ultimi dieci anni anche per via degli obiettivi posti dall’Ue, e ad oggi l’Italia ne produce 2 milioni e 257 mila tonnellate l’anno. Definitivamente osteggiati dagli ambientalisti e non solo, i biocarburanti sono verdi nelle intenzioni e per nulla sostenibili nella pratica.

Secondo la ricerca “Coltivare denaro, come le banche europee e la finanza privata guadagnano dalla speculazione sul cibo e dall’accaparramento di terre”,  presentata da Friends of the Earth e da altre Ong europee, come da Campagna per una riforma della Banca Mondiale, anche due grandi banche italiane come Intesa Sanpaolo e Unicredit sono attivamente coinvolte nelle speculazioni sul cibo.

Si legge nel documento che Eurizon Capital Sgr, facente capo al gruppo Intesa Sanpaolo, gestisce ben 73 diversi fondi, molti dei quali investono in materie prime alimentari quotate in borsa. Così come Fonditalia, parte di Banca Fideuram, a sua volta in parte partecipata dal gruppo Intesa-Sanpaolo, gestisce numerosi investimenti in materie prime alimentari.

Sempre secondo il rapporto di Friends of the Earth, Unicredit investe direttamente o promuove investimenti in materie prime alimentari e accordi sulle terre, attraverso il gruppo Pioneer Investments e finanzia direttamente o indirettamente aziende che operano nel settore dell’agrobusiness nei mercati emergenti. Nel Novembre 2011, il documento riporta che Unicredit stessa ha dichiarato che la dimensione del loro coinvolgimento nei mercati dei derivati delle materie prime “coltivate” si aggira su un valore netto di 91 milioni di dollari in Pioneer S.F. - EUR Commodities e di 153 milioni in Pioneer Funds - Commodity Alpha.

C’è da stupirsi? Ovviamente no, visto che le banche e i fondi d’investimento di tutto il mondo partecipano alla speculazione sul cibo che già da qualche anno si è rivelata estremamente redditizia ed è ad oggi, non solo perfettamente legale, ma anzi completamente integrata in quell’approccio liberista all’agricoltura che ancora gode di grande influenza, nonostante i gravi danni provocati. Queste operazioni sono infatti avvenute negli anni con la sostanziale connivenza di una larga fetta di quegli operatori internazionali come la Banca Mondiale o la FAO che avrebbero dovuto difendere, e a volte addirittura creare, la sovranità alimentare dei paesi più poveri senza riuscirci.

I conflitti ambientali e alimentari generati dall’acquisto di terre in paesi stranieri si assomigliano tutti tra di loro: questo genere di massicci investimenti esteri non dimostrano attenzione per le comunità locali e le loro necessità. Di recente, l’associazione Crocevia impegnata sul tema del land grabbing ha raccontato la storia di un’azienda a partecipazione italiana, la Senathol Abe Italia, che è finita nel bel mezzo di aspre polemiche e proteste in Senegal per via della concessione da parte del consiglio rurale di 20.000 ettari di terre fertili per la coltivazione della jatropha su appezzamenti che prima erano terre comunitarie, utilizzate da tutti per i pascoli e per le attività agricole.

Attualmente, e anche per via della morte di una persona durante gli scontri, il progetto è stato sospeso, probabilmente solo per essere riproposto tra breve. Ciò non toglie che le comunità rurali necessitano di un quadro di riferimento normativo, al di là dei loro governanti, a cui appellarsi per difendere il loro utilizzo delle terre pubbliche anche quando non esistono leggi in patria. Ed è compito della comunità internazionale fornire queste indicazioni.

 


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