di Alessandro Iacuelli

Sono decisamente tragiche, oltre che preoccupanti, le notizie che giungono dal Giappone, e non solo per quanto riguarda le vittime del maremoto: si prospetta sempre più seriamente il pericolo del meltdown del reattore 2 della centrale nucleare di Fukushima, il cui impianto di raffreddamento è stato danneggiato dal sisma di venerdì scorso. La televisione giapponese, infatti, ha informato che la Tokyo Denryoku, la società che gestisce la centrale di Fukushima, ha dichiarato che il liquido di raffreddamento è ormai esaurito e che i tentativi di utilizzare l’acqua di mare sono ormai falliti. La conseguenza è che le barre di combustible nucleare sono totalmente esposte e ormai prive di qualsiasi raffreddamento, e la loro temperatura sale costantemente.

A far precipitare la situazione sono state due nuove esplosioni, presso il reattore numero 3 dell’impianto, che hanno danneggiato ulteriormente la centrale. Come per quella avvenuta sabato, anche queste sono scaturite dalla fuoriuscita dell'idrogeno contenuto in uno dei serbatoi adiacenti alla gabbia del reattore. Le squadre di emergenza continuano a pompare acqua nel tentativo di raffreddare il materiale radioattivo, ma da quello che si apprende si tratta di tentativi che hanno scarse probabilità di dar risultati; dopo il terremoto e lo tsunami, il Giappone vive una situazione sempre più tragica.
 
Stando alle dichiarazioni delle autorità nipponiche, riportate dall'agenzia di stampa Kyodo News, le possibilità di una grossa fuga di gas radioattivo dalla centrale sarebbero attualmente molto basse. La struttura del reattore in se non avrebbe quindi riportato danni significativi. Il pericolo deriva dalla fusione delle barre del reattore, oramai prossime a formare una lava incandescente e radioattiva. Proprio per ovviare alla mancanza di liquido refrigerante, da sabato i tecnici stanno pompando all'interno dei reattori grandi quantità di acqua di mare. "Un tentativo disperato per riprendere il controllo dei reattori", afferma Robert Alvarez dell'Institute for Policy Studies ed ex consigliere del dipartimento Usa per l'Energia.

Nonostante le rassicurazioni che provengono dal governo giapponese, la settima flotta degli Stati Uniti, che si stava dirigendo verso le coste colpite dal sisma e che navigava a 160 Km di distanza da Fukushima ha avuto l’ordine di allontanarsi dall'area dopo che gli strumenti di bordo di alcune navi hanno riscontrato un aumento dei livelli della radioattività. Anche Francia e Germania, oltre agli USA hanno invitato i propri cittadini a lasciare il Giappone ed in particolare Tokyo, dove saranno avviate operazioni per razionare l'energia elettrica tramite black-out pianificati della durata di tre ore ciascuno.

Un altro grave rischio, è quello che deriva dalla nube radioattiva già fuoriuscita dalla centrale danneggiata: se fino a ieri i venti spingevano verso l'oceano aperto, un’inversione della loro direzione potrebbe interessare alcune zone del Giappone, sotto forma di pioggia che riporterebbe a terra elementi radioattivi.

Ad intervenire sull'argomento è anche l'agenzia nucleare francese, secondo la quale le emissioni radioattive a Fukushima sarebbero molto più consistenti di quanto dichiarato dalle autorità giapponesi. Il valore di emissioni radioattive potrebbe essere di 1 millisievert all'ora, mentre l'indice di radioattività naturale si misura attorno allo 0,0001 mSv/h; siamo quindi già ad un livello 10 volte superiore al normale

Ovviamente, nel Paese del Sol Levante fioriscono le polemiche interne,: un ex progettista di centrali nucleari giapponesi ha accusato il governo di non dire tutta la verità sulla situazione degli impianti atomici danneggiati dal terremoto. Il governo risponde che un'eventuale fusione non porterebbe al rilascio di dosi significative di materiale radioattivo. Certo, un’affermazione del genere significherebbe, in situazioni normali, una grave lacuna culturale nel settore nucleare, mentre in una situazione come quella attuale può significare una ferma volontà di non allarmare la popolazione, anche davanti all'evidenza.

In realtà, i reattori di Fukushima-Daiichi sono sottoposti ad aumenti di pressioni ben oltre i livelli previsti quando sono stati costruiti. Perché a monte c'è un limite di progettazione: nessuno avrebbe mai immaginato un maremoto così distruttivo a così breve distanza dall'impianto. Un tipico limite di progettazione al quale il Giappone non è nuovo.

Inoltre, la maggior parte delle centrali giapponesi, compresa Fukushima, funzionano a Mox, un combustibile nucleare ottenuto miscelando ossido di Uranio e ossido di Plutonio. In caso di esplosione o di meltdown, questo materiale verrebbe espanso su un'area vastissima e difficile da calcolare, ma certamente ben oltre i 20 Km di raggio in cui la popolazione è stata evacuata. Di conseguenza, il fallout sarebbe disastroso.

Nel frattempo, mentre l'ora dell'apocalisse nucleare si avvicina, il Giappone trema e tutto il mondo tiene il fiato sospeso. C'era stata in passato la sciagura di Tokaimura, e centinaia di altri incidenti nucleari, dove la tecnologia atomica si è mostrata la più arretrata, spesso gestita in modo sprovveduto e superficiale. Ma si parla di quel Giappone che si porta dietro tutte le contraddizioni dello sviluppo più spinto, talmente spinto da ignorare la geologia, la tettonica a zolle, il rischio sismico, pur di avere energia sufficiente per tenere illuminati dei centri commerciali come alberi di natale per tutto l'anno.

Quanto avviene in Giappone, e soprattutto quanto avverrà, è una lezione importante per tutta l'umanità, e giustamente riapre il dibattito sulla sicurezza nucleare in tutto il mondo. Il commissario europeo all'Energia, Günther Öttinger, ha convocato una riunione di esperti sulla sicurezza nucleare dell'Ue per discutere delle conseguenze del terremoto giapponese. "Tutto ciò che si riteneva impensabile, in qualche giorno è avvenuto", ha dichiarato Öttinger alla radio tedesca: "Se prendiamo la cosa sul serio e diciamo che l'incidente ha cambiato il mondo ed è in discussione il modo in cui noi, come società industriale, abbiamo guardato alla sicurezza e alla gestibilità, allora non possiamo escludere nulla".

Anche la Svizzera ha sospeso il programma di rinnovo delle proprie centrali, mentre in Austria il ministro dell'Ambiente è tornato a chiedere a Bruxelles la verifica della sicurezza delle centrali nucleari europee. L'Austria si oppone fermamente all'energia atomica e ha più volte chiesto la chiusura degli impianti in Slovenia e in Slovacchia. Contemporaneamente, il primo ministro indiano, Manmohan Singh, ha annunciato che sarà verificata la sicurezza di tutti i reattori nucleari in India. In Francia i Verdi hanno proposto al governo un referendum sul nucleare. L'eurodeputato Daniel Cohn-Bendit dice che la Francia "deve porsi la questione della necessità dell'energia nucleare".

Ad essere in controtendenza - oltre la Turchia che intende proseguire nel suo programma nucleare come se in Giappone non fosse successo nulla - resta un solo Paese: l'Italia. Le commissioni Ambiente e Industria della Camera stanno riprendendo l'esame del decreto legislativo sulla localizzazione degli impianti nucleari e dei siti di stoccaggio delle scorie radioattive in Italia. Come se in Estremo Oriente non stesse accadendo nulla, come se non fosse vero che anche l'Italia è interamente una zona sismica, attraversata da una faglia che divide la placca eurasiatica da quella africana.

Per il ministro degli Esteri, Franco Frattini, l'allarme nucleare giapponese ha "riaperto il dibattito in Italia in modo sbagliato, che nasce dall'emozione senza riflettere su cose evidenti e che non giustifica una rimessa in discussione del piano italiano. Il Giappone ha rischio sismico elevatissimo e centrali non dell'ultima generazione e che, malgrado un sisma di 9 gradi, non sono esplose."

Forse Frattini non tiene conto che il nucleare che è stato pensato per l'Italia non é affatto di ultima generazione. E non solo: sta nascendo già gestito da privati, che vorranno ovviamente lucrarci ad ogni costo, ed é pensato per massimizzare gli investimenti pubblici, cioè la quantità di denaro da regalare ai privati. A Frattini ha replicato la radicale Emma Bonino, vice presidente del Senato: "Investire 30 miliardi di euro per ottenere il 4% di energia tra vent'anni non ha senso economico".

In realtà ce l'ha, e quel senso va ricercato nella necessità, da parte dell'industria privata italiana, di mettere le mani su una montagna di soldi pubblici. Per lucro, per fronteggiare la crisi. Non certo per produrre energia che pulita non è. E quella parte di energia che ci sarà davvero, servirà, come già ora serve, non a far circolare più treni, ma a tenere i centri commerciali illuminati ancora di più degli alberi di natale, sempre per tutto l'anno. A meno che dal Giappone non arrivi, nelle prossime ore, un'altra lezione. Lezione che sarebbe una catastrofe planetaria, che non ci auguriamo per niente.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Alla luce dell’enorme crisi che sta colpendo la centrale nucleare giapponese Fukushima Daichi (nord-est del Giappone), la Germania ha deciso di sospendere l'attività delle vecchie centrali atomiche presenti nel Paese. È quanto risulta dalle più recenti dichiarazioni di una perturbata Cancelliera Angela Merkel (CDU), che ha annunciato la decisione ieri durante un incontro con la stampa a Berlino.

All’inizio del 2010, il Governo di Angela Merkel (CDU) aveva deciso di mantenere in attività 17 centrali nucleari per una media di 10 anni oltre la chiusura prevista: l’abbandono del nucleare era stato deciso da Verdi e Socialdemocratici (SPD) nel 2000 per favorire la diffusione delle energie rinnovabili, un mercato costoso e impegnativo che difficilmente trova spazio se messo in concorrenza con gli incredibili rendimenti del nucleare. Più che una mossa per il bene comune dei cittadini tedeschi, tuttavia, il ritorno all’energia nucleare era stato visto da subito come chiaro favoritismo alle lobby dei grossi produttori energetici, da cui avrebbe guadagnato indirettamente anche il Governo di Berlino e l’economia tedesca.

L’incommensurabile catastrofe che ha colpito il Giappone, tuttavia, sembra aver fatto cambiare idea alla Cancelliera e al suo Governo. “Le condizioni di sicurezza di ogni impianto saranno analizzate da vicino senza nessun tabù”, ha rassicurato la Merkel annunciando, quasi a sorpresa, che il prolungamento dell’attività dei reattori su suolo tedesco verrà sospeso per tre mesi.

In un primo momento, in realtà, la Merkel aveva risposto alla crisi giapponese semplicemente prospettando maggiori controlli e promettendo di trarre tutti gli insegnamenti possibili dalla situazione in corso in Giappone. Anche se la Cancelliera non aveva convinto nessuno: la stampa ha subito notato una certa insicurezza, quasi fosse lei stessa la prima a non credere alle proprie parole. E il repentino cambio d’opinione sembra andare ora a comprovare tale sensazione.

La disgrazia che sta colpendo il Giappone ha risvegliato immediatamente anche l’anima del popolo tedesco, che non ha tardato a ribadire la propria opinione ed è sceso nuovamente in piazza contro il prolungamento delle centrali. Sabato scorso, quasi 60mila manifestanti hanno circondato una vecchia centrale nucleare presso Stoccarda (Sud- Ovest della Germania) per esprimere solidarietà al Giappone e protestare contro la politica del nucleare. In realtà, la Germania si era già espressa contro il prolungamento dell’attività dei reattori a novembre 2010, in occasione dell’arrivo di un carico di scorie radioattive a Gorleben (Germania del Nord): già allora 40mila persone avevano occupato i binari in una protesta che si era protratta per quasi una settimana.

Il motivo per cui Berlino abbia cambiato idea in maniera così repentina rimane di certo ancora poco chiaro. Qualcuno crede che cristiano- democratici, liberali e cristiano- sociali - le forze al Governo - abbiano cominiciato ad ascoltare i propri cittadini proprio alla luce della paura nata in seno alla catastrofe giapponese; ma si tratta di una minoranza.

L’opposizione sospetta piuttosto che la sospensione dell’attività nucleare sia solo temporanea in vista delle numerose elezioni regionali che aspettano la Germania nel 2011, ben sei di cui la prima avrà luogo domenica prossima in Sassonia-Anhalt: l’elettorato è sensibile a questo tipo di catastrofi, forse perché ha più rispetto nei confronti dei propri simili e, di sicuro, ha meno da guadagnare dagli affari dei potenti.

Rimane comunque positivo il segnale lanciato da Berlino: l’attenzione della politica è tutta per Fukushima e il Governo accetta di affrontarla apertamente per la sua gravità, senza nascondersi dietro inutili scuse. E, nonostante i dubbi sollevati dall’opposizione tedesca, rimane una posizione sicuramente più onesta di quella di certi altri Paesi, in cui la riflessione sulla drammaticità del momento corre il rischio di venire definita, in maniera arrogante e irrispettosa nei confronti di chi rischia la vita nell’incertezza della crisi in Giappone, "sciacallaggio politico a fini domestici".

Anche perché l’attuale catastrofe di Fukushima avviene 25 anni dopo Chernobyl, in un’epoca in cui gli esperti del nucleare predicano sicurezza assoluta e sembrano aver dimenticato i rischi veri, quei rischi che non derivano dalle mancanze umane, ma dall’imprevisto. L’imprevisto non ha manuale né regole e Fukushima dimostra una cosa sola: il nucleare era e rimane un esperimento non compiuto condotto sulla terra e sulla nostra pelle. Nessuna certezza e nessuna garanzia a fronte di un procedimento che arricchisce pochi a rischio di tutti..

 

 

di Alessandro Iacuelli

Lo studio dell'Organizzazione Mondiale della Sanità è impietoso con la Val Padana: ogni anno 7 mila morti per cause legate all'inquinamento atmosferico, allo smog. Settemila morti premature. E' come se ogni anno sparisse dalla carta geografica un piccolo paese. Di questo argomento ci eravamo già occupati, su Altrenotizie, quando gli strumenti degli scienziati del Cnr situati a 2.165 metri d’altezza sul Monte Cimone osservarono per la prima volta una grande macchia bruna che incombe sulla Valle del Po. Al CNR studiarono anche la composizione di quella che è stata chiamata la "Po Valley Brown Cloud", la nuvola bruna della Valle del Po.

Si tratta di molte sostanze pericolose come nitrati, solfati, ozono, anidride carbonica e black carbon. Quest’ultimo è il residuo dei processi di combustione, contiene particelle molto fini, della grandezza media di un micron, che sono pericolose per la salute da un lato, e per l'ambiente dall'altro. Tre anni dopo quella osservazione scientifica, arrivano i dati riguardanti gli effetti sulla salute, e non sono confortanti: "Ogni cittadino perde in media 9 mesi di vita per l'esposizione alle polveri sottili", spiega Marco Martuzzi, uno dei responsabili del Centro europeo ambiente e salute dell'Organizzazione mondiale della sanità.

L'ultimo e più approfondito studio sui danni da smog nel nostro Paese risaliva al 2006. Rispetto ai dati analizzati cinque anni fa, sono molte le cose che sono cambiate: da un lato, molte città e Regioni hanno adottato nuove politiche antismog e ora è possibile valutarne l'efficacia; dall'altro l'aggiornamento dei calcoli dell'Oms porta ad una conclusione da brivido: "Considerando i soli 30 capoluoghi di provincia della Pianura Padana, il numero di morti dovuti alle polveri potrebbe superare i 7 mila l'anno".

È una situazione confermata anche dal dossier "Mal'Aria" di Legambiente, che dimostra come tra le 48 città italiane che nel 2010 hanno sballato i limiti antismog fissati dalla legge europea ben 30 sono proprio nelle regioni del Nord. Un quadro certificato anche da una delle ultime ricerche dell'Agenzia europea per l'ambiente, che colloca 17 città italiane tra le prime 30 più inquinate del continente (Plovdiv, in Bulgaria, è quella nella situazione peggiore, seguita nell'ordine da Torino, Brescia, Milano e Sofia).

Così, se guardiamo le città più inquinate d'Europa, stavolta in Italia ci posizioniamo bene in classifica, con Torino al secondo posto che si guadagna così la medaglia d'argento per lo smog assassino, Brescia medaglia di bronzo e Milano onorevolmente quarta. I medici e i ricercatori dell'Organizzazione mondiale della sanità non si sono però fermati alla descrizione degli effetti negativi. Danno anche indicazioni su come condurre la lotta contro l'inquinamento: favorire migliori tecnologie di veicoli e carburanti, ispezioni obbligatorie per auto e furgoni, incentivi fiscali per aumentare la mobilità pubblica, aiuti ai pendolari.

Nelle condizioni della Pianura Padana, sono poi necessarie "iniziative politiche armonizzate a livello regionale e interregionale, altrimenti le azioni intraprese da un singolo Comune porteranno a modesti risultati". Per stimolare azioni più incisive, l'Oms fa anche una stima economica: "La riduzione delle polveri sottili fino all'anno 2020 condurrebbe a un risparmio fino a 28 miliardi di euro l'anno in Italia, in termini di costi della mortalità, delle malattie e degli anni di vita persi".

Resta il dato di fatto che riguarda non solo torinesi, bresciani e milanesi, ma un po' tutti quelli che abitano nelle città della pianura padana: si muore nove mesi prima che in città poco inquinate, nove mesi prima della data che il destino avrebbe scelto per noi se l'aria fosse stata pulita. Il risultato è impietoso per Brescia, che rispetto a Milano e Torino non é certo una metropoli. Nonostante sia un piccolo centro, è terza in Europa intera per medie di Pm10, ozono e biossido di carbonio, particolato fine. Per certi versi, nulla di nuovo: che Brescia fosse nell'èlite dell'inquinamento continentale lo si sapeva; la media giornaliera di polveri fini nell'aria bresciana è stata nel 2010 di 39,4 microgrammi al metro cubo, quasi il doppio della media europea che è di 24,6 microgrammi.

E' proprio quest'ultimo ad essere sul banco degli imputati. Il particolato fine, sul quale in Italia accusiamo un notevole ritardo sia legislativo sia tecnico, provoca patologie cardiocircolatorie e respiratorie, cancro al polmone; patologie che interessano in particolare le persone che ne sono già sofferenti e gli anziani. L'impatto è importante anche sul fronte delle malattie, con bronchiti, asma, sintomi respiratori in bambini e adulti, ricoveri ospedalieri per malattie cardiache e respiratorie.

Qualche politico locale bresciano, nelle scorse settimane, a proposito delle polveri radioattive dell'Alfa Acciai spedite in Sardegna, ebbe occasione per dichiarare che queste cose sono "il prezzo del progresso". Espressione certamente poco felice. Chi cerca di minimizzare questi effetti della civiltà industriale afferma che il problema della val padana è complesso, perché gli effetti del traffico e delle attività industriali vanno fatalmente a combinarsi con le condizioni climatiche che limitano la dispersione degli inquinanti. Quindi, questo sarebbe il prezzo da pagare.

Peccato che nella stessa Europa ci sono luoghi come il Belgio ed i Paesi Bassi (che spesso e volentieri hanno anche più nebbia ferma rispetto alla bassa bresciana) dove hanno saputo fare molto meglio, ed oggi hanno livelli di industrializzazione elevata ed un'aria più pulita. A confermarlo, è lo stesso studio dell'Oms.

In definitiva, non è "il prezzo del progresso". E' il prezzo di non avere abbastanza buone regole. E' il prezzo dell'eludere le poche buone regole che ci sono. E' il prezzo dell'uso selvaggio e smodato delle risorse ambientali, di cui il Nord Italia ha già dimostrato di essere un campione.

di Mario Braconi 

Dopo aver visto programma One Million Snake Bites, trasmesso il 22 febbraio da BBC 2, quanti ritengono che il rischio di morte connesso al morso di un serpente velenoso sia un fenomeno statisticamente poco rilevante, dovranno ricredersi. Secondo il documentario, sono almeno cinque milioni ogni anno le persone che nel mondo muoiono o subiscono gravi danni alla salute a causa di un incontro troppo ravvicinato con uno di questi pericolosi rettili.

I ricercatori Josè Maria Gutierrez (Università del Costa Rica) e David Warrell (Università di Oxford), però, ritengono che questo dato sia sottostimato, anche a causa della bassa qualità dei verbali di ammissione alle strutture sanitarie delle vittime degli incidenti. Al punto che, secondo i due studiosi, si possono ottenere dati più realistici somministrando questionari alle popolazioni a rischio. Un altro studio dell’Università di Toronto, in effetti, suggerisce che, nella sola India, le persone colpite da morsi di serpenti velenosi possano superare il milione, la gran parte delle quali sono vittime di quattro specie: il cobra con gli occhiali, la vipera di Russell, la vipera squamata e il bungaro comune.

Romulus Whitaker, nato a New York nel 1943, è un celebre erpetologo, documentarista ed esperto di conservazione: non solo egli ha sviluppato una (insana?) passione per il Cobra Reale (un vero pezzo da novanta, con i suoi quasi 4 metri di lunghezza e una quantità di veleno in corpo da fare fuori dai 20 ai 40 uomini adulti, o, in alternativa, un elefante), al quale ha anche dedicato uno documentario di grande successo per il National Geographic (“The King and I”, 1996). Ma grazie al suo approccio pragmatico, é riuscito a trovare un compromesso accettabile tra la sua passione per la biodiversità e lo sviluppo umano.

La tribù degli Irula, in India, è stata per moltissimi anni specializzata nella caccia ai serpenti velenosi, dal momento che la pelle dei serpenti era molto apprezzata per la realizzazione di accessori di moda. I suoi membri, pur essendo analfabeti, sono in grado di catturarli a mani nude con grande facilità, armati solo di una spranga con la quale scuotono l’erba. Quando, però, nel 1972 la caccia ad alcune specie divenne illegale e venne sanzionata con il carcere, gli Irula furono costretti a lavorare in fattoria o a cercare fortuna in qualche baraccopoli.

Una minoranza degli Irula, però, decise di seguire Whitaker, il quale organizzò una cooperativa per la raccolta del veleno degli stessi serpenti che la tribù sapeva così abilmente catturare: anziché ucciderli, l’accordo prevedeva che gli animali venissero portati, vivi, in una speciale struttura per essere misurati, studiati e marchiati per evitare una successiva cattura troppo ravvicinata. Nel laboratorio, il veleno viene tuttora munto dai serpenti e venduto all’industria farmaceutica, che lo utilizza per produrre gli antidoti.

 Sfortunatamente per le vittime, però, il business degli antidoti non è redditizio. Infatti, isolare il principio attivo può essere un’operazione complessa e dispendiosa, dato che ogni specie ha il suo veleno, e che per combatterlo è inevitatile sintetizzzare anticorpi ad hoc. In effetti, come ricorda il servizio della BBC, la vera ragione per la quale centinaia di migliaia di persone muoiono ogni anno per il morso di serpenti è la loro miseria.

L’ignoranza impedisce loro di mettere in pratica le più elementari precauzioni (una prima di tutte, indossare delle scarpe); il contesto socio-economico in cui vivono preclude loro la possibilità di accedere ad punto di soccorso nel quale venga effettuata una diagnosi corretta ed immediata; infine, la povertà limita molto le loro possibilità di trovare un antidoto che li potrebbe salvare, sempre che non sia un diktat di mercato ad impedire la stessa produzione del siero, in quanto anti-economico.

La speranza di Gutierrez e del collega Warrell, entrambi soci del network internazionale Global Snake Bite Initiative (GSBI), è sensibilizzare i governi su questo tema e stimolarli a sovvenzionare la produzione di antidoti e di linee guida sulla loro produzione. Linee guida su cui è al lavoro anche la WHO (World Health Organization) e che si spera possano evitare in futuro lo scempio che attualmente si verifica in Africa, un continente in cui la produzione di antidoti ai veleni dei serprenti più letali (boomslang e mamba nero, per esempio) versa attualmente in stato di grave crisi, con i costi immaginabili in termini di vite umane.

La situazione sarebbe già abbastanza seria se non si dovessero considerare due ulteriori fattori, che renderanno sempre più grave il rischio di morte a causa del morso di serpenti velenosi: l’aumento della popolazione globale, che fatalmente porterà gli uomini ad interagire sempre di più con questi temibili “vicini di casa”. E soprattutto una pericolosa evoluzione genetica, la cui conseguenza è la produzione di veleni sempre più potenti da parte di specie già normalmente molto pericolose.

Una ricerca di Darin Rokyta della Florida State University sul crotalo diamantino orientale, spiega che alcune specie di scoiattoli che condividono l’habitat con serpenti velenosi hanno finito per sviluppare anticorpi in grado di neutralizzare la tossicità del veleno di questi ultimi. Il fatto è che, in risposta a questo evoluzione, anche i serpenti stanno evolvendo, mutando le tossine del loro veleno, che pertanto diventerà più pericoloso per gli uomini. Sembra dunque che l’umanità sia ancora lontana dal vincere la guerra contro i rettili di biblica memoria (si veda la Genesi, in cui si parla dell’inimicizia tra il serpente e la donna). Anche se i più pericolosi, forse, non strisciano, ma camminano su due gambe. E non si evolvono.

 

 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Oltre 11milioni di abitanti vivono in questa capitale che è considerata come una delle più inquinate del mondo. Ora il Mercer Human Resource Consulting piazza Mosca al 14° posto nella lista delle città più sporche. La situazione ha già superato il livello di guardia: si producono 10,6 milioni di tonnellate di rifiuti urbani l’anno, senza considerare quelli prodotti dalle industrie che raggiungono circa 6,1 milioni di tonnellate. Ed è già allarme ecologico per quanto riguarda i “siti” di scarico a Korovino (… “luogo ideale per costruirvi la vostra dacia” dice una pubblicità russa…) e a Biryulyovo, un quartiere dormitorio nell’hinterland moscovita, mentre altri rifiuti vengono trasportati fuori dell’area in zone lontane dalla regione. Montagne di ogni genere nascono a vista d’occhio.

E così, mentre non esiste nessuna “raccolta differenziata”, intere colonne di camion pattumiera (1200 in servizio) partono ogni giorno dal perimetro della città verso i punti di raccolta. E’ un insieme dei materiali di scarto, di provenienza domestica, urbana, agricola o industriale. Sono costituiti da sostanze organiche biodegradabili (rifiuti alimentari, fibre vegetali, letame) e da materiali non biodegradabili quali materie plastiche, gomma, metalli, vetro, ecc., talvolta particolarmente inquinanti (batterie elettriche, aggressivi chimici, medicinali).

E a Mosca si sa bene che i metodi per gestire i rifiuti pericolosi sono tanto fantasiosi quanto criminali: vengono abbandonati in zone poco frequentate o nascoste, trasformandole in discariche a cielo aperto, scaricati nei corsi d'acqua, mischiati ai rifiuti urbani o spalmati sui terreni come fertilizzanti. La situazione scoppia. Ed è Sergej Sobianin, il nuovo sindaco della capitale, che per il momento, pur non ponendo il problema della raccolta differenziata, punta alla realizzazione  di altri sei inceneritori oltre ai quattro già operativi, tutti a pochi metri da quartieri densamente popolati. Gli ambientalisti, dal canto loro, fanno notare che la capitale avendo già più inceneritori al mondo, deve puntare sul riciclo. Ma tra i cittadini manca ancora una coscienza ecologica.

Ed è su queste situazioni che esplodono, a livello comunale, forti polemiche tra ambientalisti e comune. Le organizzazioni in difesa dell’ambiente, intanto, lanciano una raccolta di firme contro gli inceneritori sistemati in città. Dal canto loro il municipio e i rappresentanti del settore dell’incenerimento difendono il programma di sviluppo: è l’unico modo - sostengono - per affrontare la rapida crescita del volume dei rifiuti solidi urbani. I critici, invece, evidenziano il pericoloso impatto ambientale e i costi eccessivi di un “sistema obsoleto”.

Alexander Shuvalov, vicedirettore di Greenpeace Russia, denuncia che “non ci sono altre capitali al mondo con un numero così elevato di inceneritori”. Ed ecco che arrivano testimonianze e denunce. Si apprende che a Kozhukhovo, dove è in funzione uno degli inceneritori (periferia est di Mosca, sulle rive della Moscova), gli abitanti lamentano il cattivo odore dell’aria che a volte si tinge di rosa e in molti stanno pensando di vendere casa. Per legge in questa località si può edificare anche fino a 500metri dall’impianto d’incenerimento. Greenpeace ha avviato una campagna per raccogliere un milione di firme e sottoporre il problema a Medvedev.

Gli attivisti per l’ambiente propongono, come alternativa, un programma che punti al riciclo piuttosto che all’incenerimento. Un inceneritore - fa sapere Lazar Shubov, vice capo del Waste Worker Association, citato dal The Moscow Times - costa circa 350 milioni di dollari contro i 10 milioni di dollari di un impianto per il riciclaggio, che avrebbe anche il vantaggio di ridurre le emissioni tossiche generate dalla presenza, nei rifiuti solidi urbani, di materiali tossici, come batterie e termometri, che sprigionano mercurio e diossina.

Ma la separazione dei rifiuti da parte della popolazione, con l’utilizzo di cassonetti differenziati, non è ancora sviluppata in Russia: la maggioranza dei cittadini non se ne preoccupa affatto e questo rappresenta un grande ostacolo all’attuazione delle proposte ambientaliste. In questo contesto c’è chi ricorda l’esperimento attuato (con successo) nel vecchio periodo sovietico.

Allora la carta veniva raccolta in primo luogo dai ragazzini delle elementari che partecipavano così ad una gara a premi tra le classi. E a chi consegnava negli appositi centri di raccolta pacchi di 20 chili di carta straccia venivano regalati dei coupon che consentivano di comperare libri introvabili come opere classiche o enciclopedie tematiche. C’erano poi punti di raccolta per il vetro: bottiglie di ogni genere. Erano sufficienti una ventina di bottiglie per pagare le spese condominiali.

Altri tempi. Oggi si butta tutto in un unico cassonetto. Ma il sindaco ora arrivato vorrebbe riproporre l’antica esperienza. “State tranquilli - avverte la stampa locale - non sarà un ritorno al passato. Sarà solo il modo di riprendere una pratica valida pur se… sovietica”.

 

 


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