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Da qualche giorno, i governi di Giappone e Corea del Sud sono protagonisti di un aspro confronto che rischia di sfuggire di mano e di agitare ancora di più le acque in Asia nord-orientale. Le ragioni dello scontro affondano le radici nell’eredità tossica dell’occupazione nipponica della penisola di Corea durante la prima metà del secolo scorso, ma si intrecciano chiaramente anche alle frequenti dispute strategiche e commerciali tra le principali potenze del pianeta in un clima generale segnato da tensioni e rivalità crescenti.
Situazioni simili tra i due paesi si sono registrate spesso in passato, ma il quadro attuale sembra essere particolarmente grave, come ha confermato mercoledì il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, definendo la diatriba con Tokyo una “emergenza senza precedenti” nella storia delle relazioni bilaterali.
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La recentissima decisione dell’amministrazione Trump di fornire a Taiwan un nuovo pacchetto di armamenti ha provocato, com’era prevedibile, la durissima reazione cinese, contribuendo a creare un clima sempre più infuocato tra l’isola e la madrepatria che, nonostante le rassicurazioni americane, minaccia in primo luogo proprio la sicurezza di Taipei. Lunedì, il dipartimento della Difesa americano ha notificato al Congresso di Washington l’approvazione di una vendita di armi a Taiwan per un valore di 2,2 miliardi di dollari. La fornitura è suddivisa in due tranche. La prima, da due miliardi, include 108 carri armati M1A2T Abrams e altri veicoli pesanti da guerra e da trasporto. La seconda, da oltre 220 milioni, è composta invece da 250 missili terra-aria Stinger. Come richiesto dalle norme USA, il Congresso avrà 30 giorni di tempo per respingere eventualmente la vendita o sollevare obiezioni. Vista la sostanziale natura bipartisan dell’impulso alla militarizzazione di Taiwan e dell’approccio sempre più aggressivo alla Cina, la fornitura di armi non dovrebbe però incontrare nessun ostacolo legislativo.
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Anche se mancano ancora sette mesi all’inizio delle primarie per la presidenza degli Stati Uniti, la campagna elettorale sta già entrando nel vivo con l’attenzione dei media concentrata sull’affollatissima competizione per la nomination del Partito Democratico. In quello che si prospetta come un lungo processo di selezione, a stabilire le sorti dei candidati saranno in grandissima parte i poteri forti dentro e fuori l’apparato di governo, mentre già si preannuncia l’abbattimento di tutti i record relativi ai finanziamenti elettorali raccolti dagli aspiranti alla Casa Bianca.
Alla vigilia della scadenza imposta dalla Commissione Elettorale Federale, nei giorni scorsi sono stati presentati i dati ufficiali della situazione finanziaria dei candidati alla presidenza. Tra i democratici ha fatto notizia più di altri la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, in grado quasi di triplicare il denaro incassato per la propria campagna tra il primo e il secondo trimestre del 2019.
Warren ha superato quota 19 milioni tra aprile e giugno, secondo molti osservatori grazie all’adozione di una strategia che punta a intercettare il consenso dei potenziali elettori di sinistra del Partito Democratico. Oltre ad avere una squadra di collaboratori pagati di gran lunga più numerosa dei suoi rivali interni, la 70enne senatrice ha scelto di rifiutare le donazioni dei grandi finanziatori democratici e di evitare le tradizionali raccolte fondi di ricchi sostenitori che, quasi sempre a porte chiuse, garantiscono ai candidati che vi partecipano decine o centinaia di migliaia di dollari in poche ore.
Negli ultimi tre mesi, Warren ha così ricevuto 384 mila singole donazioni dell’importo medio di meno di 30 dollari ciascuna. Questo risultato la mette davanti all’altro candidato di “sinistra” del Partito Democratico, il senatore del Vermont Bernie Sanders. Per lui i numeri hanno disegnato una situazione stabile, con circa 18 milioni raccolti sia nel primo che nel secondo trimestre dell’anno.
L’entità della donazione media è stata per Sanders ancora più ridotta rispetto a quella registrata da Elizabeth Warren, ma l’ascesa della collega senatrice indica un possibile calo dell’interesse nei suoi confronti come potenziale agente di cambiamento in senso progressista. Senza dubbio, l’entusiasmo a tratti clamoroso che aveva caratterizzato le primarie del 2016 di Sanders si è raffreddato almeno in parte a causa della docilità con cui aveva accettato la vera e propria truffa organizzata dai vertici democratici per favorire la nomination di Hillary Clinton, nonché dalla sua decisione di appoggiare incondizionatamente l’ex segretario di Stato di Obama nella sfida a Donald Trump.
Le cifre importanti raccolte quasi interamente on-line da Warren e Sanders confermano comunque l’esistenza di un ampio bacino elettorale interessato a politiche progressiste, se non addirittura socialiste anche negli Stati Uniti. Sull’altro fronte, buona parte dei candidati alla nomination democratica predilige invece un appello più moderato, in grado di intercettare anche elettori repubblicani centristi e indipendenti. Di conseguenza, questi candidati ricavano una fetta determinante dei propri finanziamenti dal circuito dei donatori milionari e miliardari vicini al Partito Democratico.
I due pretendenti con le performance migliori nel secondo trimestre dell’anno rientrano infatti in quest’ultima categoria e sono l’ex vice-presidente, Joe Biden, con 21,5 milioni, e, sorprendentemente, il semi-sconosciuto sindaco della cittadina di South Bend, nello stato dell’Indiana, Pete Buttigieg, con quasi 25 milioni di dollari. Se Biden è considerato una scelta sicura dall’establishment in ansia per l’imprevedibilità di Trump, il caso di Buttigieg è un esempio eclatante della creazione a tavolino di un fenomeno politico lanciato da determinati ambienti mediatici e di potere nonostante un vuoto quasi totale di idee ed esperienze.
Giovane, di aspetto piacente, dichiaramente gay e con un passato nelle forze armate americane, Buttigieg rappresenta per molti versi il candidato più adatto a dissimulare politiche di destra dietro una finta immagine “liberal”. Il suo indice di gradimento è però in evidente calo nelle ultime settimane, a causa di una figura non esattamente brillante nel primo dibattito democratico, andato in scena un paio di settimane fa a Miami, e di un’accesa polemica scoppiata dopo l’assassinio di un cittadino di colore nella sua città per mano di un agente di polizia.
Parabola opposta a quella di Buttigieg sta seguendo invece la senatrice della California, Kamala Harris. Il fatto di essere donna e di colore costituisce il punto di forza principale di quest’ultima, non a caso promossa tra le principali favorite per la nomination da media e commentatori “liberal” fissati con le questioni di razza e di genere. Harris ha un passato da procuratore generale con fama da “law-and-order” e nelle sue prime uscite pubbliche ha tenuto un approccio decisamente cauto a questioni come la copertura sanitaria pubblica universale o l’accesso gratuito all’istruzione universitaria.
Più ancora di Kamala Harris, a questo punto della competizione sembra essere ad ogni modo Elizabeth Warren a risultare la candidata preferita dai media che gravitano attorno al Partito Democratico. Secondo la logica di questi ambienti, in quanto donna dovrebbe essere automaticamente portatrice di ideali progressisti. Soprattutto, però, in un frangente segnato da crescenti tensioni sociali e disuguaglianze di reddito esplosive, la qualità principale della senatrice del Massachusetts è quella di essersi costruita un’immagine di fustigatrice degli eccessi di Wall Street e di paladina della classe media americana.
Questa fama, la Warren se l’è costruita in larga misura grazie alla decisione di Obama di sceglierla per creare un’agenzia federale che, dopo la crisi finanziaria del 2008, avrebbe dovuto proteggere gli americani dalle manipolazioni e dagli abusi dell’industria finanziaria. Nella migliore delle ipotesi, la candidata alla Casa Bianca per i democratici, feroce sostenitrice del Partito Repubblicano e del libero mercato fino alla metà degli anni Novanta, è portatrice di proposte di legge che cambierebbero di poco o nulla la struttura del capitalismo americano.
Questa attitudine non sarà comunque di ostacolo alla sua possibile ulteriore ascesa nei prossimi mesi. Anzi, il mix di retorica radicale e di proposte relativamente moderate è utile a neutralizzare le spinte popolari per un reale cambiamento in senso progressista del sistema politico e sociale americano, così da incanalarle come sempre nel vicolo cieco del Partito Democratico. Inoltre, per quanto si sia per il momento avventurata in modo limitato nelle questioni di politica estera, Elizabeth Warren sembra avere le idee già ben chiare sulle posizioni da tenere per legittimare la sua candidatura agli occhi del “deep state” americano. Come ha già fatto più volte lo stesso Sanders, Warren ha individuato nella rivalità con Russia e Cina le priorità dell’imperialismo USA, mentre non vi è né vi sarà traccia nei suoi discorsi pubblici di appelli al sentimento antimilitarista della potenziale base elettorale del suo partito.
L’inaugurazione della stagione delle primarie con i tradizionali “caucuses” dell’Iowa resta in ogni caso ancora molto lontana e, da qui al prossimo mese di febbraio, potranno esserci cambiamenti anche sostanziali degli equilibri in casa democratica. Prima ancora che gli elettori possano esprimersi, a orientare le loro scelte saranno soprattutto manovre politiche, raffiche di sondaggi, finanziamenti milionari, dibattiti ipocriti e manipolati, coerentemente con la natura di un partito che ha come punto di riferimento una parte del mondo degli affari americano e l’apparato militare e dell’intelligence preoccupato per l’irrazionalità e la sconsideratezza delle politiche dell’amministrazione Trump.
Quel che è certo fin da ora è che la campagna elettorale del 2020 per tutti gli uffici a livello federale e statale sarà la più dispendiosa nella storia degli Stati Uniti e, di conseguenza, di qualsiasi altro paese. Secondo alcune stime, la cifra complessiva che verrà spesa entro il novembre del prossimo anno potrebbe superare i dieci miliardi di dollari, con un aumento di quasi il 60% rispetto alla tornata elettorale del 2016.
Per quanto riguarda le presidenziali, al denaro già raccolto e che raccoglieranno i candidati democratici, andrà sommato quello a disposizione di Donald Trump per la sua rielezione. Nel secondo trimestre, il presidente repubblicano ha incassato ben 105 milioni di dollari e, di questo passo, potrebbe arrivare a un totale superiore ai due miliardi, superando di almeno tre o quattro volte la cifra complessiva ottenuta nel 2016. Anche se impopolare nel paese, Trump è passato da outsider a beneficiario di ingenti finanziamenti delle élites economiche e finanziarie, ben disposte a ricompensare un presidente che, a partire dalla sua elezione, ha favorito l’impennata dei profitti e il taglio alle tasse per gli americani più ricchi sulle spalle di lavoratori e classe media.
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Dopo anni di durissime politiche economiche imposte a lavoratori, giovani e pensionati, le elezioni di domenica scorsa in Grecia hanno registrato un nuovo cambiamento di maggioranza che riporterà al governo la destra del partito Nuova Democrazia (ND) del neo-premier Kyriakos Mitsotakis. Il voto anticipato era stato indetto dopo il recente flop alle europee dal primo ministro uscente, Alexis Tsipras, il cui esecutivo – al di là dei limiti entro i quali ha potuto muoversi – agli occhi di milioni di elettori non è stato in grado di migliorare le condizioni di vita disastrose in cui era precipitato il paese in seguito al “salvataggio” dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale (FMI).
La riabilitazione del principale partito conservatore greco, dopo essere stato a lungo il partner preferito dagli ambienti finanziari internazionali e avere perciò pagato un prezzo molto alto nelle precedenti elezioni, arriva in un momento in cui Atene sembra ancora una volta dover fallire gli obiettivi di bilancio ordinati dai suoi finanziatori.
Anche se l’economia della Grecia sta facendo segnare una modesta crescita, il livello del debito rimane al di sopra di quello previsto, così che il governo entrante sarà con ogni probabilità chiamato a provvedere con un’altra dose di austerity. La presentazione del primo bilancio del nuovo gabinetto dopo l’estate darà un’idea del futuro che attende ancora una volta la popolazione greca, troncando quasi certamente una luna di miele con gli elettori che si annuncia di molto breve durata. Intanto, nel pomeriggio di lunedì Mitsotakis ha nominato i membri del suo governo, scegliendo per i dicasteri più importanti fidati esecutori di politiche pro-business e fautori delle privatizzazioni, come il neo-ministro delle Finanze Christos Staikouras, o membri affiliati alla destra del partito, come quello dell’Economia e degli Investimenti Adonis Georgiades.
Se ND ha conquistato domenica quasi il 40% dei consensi, il successo di questo partito non riflette uno spostamento a destra dell’elettorato greco. Piuttosto, i risultati testimoniano di un diffusissimo senso di sfiducia nei confronti dell’intero sistema politico e, per quanto riguarda la bocciatura del governo di SYRIZA (“Coalizione della Sinistra Radicale”), di un tentativo disperato di invertire la rotta attraverso un cambiamento di qualsiasi genere.
L’astensione, superiore al 42%, è stata d’altra parte la più alta da quando la Grecia è tornata alla democrazia dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Inoltre, se si leggono i risultati delle varie formazioni nominalmente di sinistra o centro sinistra, emerge un quadro tutt’altro che sbilanciato a destra. Aggiungendo al 31% di SYRIZA l’8% del Movimento per il Cambiamento (KINAL), che ha preso il posto dei socialdemocratici del PASOK, il 5,3% del Partito Comunista Greco (KKE) e il circa 3,5% del partito MeRA25 dell’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, gli elettori che hanno espresso una scelta più o meno progressista sfiorano il 50%.
A ciò va aggiunto il fallimento dell’estrema destra di Alba Dorata, nemmeno in grado di raggiungere la soglia di sbarramento del 3% dopo che nel voto del 2015 era diventata il terzo partito col 6,3% e 18 seggi in parlamento. Nuova Democrazia potrà ad ogni modo contare su una maggioranza assoluta – 158 seggi su 300 – grazie all’antidemocratico premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale greca per il partito con il numero più alto di voti.
L’ascesa di SYRIZA nel 2015 da partito di sinistra relativamente marginale a forza di governo era stata possibile grazie alla promessa di mettere fine alle politiche di rigore che, almeno dal 2010, avevano decimato la “working-class” greca sull’onda di una rovinosa crisi finanziaria. Tsipras si era trovato però di fronte a una situazione a dir poco disastrosa e, con la pistola puntata alla tempia da Bruxelles, aveva messo da parte in fretta gli impegni della campagna elettorale per sottoscrivere un nuovo pacchetto di “salvataggio” necessario a garantire i debitori del paese e a dare ossigeno alle finanze di Atene.
Sul ruolo di Tsirpas e del governo di SYRIZA si è discusso a lungo in tutta Europa, soprattutto sul fatto che ci fossero alternative alla medicina imposta dall’UE e dal FMI, in primo luogo tramite la mobilitazione delle forze anti-austerity in tutto il continente e delle popolazioni penalizzate pesantemente dalla crisi. In ultima analisi, ad Atene come altrove è prevalsa la volontà di stabilizzare il sistema, anche se le conseguenze sono state durissime per ampi strati della popolazione greca.
Allo stesso modo, il primo ministro uscente ha rivendicato almeno una qualche attenzione all’aspetto sociale nell’implementare le ricette imposte dall’esterno in cambio dei fondi di “salvataggio”, mettendo in guardia da un’intensificazione di queste politiche in caso di ritorno al governo della destra. In definitiva, però, la realtà della Grecia di oggi racconta di un paese con livelli di povertà e disoccupazione elevatissimi, anche se in lieve calo rispetto agli anni precedenti, una spesa sociale ridotta ai minimi termini, salari e pensioni da fame e una totale devastazione nell’ambito dei diritti del lavoro.
Le responsabilità non possono essere attribuite interamente a SYRIZA, ma sono anzi in larga misura anche dei governi precedenti di ND e PASOK, così come ovviamente dei burocrati di Bruxelles e dei centri di potere finanziario a cui questi ultimi fanno riferimento. Tuttavia, gli elettori greci hanno finito per punire un governo che, complessivamente, non ha saputo o potuto migliorare in maniera significativa le condizioni di vita nel paese.
Con l’installazione del prossimo governo guidato da Mitsotakis ciò che attende in ogni caso la maggior parte dei greci è un nuovo peggioramento della situazione. La retorica pre- e post-elettorale del premier in pectore ha ipotizzato tagli alle tasse, ondate di investimenti, crescita economica e posti di lavoro stabili e ben retribuiti. Nella realtà, l’esecutivo di ND intende adottare misure favorevoli al business domestico e internazionale, a cui sarà messa a disposizione la manodopera greca ultra-sfruttata e con diritti ormai ridotti all’osso.
A dare l’idea del percorso che intraprenderà il nuovo governo di Atene sono state le congratulazioni a Mitsotakis espresse dal presidente uscente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker. In modo inquietante, viste le precedenti dosi di austerity somministrate in quasi un decennio, Juncker ha ricordato come la Grecia “abbia fatto molto” finora, ma che, tuttavia, “moltissimo rimane ancora da fare”.
I provvedimenti di carattere economico in linea con i diktat d Bruxelles saranno accompagnati, a detta di Mitsotakis e del suo partito, da un aumento della spesa destinata a combattere quello che viene definito come un preoccupante aumento dei livelli di criminalità. Secondo un’analisi del voto della Reuters, l’attenzione del nuovo governo sarebbe rivolta al “forte movimento anti-establishment” presente soprattutto in alcuni quartieri della capitale e che, ad esempio, ha visto alcuni attivisti prendere d’assalto un seggio elettorale nella giornata di domenica.
In altre parole, l’esecutivo nascente affiancherà ulteriori misure classiste e anti-sociali a un incremento della spesa per le forze di sicurezza, non tanto per contrastare la criminalità, quanto per reprimere manifestazioni di opposizione e resistenza che, già esplose negli ultimi anni con scioperi e proteste di piazza, si moltiplicheranno inevitabilmente contro le nuove politiche di rigore che già si intravedono all’orizzonte.
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La recente visita a Pechino del presidente turco Erdogan ha segnato probabilmente un’altra tappa nell’evoluzione delle strategie geopolitiche del paese euroasiatico membro della NATO. L’incontro con il presidente cinese, Xi Jinping, subito dopo il G20 di Osaka è stato caratterizzato da toni particolarmente cordiali, accentuati ancora di più dalla concomitanza con la finalizzazione dell’acquisto del sistema difensivo anti-aereo russo S-400 e dal rapido evaporare dell’illusoria distensione con gli Stati Uniti registrata nella metropoli giapponese.
A dare il senso dei calcoli di Erdogan sono state in particolare le sue parole sulle condizioni dei musulmani dello Xinjiang cinese, discusse durante la presentazione dei risultati di un viaggio compiuto in questa regione dal ministro per gli Affari Religiosi malese, Mujahid Yusof Rawa. Significativamente, Erdogan ha affermato che “tutti i gruppi etnici dello Xinjiang vivono felicemente in condizioni di sviluppo e prosperità” garantite dalla Cina.
Questa dichiarazione contraddice completamente la versione ufficiale diffusa in Occidente che dipinge senza sfumature uno scenario di dura repressione nei confronti degli Uighuri musulmani nella regione dello Xinjiang. La presa di posizione di Erdogan è anche l’esatto opposto di quanto, solo qualche mese fa, aveva sostenuto il ministero degli Esteri di Ankara, per il quale la situazione dei musulmani dello Xinjiang cinese rappresentava “un enorme motivo d’imbarazzo per tutta l’umanità”.
Secondo l’accademico cinese esperto in studi sulla Turchia, Li Bingzhong, il cambiamento di rotta in questo ambito di Erdogan sarebbe innanzitutto “il risultato dei pazienti sforzi diplomatici di Pechino”. Allo stesso tempo, la difficile situazione interna del presidente turco lo ha spinto a “cercare una via d’uscita” guardando alla Cina. L’evoluzione delle posizioni turche è tanto più di rilievo se si pensa che la vicenda degli Uighuri continua a essere agitata principalmente da Washington per fare pressioni su Pechino e, secondo alcuni, la stessa dichiarazione di condanna del ministero degli Esteri di Ankara ricordata in precedenza era stata probabilmente dettata proprio dal governo USA.
In altre parole, quanto affermato da Erdogan durante la sua visita a Pechino suggerisce che “la Turchia non permetterà a nessuno di creare divisioni nei rapporti tra Ankara e Pechino”. Per l’analista russo Stanislav Tarasov, in ballo ci sarebbe precisamente “l’inizio di una grande scommessa geopolitica” da parte di Erdogan, caratterizzata dall’ingresso “simultaneo in un’alleanza con Russia e Cina”, in un segnale inequivocabile di insoddisfazione per il modo in cui gli Stati Uniti stanno trattando la Turchia.
La convergenza di interessi tra Ankara, Pechino e Mosca è stata sottolineata sempre questa settimana da un’altra occasione diplomaticamente di un certo rilievo. Il ricevimento delle credenziali del nuovo ambasciatore turco a Mosca da parte di Putin ha consentito al presidente russo e ai suoi ospiti di ricordare la solidità della partnership tra i due paesi, nonostante le divergenze sulla crisi siriana.
Putin ha parlato di un rapporto che ha ormai “raggiunto un livello strategico”, per poi citare i progetti bilaterali che a esso stanno dando impulso, a cominciare da quelli energetici come la costruzione della centrale nucleare di Akkuyu e il gasdotto TurkStream. Il presidente del parlamento turco, Mustafa Sentop, ha a sua volta auspicato una prossima cancellazione della necessità dei visti per coloro che viaggiano tra i due paesi, mentre ha ribadito l’obiettivo di raggiungere i 100 miliardi di dollari in scambi commerciali bilaterali.
L’elemento di gran lunga più importante e portatore di sconvolgimenti a livello strategico resta comunque il sistema difensivo russo S-400 che Erdogan ha ancora recentemente assicurato arriverà in Turchia a breve. L’S-400 costituisce una delle principali ragioni del raffreddamento delle relazioni tra Washington e Ankara. Gli Stati Uniti hanno più volte minacciato sanzioni contro la Turchia se l’acquisto del sistema anti-missile russo dovesse andare in porto.
Proprio al G20 di Osaka, il presidente americano Trump aveva però prospettato un ammorbidimento sulla questione S-400. Trump aveva in sostanza dipinto Erdogan come una vittima della rigidità di Obama, la cui amministrazione si era sempre rifiutata di vendere i missili americani alla Turchia, finché il governo di Ankara è stato costretto a rivolgersi al Cremlino per le proprie necessità di difesa e di sicurezza nazionale. Erdogan aveva subito intercettato il segnale di distensione e, il giorno successivo alle parole di Trump, si era spinto ad annunciare l’arrivo imminente del sistema S-400, confidando che gli Stati Uniti si sarebbero astenuti dall’imporre sanzioni punitive contro la Turchia.
La questione è però lontana dall’essere risolta in questo modo. Fonti del Pentagono e del dipartimento di Stato si sono rivolte quasi subito alla stampa americana per spiegare che, malgrado le parole di Trump a Osaka, nulla è cambiato riguardo l’opinione USA sulla fornitura dell’S-400 alla Turchia. Un anonimo diplomatico americano aveva ad esempio spiegato alla Reuters che Ankara rischia “la sospensione dal programma degli [aerei da guerra] F-35 e l’applicazione di sanzioni secondo il CAATSA” (“Countering America’s Adversaries through Sanctions Act”), cioè la legge che prevede appunto misure punitive contro quei paesi che ricevono equipaggiamenti militari dalla Russia.
L’immediato raffreddamento americano verso la Turchia potrebbe dunque avere contribuito al chiarissimo cambio di tono di Erdogan sul trattamento della minoranza musulmana in Cina e a gettare le basi per un rafforzamento della partnership con Pechino. Non solo, qualche segnale circola da tempo anche su una potenziale riconsiderazione delle politiche turche riguardo il teatro di guerra siriano. L’aggravarsi della situazione nella regione settentrionale di Idlib e le pressioni di Mosca potrebbero, secondo alcuni, fare intravedere all’orizzonte una sorta di riconciliazione con il regime di Assad o, quanto meno, l’accettazione della permanenza al potere del presidente siriano dopo oltre otto anni di guerra.
Se la vendita dell’S-400 dovesse essere finalizzata, come sembra molto probabile, non è in realtà chiaro quale sarà la reazione della Casa Bianca. La Turchia resta un alleato cruciale per Washington e per la NATO, così che eventuali sanzioni economiche o militari rischiano di far precipitare la crisi tra i due paesi e di spingere Ankara ancor più nell’orbita di Mosca e Pechino. Trump, in ogni caso, potrebbe sospendere l’introduzione delle sanzioni, utilizzando la facoltà assegnatagli dal CAATSA di individuare eccezioni all’applicazione di provvedimenti punitivi, anche se ciò innescherebbe quasi certamente una risposta negativa da parte del Congresso.
Alcune misure ritorsive contro la Turchia per l’acquisto dell’S-400 sono state peraltro già decise. Il dipartimento della Difesa americano da qualche settimana ha infatti sospeso l’addestramento di piloti turchi sugli F-35. Il programma di realizzazione di questi costosissimi velivoli militari è assegnato a un consorzio di cui fanno parte svariati paesi NATO. Uno di questi è la Turchia che nel programma ha investito miliardi di dollari e si occupa oggi della costruzione di alcuni componenti degli F-35.
Il motivo principale per cui Washington considera incompatibile l’installazione del sistema russo di difesa anti-aereo S-400 in un paese NATO è collegato ai timori che Mosca possa raccogliere informazioni sensibili di carattere militare e indebolire il potenziale bellico degli Stati Uniti e dei loro alleati.
L’analista indipendente Federico Pieraccini ha spiegato recentemente come le implicazioni della vendita alla Turchia e, più in generale, della diffusione su scala globale di un sistema difensivo sofisticato come quello russo rappresenti un incubo per il governo e i vertici militari USA. Un sistema “in grado di abbattere aerei di quinta generazione avrebbe effetti devastanti sull’appetibilità e le vendite di materiale bellico americano, mentre, in parallelo, favorirebbe la popolarità e le vendite di quello di produzione russa”.
Nello specifico, lo stesso analista sostiene che l’S-400 è visto con estrema inquietudine a Washington perché, tramite i radar di cui è dotato, può ottenere dati riservati sui velivoli militari intercettati. Per il Pentagono, l’impiego di questo sistema difensivo in Turchia darebbe la possibilità di conoscere i dettagli proprio degli F-35, ritenuti potenzialmente determinanti in caso di conflitto con una paese come la Russia.
Un altro aspetto preoccupante per gli Stati Uniti riguarda ancora la capacità dell’S-400 di raccogliere informazioni, questa volta riguardo gli aspetti della tecnologia “stealth” applicata all’aeronautica militare americana, quella cioè che permette ai propri velivoli di non essere identificati dai sistemi di difesa nemici. Secondo Pieraccini, “la tecnologia stealth è teoricamente l’ultimo vantaggio che gli USA mantengono sui loro rivali” e il fatto che i segreti di essa possano finire in mani russe tramite l’S-400 è un motivo sufficiente a spiegare l’insistenza su Erdogan per convincerlo a rescindere il contratto di acquisto stipulato con Mosca.