di Sara Seganti

La Nigeria non trova pace. Il giorno di Natale sono morte più di 30 persone durante le esplosioni che hanno coinvolto tre chiese cattoliche in diverse città nigeriane. Il paese, già lacerato da anni di conflitti interreligiosi e etnici, vede milizie armate da fazioni opposte affrontarsi in un contesto di povertà generalizzata, benché ricco di risorse come gas naturale e petrolio. Non costituisce di certo una notizia che, negli ultimi 50 anni, i proventi di questa ricchezza siano stati rigorosamente spartiti tra i pochi potenti locali e le numerose multinazionali attive nel paese, lasciando la gente in un sostanziale abbandono.

Ogni zona della Nigeria convive con problemi che sembrano non avere possibilità di soluzione. Il 20 dicembre, a pochi giorni di distanza da queste nuove esplosioni di violenze interreligiose nel nord del paese, per gli abitanti delle coste del sud, nel Delta del Niger, è scattato, invece, l’ennesimo allarme rosso ambientale.

Quel giorno la Snepco - Shell Nigeria Exploration and Production Company - filiale della Shell che opera in Nigeria, ha ammesso uno sversamento di 40.000 barili di petrolio greggio, probabilmente la maggiore perdita di greggio nel paese degli ultimi dieci anni, come conseguenza di un incidente nelle acque del Golfo di Guinea, di fronte alle coste della Nigeria. La macchia si aggirava in mare a 120 chilometri dalla costa era lunga 70 chilometri e copriva una superficie di 900 chilometri quadrati.

Secondo la Shell, che ha bloccato la produzione nell’impianto offshore in questione, l’incidente è avvenuto durante un’operazione di routine per il trasferimento del greggio dalla piattaforma ad una petroliera. La Shell sostiene anche che le operazioni di dispersione in mare del petrolio sono andate a buon fine, ma gli attivisti di “Environmental Rights Action”, con base a Lagos, non si fidano delle dichiarazioni del colosso petrolifero e mantengono vigile il monitoraggio sulle coste nigeriane.

Non si riesce a capire se la macchia avvistata vicino alle coste sia risultato dell’incidente del 20 dicembre o di un altro incidente provocato da un altro impianto, come sostiene la Shell. In qualsiasi altro paese sarebbe strano non riuscire a ricostruire con certezza da dove abbia origine una dispersione di petrolio, ma nel Delta del Niger non lo è affatto. Basta pensare che negli 50 ultimi in questa zona, dove vivono 20 milioni di persone, è stato stimato che una quantità pari a circa 13 milioni di barili di petrolio siano stati complessivamente dispersi nei terreni, nelle paludi e nelle falde acquifere.

La Nigeria è il primo produttore africano di petrolio, l’ottavo esportatore a livello mondiale;  questo petrolio negli anni passati proveniva quasi esclusivamente dai giacimenti del Delta. La sola Nigeria fornisce all’Unione Europea il 20% del petrolio utilizzato, anche attraverso le attività dell’italiana Eni.

La storia che lega la Nigeria all’oro nero è costellata di incidenti, di crimini ambientali e di violazione dei diritti umani ad opera delle multinazionali del petrolio, in stretta alleanza con le dittature militari che si sono succedute al governo. La Shell inizia a estrarre petrolio grezzo nell’Ogoniland, una zona del Delta del Niger, nel 1958 e da allora accumula ingenti responsabilità rispetto alla distruzione ambientale dell’ecosistema e alla repressione armata delle proteste.

Una delle pratiche forse più significative della commistione tra affaristi internazionali e corruzione politica locale è stata quella del finanziamento diretto delle milizie statali per garantirsi braccia armate, particolarmente solerti a schiacciare nel sangue le rivolte di cittadini nigeriani.

In questo clima, nel recente 1995, l’attivista e poeta Ken Saro Wiwa viene condannato all’impiccagione, insieme ad altri 8 attivisti, da un tribunale nigeriano connivente con le grandi compagnie petrolifere. In un paese in cui la violenza sembra essere l’unico mezzo per difendersi, nasce anche un’opposizione guerrigliera, il Mend (Movimento di emancipazione del Delta del Niger) che porta avanti per anni attacchi agli oleodotti e alle infrastrutture per l’estrazione e la raffinazione del greggio. Insomma, quella del petrolio nel sud della Nigeria è una vera e propria guerra che la Shell ha sempre cercato di vincere.

Perché allora questo incidente appare particolarmente grave, nonostante lo strapotere delle compagnie petrolifere nell’area? Innanzitutto, perché arriva poco tempo dopo l’uscita di un rapporto dell’Unep (il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) sulla situazione del Delta del Niger, dove si riconosce l’esistenza di una emergenza per la salute umana e di un generalizzato disastro ambientale.

Anche se la Shell stessa ha deciso di finanziare il lavoro di ricerca dell’Unep, destando leggitimi sospetti di ingerenza, il rapporto pubblicato non manca di evidenziare gli alti livelli di inquinamento provocati dall’estrazione di greggio nell’area e dalle pratiche di bruciare il gas che fuoriesce durante il processo.

Il rapporto Unep riporta che in una zona dell’Ogoniland, le famiglie stanno bevendo acqua contaminata da un elemento altamente cancerogeno come il benzene, presente a un livello 900 volte superiore rispetto alle linee guida dell’OMS. E questa zona è ovviamente confinante con un oleodotto.

Forse sono cambiati i tempi se la Shell finanzia uno studio che denuncia i pericoli per la salute umana, oltre che per l’ambiente, delle sue pratiche estrattive, e che prevede 5 anni per la prima bonifica di emergenza e altri 30 per restaurare l’habitat naturale che è stato danneggiato, per un costo totale di 1 miliardo di dollari. O forse, sono solo cambiate le strategie di immagine.

Non più di qualche mese fa, infatti, la Shell anglo-olandese ha anche accettato di dibattere in un tribunale inglese il processo che la oppone alla comunità Bodo del Delta, per gli incidenti avvenuti del 2008-2009. La Shell sostiene di aver risarcito le comunità, mentre secondo lo studio legale inglese che difende la comunità Bodo ciò non è mai avvenuto. Il risultato del processo sarà importante per valutare se fuori dalla Nigeria sia possibile ottenere una giustizia più trasparente. La linea di difesa generale della Shell è sostenere che il 98% delle fughe di petrolio sono conseguenza di boicottaggi, furti, vandalismi e attacchi da parte dei militanti e non dell’usura delle infrastrutture o di falle nei sistemi di sicurezza.

Dal 2010, in Nigeria è in carica un nuovo Presidente, Goodluck Jonathan, nato nella regione del Delta e che si è prefissato la risoluzione dei conflitti ambientali nella zona. Questo Presidente, come gli altri prima di lui, ha subito forti critiche per l’indiscriminato utilizzo della violenza di Stato.
In Nigeria, finché la vita delle persone continuerà a valere così poco e sarà in balìa dei conflitti interni, la dignità ambientale del paese rimarrà in secondo piano, falsamente identificata con un lusso quando invece è un passo necessario nella direzione dello sviluppo umano.

 

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