di Alessandro Iacuelli

Ci risiamo. Era la rotta degli schiavi, per tutto il '700 e parte dell'800, quella che attraversa l'Atlantico ed arriva al Golfo di Nigeria. Oggi non è più tempo di navi di schiavi nell'oceano, ma è ancora tempo di navi. Così, nella notte tra sabato 16 e domenica 17 ottobre, sulla banchina dei Tin Can Island, in Nigeria, due grandi cargo porta container hanno abbandonato sette container, pieni di rifiuti tossici, soprattutto di origine elettronica.

A renderlo noto è Sule Oyofo, un dirigente della Nesrea, Nigerian Environmental Standards and Regulations Enforcement Agency, un'agenzia governativa istituita alla fine degli anni '80 per vigilare proprio sugli abbandoni di rifiuti sulle spiagge nigeriane. Stavolta, una delle due navi è stata fermata prima che salpasse, l'altra si è data alla fuga in acque internazionali.

La nave fermata è la Vera D., cargo battente bandiera liberiana, di proprietà di una società che è solo una scatola vuota, il cui azionista è un'altra scatola vuota, ma off-shore, per cui ci sono voluti giorni per risalire non solo all'armatore, e ancora non si riesce a risalire a chi ha imbarcato quei container assieme al resto del carico regolare. Il gioco è proprio questo: mischiare al carico pochi container di rifiuti tossici, poi durante il viaggio si abbandonano questi ultimi su una spiaggia africana, e si prosegue con il carico regolare.

La Vera D. era salpata da New York, secondo i dati dell'AIS, il sistema mondiale d’identificazione e tracciamento navale, aveva fatto scalo a Tarragona, in Andalusia, e al momento non è ancora noto se i container tossici provenissero dagli Stati Uniti o se siano stati imbarcati in Spagna.

Un po' diversa, e più delicata, la questione dell'altro cargo. Si tratta del Grand America, che è stato etichettato rapidamente da certa stampa, probabilmente visto il nome, come nave statunitense, con rifiuti statunitensi. Dai container abbandonati dal Grand America è uscito un po' di tutto: tubi catodici, piombo, arsenico, materiali contaminati da mercurio, cadmio e nickel. Una bella miscela di veleni. Ma i problemi sono altri due.

Il primo problema è che il Grand America è fuggito. A dispetto delle dimensioni, 214 metri di lunghezza e 32 di larghezza, grazie all'aiuto di qualche funzionario portuale facilmente corrutibile, ha levato gli ormeggi ed è filata in acque internazionali. Naturalmente, nessuno la sta cercando e ancora una volta il suo sporco lavoro resterà impunito.

Il secondo problema è che con l'America questo cargo non c'entra assolutamente nulla. Né per proprietà, né per provenienza. Infatti il Grand America, costruito nel 1997 dalla Fincantieri nei cantieri navali di Monfalcone, non batte bandiera liberiana. La nave è univocamente identificabile, usando i dati del registro navale e non c'è spazio per equivoci ed omonimie. E' il cargo mercantile con numero IMO 9130937 (è il numero d’identificazione navale) e numero MMSI 247594000 (il numero che identifica la radiofrequenza della stazione radio di bordo). E' uno dei pochi mercantili che batte ancora la bandiera tricolore. Quella italiana. Sulla fiancata c'è scritto Grimaldi Lines. E’ italianissima.

E non c'entra con l'America, la nave dei trafficanti italici di rifiuti tossici, perché anche le rotte sono tutte rigorosamente registrate e archiviate in tutto il mondo. E la Grand America era salpata dal porto di Anversa, in Belgio, diretta a Lagos. Niente scali in Nord America. E poiché sono suoi alcuni di quei container, siamo di fronte a rifiuti tossici europei, di Paesi dell'Unione Europea, mandati ad avvelenare l'Africa. Grazie ad un armatore italiano che per pochi scrupoli e molti soldi ha messo a disposizione una porta container per un traffico illecito transcontinentale.

Attualmente le stime, purtroppo incomplete, ci raccontano che in Nigeria arrivano ogni mese oltre 500 container di rifiuti tecnologici, ma sono stime basate sui materiali ritrovati, che plausibilmente sono solo una punta d'iceberg. Come spiega chiaramente la Convenzione di Basilea, anche questa è ecomafia, con la differenza che vede una seria complicità di autorità portuali europee ed un grave silenzio, anche esso complice, della stessa Unione Europea. D'altronde, meglio sbarazzare i nostri rifiuti tecnologici in Africa, a basso costo, piuttosto che tenerceli. Conviene a tutti, in tutta Europa. E "casualmente", nei grandi scali portuali europei, da Rotterdam ad Anversa a Barcellona, i controlli sui cargo sono sempre più deboli.

Chi sono allora i colpevoli? Gli esportatori che incassano milioni di Euro per il viaggio e lo scarico? Gli smaltitori europei e nordamericani di rifiuti speciali? Gli stati europei? Il bandolo della matassa è sempre lo stesso: smaltire in sicurezza, senza danni e pericoli per l'ambiente e la salute, gli scarti tossici della tecnologia costa oltre mille dollari a tonnellata, mentre gli smaltitori illeciti offrono prezzi che scendono anche a 100 dollari a tonnellata, usando navi appartenenti a compagnie insospettabili, con carichi regolari, che poi all'improvviso cambiano rotta, nonostante sia vietato dal diritto marittimo, per liberarsi della parte di carico velenosa.

Così ha fatto la Grand America con la sua bandiera tricolore. Ha lasciato i container contrassegnati con le sigle ZCSU 823920245 GI, ZCSU 819734445 GI, ZCSU 823976945 GI. Dai registri si evince che erano destinati ad un'azienda chiamata Messrs Pladin Nigeria Limited. Azienda irreperibile, probabilmente inesistente.

Anche stavolta, infatti, non la prima e certamente neanche l'ultima, la compagnia insospettabile batte la bandiera del nostro Paese. Anche la nave sequestrata, il Vera D, è armato dalla Grimaldi Shipping Line, che però ha negato l'accusa che la nave trasporti rifiuti pericolosi. Interpellata sull'argomento, una fonte della Grimaldi ha sottolineato che le sostanze tossiche non possono essere determinate mediante l'osservazione visiva. Il portavoce ha detto che il fatto che la sia fosse un'agenzia governativa "non le conferisce la competenza assoluta su questo per fare affermazioni del genere". Per la serie, tacete e lasciateci lavorare.

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