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di Fabrizio Casari
Alexis Tsipras sarà il nuovo Premier della Grecia. Il giovane e brillante leader di Syriza, la formazione della sinistra greca, si è imposto con una maggioranza che dimostra come le pressioni illecite che da Bruxelles e Berlino rimbalzavano nel paese, non hanno spaventato i greci. E’ un voto storico per la Grecia e per l’Europa, che per la prima volta nella storia del continente vede trionfare la sinistra radicale. Circa dieci milioni di elettori hanno scelto di manifestare con il loro voto quanto già, inutilmente, avevano detto nelle piazze, cioè che il commissariamento della Grecia da parte della Trojka e l’imposizione del Memorandum hanno portato alla disperazione il paese ellenico.
Se nelle precedenti elezioni con la crisi di Nuova Democrazia e del Pasok, così come con l’affermazione di Alba Dorata, i greci avevano manifestato disagi e paure, oggi, con il voto a Syriza, si è prodotto un gesto di ribellione aperta contro le logiche monetariste e l’impianto rigorista nelle politiche di bilancio imposte dai poteri forti europei, che per drenare capitali dalle casse pubbliche verso le banche private hanno determinato impoverimento, disoccupazione di massa e drastica riduzione dei livelli di assistenza e previdenza, condannando buona parte del continente alla crisi economica e sociale più profonda nella storia del dopoguerra.
In Grecia, come in altri paesi del fianco sud dell’Europa, si è però dimostrato come l’attuale devastazione economica e sociale non sia solo il frutto di politiche di bilancio approssimative e di crescite sostenute con il debito; al contrario, le crisi economiche e sociali più violente sono il prodotto di politiche rigoriste per tutti ma indulgenti per pochi.
La Grecia, in particolare, è stata due volte vittima: dapprima rappresentando il laboratorio per eccellenza delle manovre truffaldine sui conti, utili a incrementare le collegate speculazioni bancarie; successivamente, patenndo sulla propria pelle le manovre di aggiustamento strutturale comandate da BCE e FMI che hanno distrutto la sovranità nazionale, la coesione sociale e le entità pubbliche del paese ellenico. Il tutto mentre si omaggiavano i poteri finanziari del maggiore arricchimento percentuale degli ultimi 50 anni, scaricando sulle finanze pubbliche il debito privato, trasformatosi magicamente in debito sovrano.
Quello greco, per certi aspetti, è un voto sulle ricette economiche prima ancora che sulle identità politiche. Il modello dominante che il voto greco mette in discussione, vede l’universalità dei diritti e delle prestazioni come un insopportabile elemento perequativo. Concepisce un modello di società dove il mercato deregolamentato rappresenta l’unica possibilità di accesso ai servizi, la nuova organizzazione socioeconomica dei paesi, persino il nuovo senso comune. Intende l’Europa come un immenso mercato senza regole, dove il valore del lavoro é ridotto a poco più che un elemosina e i diritti sociali azzerati, in modo da poter realizzare profitti da primo mondo con costi da terzo mondo.Non si tratta di formazione accademica, ma d’impianto ideologico. Il passaggio del denaro dalle casse pubbliche alla speculazione, sia sotto forma d’interessi sul debito, sia più direttamente con i tagli virulenti al welfare, trasforma in privilegi per alcuni quelli che un tempo erano diritti universali. E’ parte di una cultura politica che vede nella destrutturazione della coesione sociale un passaggio necessario per la riduzione dello Stato ad ente preposto solo al controllo sociale.
Quest’idea di progressiva riduzione del ruolo dello Stato (che in forma esplicita viene concretizzandosi nel nuovo TTPI, il trattato EU-USA di cui si discute in forma segretissima, al riparo da Parlamenti e opinione pubblica) viene contrastato proprio da affermazioni come quella di Syriza, che sul valore delle Istituzioni e sulla loro centralità nel funzionamento delle società, poggiano una cultura politica ad orientamento socialista, che vede nell’equità sociale - e quindi nell’universalità dei diritti e delle prestazioni - la premessa fondamentale.
Per questo il voto di ieri in Grecia disegna una discontinuità in forma e sostanza delle politiche monetariste e dell’austerity. La vittoria di Tsipras inverte infatti le logiche politiche fino ad ora manifestatesi come inevitabili ed è l’inizio della critica europea contro la UE a trazione tedesca. Rappresenta la prima, autentica picconata nel muro eretto dai poteri forti europei a salvaguardia del loro sistema di dominio.
Com’era da immaginarsi, la prima reazione della Bundesbank è stata la richiesta di conferma degli impegni presi da Samaras e d’indicare con chiarezza cosa Atene vorrà fare con l’Euro. Propaganda ormai inutile. Siryza non ha mai proposto l’uscita di Atene dall’Euro; sono alternativi alle politiche economiche e sociali della UE, non scemi. Siryza viene dall’esperienza della sinistra greca riunitasi nel Synaspismos, con un’attrezzatura di competenze politiche ed economiche di assoluto valore, non sono la versione ellenica dei grillini.
Inoltre, i trattati che compongono l’insieme delle norme su cui si fonda l’Unione Europea non prevedono ne direttamente, né indirettamente, la cacciata di un paese dalla Ue e, meno che mai, dalla moneta unica; dunque, se non è Atene a volervi rinunciare (cosa da escludere) né la Merkel, né Junker potranno farci niente.
La questione vera, invece, riguarda il debito sovrano e agita i sogni di Berlino e Bruxelles. La Grecia di Tsipras chiederà la rinegoziazione del debito che risulta oggettivamente impagabile e su questo non vi saranno compromessi. Syriza, in concreto, vuole cancellare la maggior parte del valore nominale del debito pubblico, per poi introdurre una moratoria sul piano di rientro e una clausola di crescita per ripianare il debito restante, in modo da utilizzare le rimanenti risorse per stimolare la ripresa.
Bruxelles non ha scelta e dovrà accettare la rinegoziazione del debito pubblico, che infliggerà comunque un colpo alla sua presunta onnipotenza e aprirà un possibile varco al contagio ad altri paesi europei, Spagna in primo luogo, dove Podemos, che incarna la risposta della sinistra non ottusa e conservatrice, risulta prima nei sondaggi d’opinione. In uno scenario dove nel fianco Sud della UE si dovessero innescare dei risultati emulativi di quello greco, il dominio tecnocrate a guida tedesca sull’Europa subirebbe un colpo mortale.Ci sarà chi argomenterà che le dimensioni del paese e l’impatto della sua economia nel complesso continentale risulta relativo e non in grado di produrre un’inversione di tendenza di valore generale, ma in realtà sotto diversi aspetti la Grecia rappresenta ben più che un test. Vedremo quali saranno ora le conseguenze immediate e quelle a medio termine del voto greco; se cioè la UE deciderà di cominciare a ripensare le sue scelte rigoriste o se invece deciderà di provare a forzare il risultato elettorale aumentando minacce e pressioni su Atene.
Ci saranno spinte e controspinte, ma il dato è chiaro: le politiche dell’odio sociale da ieri sono messe in discussione, tanto nel loro impianto generale come nelle ricette feroci con cui le si applicano, anche quando con eufemismi verbali ed ipocriti vengono definite “suggerimenti” o “aggiustamenti strutturali”.
Con Syriza è l’idea stessa di Stato e di società, di dignità e di sovranità dei paesi, di una economia al servizio del benessere collettivo e non della speculazione di pochi, che ha ripreso cittadinanza in Europa. Sono milioni i cittadini europei che delle politiche rigoriste sono vittime, ma alcuni di essi, ieri, si sono vestiti da scheda elettorale. Un abito made in Grecia, elegante, da giorno di festa.
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di Michele Paris
Il nuovo Congresso americano e l’amministrazione Obama sono in questi giorni nel pieno di uno scontro che potrebbe determinare le sorti delle già complicate trattative in corso per la risoluzione dell’annosa crisi fabbricata attorno al programma nucleare iraniano. La Casa Bianca sta cioè cercando di ostacolare un paio di iniziative di legge volte a esercitare ancora maggiori pressioni sulla Repubblica Islamica, con il rischio di far naufragare definitivamente i negoziati.
Nel conflitto in atto si sarebbe poi inserito addirittura il Mossad, ovvero il servizio segreto israeliano, il quale, distanziandosi clamorosamente dal primo ministro Netanyahu, sembra avere comunicato alla stessa amministrazione Obama e ad alcuni senatori degli Stati Uniti le proprie preoccupazioni per possibili nuove misure punitive dirette contro Teheran.
La prima bozza di legge in questione è sponsorizzata dai senatori Mark Kirk (repubblicano) e Robert Menendez (democratico) e prevede la riapplicazione immediata di tutte le sanzioni economiche che nell’ultimo anno sono state sospese nell’ambito dei colloqui tra l’Iran e il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) nel caso un accordo non dovesse essere raggiunto entro la scadenza fissata al 30 giugno prossimo. Oltretutto, in questa proposta vi è la possibilità di ulteriori sanzioni, da implementare in maniera graduale.
Il presidente Obama ha più volte minacciato di usare il proprio potere di veto per bloccare questa legge, nel caso fosse approvata dal Congresso, e ha ribadito le sue intenzioni ancora nella giornata di martedì.
Se anche il testo della proposta Kirk-Menendez non prevede sanzioni durante i negoziati, l’amministrazione Obama teme a ragione che un nuovo segnale ostile proveniente dal Congresso possa mettere la delegazione iraniana in una posizione insostenibile di fronte alle pressioni dei falchi di Teheran per mettere fine alle trattative sul nucleare.
Dopo un meeting privato tenuto la settimana scorsa tra i vertici democratici, durante il quale pare che Obama abbia avuto uno scambio di vedute sull’Iran piuttosto animato con il senatore Menendez, molti compagni di partito del presidente al Congresso non si sono ancora pronunciati sul sostegno alla legge.
Ad ogni modo, la proposta avrebbe dovuto approdare sul tavolo di una commissione del Senato nella giornata di giovedì per essere discussa ma l’appuntamento è stato rimandato, secondo alcune fonti in attesa che si faccia chiarezza sulla possibilità dei proponenti di contare su una maggioranza sufficiente a neutralizzare l’eventuale veto di Obama.
I senatori Kirk e Menendez si sono anche mostrati disponibili ad attenuare il linguaggio della legge, assegnando maggiore discrezione al presidente sull’applicazione delle sanzioni, così da convincere qualche democratico in più ad appoggiarla.Inoltre, altri tre senatori repubblicani - Bob Corker, neo-presidente della commissione Esteri, John McCain e Lindsay Graham - hanno partorito una proposta alternativa più moderata per consentire al Congresso di avere voce in capitolo riguardo la vicenda del nucleare iraniano. Questa seconda iniziativa prevede che l’eventuale accordo definitivo che uscirà dai colloqui debba essere ratificato da un voto del Senato americano.
Al momento non è chiaro che livello di appoggio la nuova proposta repubblicana possa ricevere soprattutto dai democratici, ma la Casa Bianca si è già detta contraria anche a quest’ultima, rinnovando la minaccia di veto.
Dietro alla diatriba che sta mettendo di fronte la maggior parte dei membri del Congresso e l’amministrazione Obama ci sono evidentemente fortissime divisioni all’interno della classe dirigente americana attorno al programma nucleare dell’Iran o, piuttosto, sulla natura dei rapporti da tenere con questo paese.
Una questione, quest’ultima, che è indissolubilmente legata all’offensiva degli Stati Uniti in Medio Oriente per l’avanzamento dei propri interessi strategici e che, appunto, non può prescindere dal chiarimento delle relazioni con la Repubblica Islamica. Né il Congresso né la Casa Bianca, peraltro, appaiono interessati a riconoscere il ruolo pienamente indipendente che Teheran ambisce a svolgere nella regione, dal momento che entrambi intendono in qualche modo attrarre questo paese nell’orbita dell’imperialismo USA.
Le differenze, perciò, risiedono nelle modalità con cui raggiungere il medesimo l’obiettivo. Da un lato - alla Casa Bianca - si sta cercando in questo frangente di percorrere la strada del dialogo, soprattutto alla luce della disponibilità e della predisposizione moderatamente filo-occidentale e marcatamente neo-liberista del governo guidato dal presidente Hassan Rouhani.
Dall’altro - al Congresso - la prevalenza delle tendenze “neocon” fa in modo che si prediliga la linea dura, ricorrendo a metodi che, in ultima analisi, non possono che condurre a uno scontro armato o, idealmente, al cambio di regime a Teheran.
Significativa dell’attitudine di molti deputati e senatori a Washington è stata una recente dichiarazione rilasciata alla stampa dallo stesso Menendez. L’ex presidente democratico della commissione Esteri del Senato, ribaltando la realtà degli ultimi mesi di negoziati, ha criticato l’amministrazione Obama per avere assecondato eccessivamente gli iraniani “su tutti gli elementi chiave” delle trattative.
Al contrario, dopo il raggiungimento dell’accordo ad interim a Ginevra nel novembre 2013, che ha dato vita al cosiddetto “Piano di Azione Congiunto” per raggiungere un’intesa definitiva, è l’Iran ad avere fatto le concessioni più importanti, ricevendo in cambio solo un lievissimo e molto parziale allentamento delle sanzioni.
La questione del nucleare di Teheran si sovrappone poi alle tesissime relazioni degli Stati Uniti con il governo di Israele. Come già anticipato, i vertici dell’intelligence di Tel Aviv hanno sostanzialmente sconfessato il proprio governo, allineandosi alle posizioni di quello americano circa la necessità di evitare altre provocazioni nei confronti di Teheran per scongiurare il fallimento dei negoziati.Mentre Netanhyanu avrebbe dato il proprio sostegno alla proposta Kirk-Menendez, il Mossad si è adoperato per far conoscere la propria opinione sul nucleare iraniano ai politici americani. Mercoledì, quindi, il segretario di Stato USA, John Kerry, ha provocato più di un malumore all’interno del governo israeliano, rivelando che un esponente dell’intelligence di questo paese ha paragonato l’eventuale adozione di nuove sanzioni al “lancio di una granata sul processo” di distensione sanzionato dall’accordo transitorio di Ginevra.
La notizia dell’iniziativa del Mossad è stata riportata giovedì dall’agenzia di stampa Bloomberg, la quale ha poi raccontato di come l’intelligence di Israele già settimana scorsa avesse avvicinato una delegazione di senatori americani di entrambi i partiti in visita nel paese per invitare alla cautela sulla questione delle sanzioni.
La disputa, però, si è fatta se possibile ancora più complicata dopo che, in risposta alle minacce di veto di Obama e alle stesse indicazioni del Mossad, lo “speaker” della Camera dei Deputati di Washington, il repubblicano John Boehner, ha invitato Netanyahu a parlare di fronte a una sessione congiunta del Congresso il prossimo 11 febbraio.
Il premier del Likud, è facile prevederlo, a poche settimane dalle elezioni in Israele avrà così a disposizione una piattaforma straordinaria per attaccare l’Iran e dare il proprio appoggio a nuove sanzioni proprio mentre il dibattito sull’argomento sarà in pieno svolgimento negli Stati Uniti, mettendo in imbarazzo un’amministrazione Obama impegnata nella nuova fase di negoziati che sembrano essere sempre più appesi a un filo.
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di Michele Paris
Il sesto e penultimo discorso sullo stato dell’Unione di Barack Obama, trasmesso in diretta TV nella serata di martedì, è stato caratterizzato da una marcata accentuazione dei toni fintamente progressisti di un presidente che, ormai svincolato da qualsiasi pressione politica, nei prossimi due anni sarebbe intenzionato a sfidare il Congresso repubblicano per la difesa della “middle-class” americana in affanno.
Questa, per lo meno, sembra essere la versione ufficiale proposta dai media “liberal” negli Stati Uniti, allo scopo sostanzialmente di occultare il significato di un evento annuale ripetuto stancamente e sempre più all’insegna dell’inganno e della distorsione della realtà economica e sociale del paese.
Per Obama, in sostanza, “lo spettro della crisi” sarebbe ormai “passato”, mentre, ricorrendo alla consueta assurda retorica che caratterizza i suoi interventi pubblici, ha proclamato che, “con l’economia in crescita, il deficit in diminuzione, un’industria fiorente e l’esplosione della produzione energetica, siamo usciti dalla recessione ancora più liberi di qualsiasi altra nazione del pianeta per scrivere il nostro futuro”.
Ad ascoltare il tentativo di Obama di delineare la sorta di paradiso che la società USA sarebbe diventata sotto la guida della sua amministrazione a sei anni dall’esplosione della crisi economica e finanziaria, sembra quasi impossibile che i dati reali parlino di oltre 30 milioni di americani senza lavoro o con situazioni di impiego precarie.
Ugualmente, il brulicare di attività economiche descritto dal presidente si scontra con la costante diminuzione delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti negli ultimi sette anni, ma anche con l’aumento dei livelli di povertà, soprattutto tra i minori, e addirittura dell’insicurezza alimentare che interessa oggi più del 16% della popolazione americana.
Obama e l’intera classe dirigente d’oltreoceano sono ben consapevoli delle enormi tensioni sociali che si stanno accumulando a causa delle conseguenze delle loro politiche, così che i toni populisti si fanno sempre più evidenti, com’è apparso chiaro dalle proposte che si sono fatte strada nei discorsi sullo stato dell’Unione degli ultimi anni.
Anche quest’anno, così, Obama non ha rinunciato a delinare un immaginario piano programmatico sul quale il Congresso dovrebbe lavorare nei prossimi mesi. Il campionario pseudo-progressista del presidente prevede in particolare la formazione gratuita di due anni nei cosiddetti “community college” per gli studenti a basso reddito e rimborsi fiscali per la classe media e per coloro che frequentano l’università.
Le risorse necessarie, nella realtà parallela ipotizzata da Obama, arriverebbero da una riforma del fisco che dovrebbe penalizzare i redditi più alti e garantire entrate per 320 miliardi di dollari in dieci anni. L’aliquota più alta sui “capital gains”, ad esempio, salirebbe dall’attuale 23,8% al 28%, mentre verrebbe implementata una tassa sulle transazioni finanziarie degli istituti che dispongono di “asset” pari ad almeno 50 miliardi di dollari.
Com’è facilmente prevedibile, e come Obama sa benissimo, nessuna di queste o altre proposte simili ha qualche possibilità di essere approvata dal Congresso, dove i leader repubblicani hanno infatti già respinto qualsiasi possibilità di valutare anche una microscopica redistribuzione delle ricchezze verso la base della piramide sociale.Nell’atteggiarsi a paladino della “middle-class”, nel suo discorso il presidente americano non ha inoltre spiegato le ragioni per cui iniziative come quelle proposte martedì non siano state introdotte negli anni scorsi, quando il suo partito disponeva di una solida maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Obama, in realtà, ha presieduto a un deliberato processo di impoverimento forzato dei lavoratori e della classe media, dettato dalla necessità di difendere le posizioni del capitalismo americano, i cui rappresentanti si sono enormemente arricchiti nonostante la crisi.
In un gioco delle parti tipico della politica di Washington, come sempre, Obama sceglie deliberatamente di proprorre misure di stampo vagamente progressista proprio perché inattuabili. L’assenza di costrizioni o vincoli elettorali a due anni dalla fine del suo secondo e ultimo mandato di cui hanno parlato i giornali americani va dunque intesa in questo senso.
L’inquilino della Casa Bianca, cioè, di fronte al crescente malcontento che pervade la società USA si ritrova quasi costretto ad attaccare i ricchi e a prendere le parti delle classi in difficoltà, senza però il rischio di doversi realmente impegnare per le proposte avanzate. Una battaglia concreta sull’adozione di misure a favore delle classi più disagiate sarebbe infatti impossibile per un politico americano chiamato ad affrontare un’elezione, dove a decidere sono sempre più quei poteri forti a cui anche i democratici fanno da tempo riferimento.
Piuttosto, in questo modo Obama offre al suo partito una base - sia pure soltanto retorica - sulla quale costruire l’opposizione al Partito Repubblicano, fin troppo facilmente attaccabile come il partito dei ricchi, in preparazione del prossimo appuntamento con le urne nell’autunno del 2016.
In altri passaggi del suo discorso, al contrario, Obama ha lanciato messaggi agli stessi repubblicani per una possibile convergenza tra la maggioranza al Congresso e la Casa Bianca. Le questioni che potrebbero ottenere l’appoggio di entrambi sono soprattutto una nuova “autorizzazione all’uso della forza” in Medio Oriente, l’attribuzione al presidente di poteri speciali per la sottoscrizione di trattati di libero scambio e una modifica del sistema fiscale riservato alle aziende private per diminuire le tasse a loro carico.
Obama, minacciando il ricorso al diritto di veto, ha però ribadito la sua ferma difesa di iniziative gradite da varie sezioni della comunità degli affari, a cominciare dalla “riforma” del sistema sanitario, che beneficia il settore assicurativo privato, e la modesta sanatoria degli immigrati irregolari, decisa recentemente con un decreto presidenziale e accolta in maniera positiva da quelle imprese che contano su manodopera straniera a bassissimo costo.Al di là delle solite tirate sull’eccezionalità della democrazia americana e sulla promozione dei diritti umani, oltretutto a poche settimane dalla diffusione di un devastante rapporto del Congresso sulle torture della CIA, un’importanza particolare nel discorso sullo stato dell’Unione l’hanno avuta infine le questioni di politica estera.
Quella dei rapporti con Cuba, su tutte, aveva suscitato parecchie aspettative dopo la decisione nel mese di dicembre di ristabilire i rapporti diplomatici con l’isola caraibica. Alla vigilia di uno storico vertice bilaterale tra le delegazioni dei due paesi all’Avana, Obama ha difeso il cambiamento di rotta della sua amministrazione, spiegando la necessità che il Congresso agisca per mettere fine all’embargo che dura da oltre mezzo secolo.
Anche in questo caso, il presidente ha tenuto a sottolineare il presunto impegno per i “valori democratici” degli Stati Uniti e la volontà di “estendere la mano dell’amicizia al popolo cubano”, come se fossero realmente queste le ragioni che hanno motivato la recente svolta diplomatica e non, principalmente, le mire del business americano su un paese in cambiamento, dove Washington rischia di perdere terreno nei confronti dei concorrenti asiatici ed europei.
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di Mario Lombardo
Una nuova sospetta “esclusiva” pubblicata in prima pagina lunedì dal New York Times avrebbe dovuto servire a dissipare le perplessità di coloro che nelle scorse settimane avevano messo in dubbio la versione del governo americano circa l’attacco informatico subito da Sony Pictures a partire dal mese di novembre. Secondo la Casa Bianca, cioè, a fare apparire in rete una serie di e-mail confidenziali della compagnia assieme ad alcuni film non ancora usciti nelle sale era stata un’operazione ben pianificata condotta da hacker riconducibili al regime della Corea del Nord.
Gli Stati Uniti avrebbero le prove di prima mano della responsabilità di Pyongyang poiché l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) già nel 2010 era riuscita a penetrare i sistemi informatici nordcoreani, così da monitorare le attività in questo ambito del paese del nord-est asiatico.
In particolare, gli agenti della NSA avrebbero accesso alle reti cinesi a cui la Corea del Nord si connette per entrare in contatto con il resto del mondo. L’operazione USA avrebbe avuto successo grazie “all’aiuto della Corea del Sud e di altri alleati americani”, almeno secondo quanto riferito da funzionari del governo di Washington e da esperti informatici, tutti rigorosamente anonimi.
Gli autori dell’articolo dedicano poi ampio spazio alla descrizione degli sforzi del regime stalinista per creare un’unità di hacker che conterebbe attualmente circa seimila membri, partendo dai tentativi di costruire i primi computer nel 1965. Oggi, a guidare le operazioni di hackeraggio nordcoreane sarebbero i servizi segreti di questo paese e, in particolare, il cosiddetto “Ufficio 121”, che avrebbe, secondo il Times, una “imponente filiale in Cina”.
Da circa un decennio, aggiunge l’articolo, gli Stati Uniti impiantano programmi di sorveglianza e “occasionalmente” anche “malware distruttivi” nei sistemi informatici dei loro avversari. Grazie a essi, per quanto riguarda la Corea del Nord, la NSA avrebbe potuto determinare con esattezza la provenienza dei recenti attacchi diretti contro Sony Pictures.
Quest’ultima compagnia sarebbe stata il bersaglio degli hacker di Pyongyang perché aveva in programma di fare uscire nelle sale cinematografiche il film “The Interview”, nel quale due giornalisti americani vengono assoldati dalla CIA per assassinare il leader nordcoreano, Kim Jong-un. Molti esperti, tuttavia, avevano apertamente messo in discussione la versione di Washington, riconducendo piuttosto l’attacco a un ex dipendente di Sony Pictures o, tutt’al più, a hacker che avevano indirizzato di proposito le indagini verso la Corea del Nord.Ad ogni modo, il pezzo in questione sembra essere stato dettato dal governo americano al giornale newyorchese, presumibilmente il più autorevole negli Stati Uniti, allo scopo di orientare l’opinione pubblica in una direzione ben precisa. Il rilievo dato alla “rivelazione” delle presunte prove incontrovertibili della colpevolezza della Corea del Nord ha fatto in modo che praticamente tutte le testate americane riprendessero la notizia senza un minimo di analisi critica.
I giornalisti del New Yok Times hanno a loro volta riportato pari pari quanto riferito dalla macchina dell’intelligence USA, astenendosi dal ricercare riscontri o, tantomeno, dallo sciogliere gli interrogativi che la notizia ha suscitato.
In realtà, i due autori sono stati costretti ad ammettere che il monitoraggio dei sistemi informatici nordcoreani da parte della NSA solleva una logica domanda, vale a dire perché il governo, se era a conoscenza delle intenzioni degli hacker di Pyongyang, non abbia fatto nulla per mettere in guardia i vertici di Sony Pictures. Della risposta o di una possibile ipotesi circa le ragioni del silenzio del governo, non vi è tuttavia traccia nell’articolo, nonostante le numerose fonti governative a disposizione.
Le spiegazioni, a rigor di logica, possono essere due: l’attacco contro Sony Pictures non è giunto dalla Corea del Nord oppure, se i responsabili sono effettivamente da ricercare a Pyongyang, il governo USA ha lasciato di proposito che l’attacco andasse a buon fine, così da sfuttare l’episodio per aumentare le pressioni sul regime e, indirettamente, sul suo principale alleato, la Cina.
Un’altra questione sollevata dall’articolo del New York Times e messa ancor meno in rilievo è poi la stessa penetrazione da parte della NSA nei sistemi informatici di un paese sovrano, ancorché nemico.
Per la galassia dei media “mainstream” negli Stati Uniti, la questione della legittimità di simili operazioni non è nemmeno in discussione, anche se esse confermano come gli USA, a fronte delle accuse di hackeraggio frequentemente rivolte ai propri rivali, siano i principali responsabili degli attacchi informatici che avvengono nel pianeta.
La vicenda che ha coinvolto Sony Pictures è stata dunque sfruttata da Washington per imporre nuove sanzioni nei confronti della Corea del Nord, colpita anche da almeno un paio di black-out delle connessioni Internet nelle ultime settimane. Allo stesso modo, le accuse indirizzate al regime di Kim Jong-un da parte di membri del governo americano si sono spesso accompagnate a “inviti” alla Cina a fare di più per richiamare all’ordine l’alleato “comunista”.
Questo irrigidimento dell’amministrazione Obama è stato seguito invece da una serie di aperture manifestate dai nordocoreani. Recentemente, il regime ha proposto ad esempio colloqui diretti con Washington, ipotizzando anche la sospensione di un nuovo test nucleare se per il 2015 gli USA avessero cancellato le esercitazioni militari congiunte in programma con le forze armate della Corea del Sud.Come quasi sempre è accaduto in passato, anche in questo caso il governo americano ha però respinto le offerte provenienti da Pyongyang, prospettando anzi possibili ulteriori misure punitive.
Lo stesso governo sudcoreano ha mostrato il proprio allineamento a Washington attorno alla questione del proprio vicino settentrionale, nonostante la presidente, Park Geun-hye, abbia solo pochi giorni fa affermato di essere pronta a incontrare Kim Jong-un e a discutere senza precondizioni.
L’aggravamento dello scontro in Asia tra gli Stati Uniti e la Cina - e i loro rispettivi alleati - non promette quindi nulla di buono nemmeno per la penisola di Corea, uno dei tanti fronti teatro del conflitto in atto tra le prime due potenze economiche del pianeta.
Al di là della disponibilità mostrata dalla Corea del Nord, perciò, gli USA sembrano intenzionati a ricorrere a qualsiasi provocazione, anche da essi creata a tavolino, per mettere all’angolo il regime di Kim, i cui legami con Cina e Russia minacciano di complicare ulteriormente una crisi che appare sempre più vicina al punto di non ritorno.
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di Michele Paris
Alla quasi totale insaputa di centinaia di milioni di cittadini europei le cui vite potrebbero cambiare in maniera significativa, l’UE e gli Stati Uniti stanno negoziando da alcuni anni un colossale e omnicomprensivo trattato di libero scambio o, più precisamente, una Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti, altrimenti conosciuta con l’acronimo TTIP.
In seguito alle crescenti apprensioni manifestate da varie organizzazioni della società civile e a un’indagine sulla segretezza delle trattative sul TTIP condotta dallo stesso ufficio del cosiddetto Mediatore dell’UE (“Ombudsman”), la Commisione Europea ha recentemente reso noti alcuni documenti relativi al trattato, dimostrando il proprio teorico impegno per la trasparenza in questo ambito.
L’UE, in realtà, ha diffuso otto proposte che riguardano questioni come i controlli doganali, i beni alimentari, l’agricoltura e l’etichettatura dei prodotti scambiati, ma ha deciso di mantenere il segreto su aspetti cruciali, tra cui le modifiche alle modalità di accesso ai mercati, definiti dal commissario europeo per il Commercio, la svedese Cecilia Malmström, troppo “sensibili” per essere rese pubbliche prima della fine delle trattative.
I documenti UE diventati da poco di dominio pubblico e la segretezza nella quale rimangono avvolti molti altri, assieme alle proposte americane, confermano come il TTIP non sia altro che uno strumento per assegnare ulteriori e più ampi diritti alle grandi aziende transnazionali, ridimensionando contemporaneamente quelli dei cittadini, a cominciare dai lavoratori.
Riassumendo il senso di una “partnership” come quella allo studio tra USA e UE, la sociologa ed economista Saskia Sassen ha sostenuto che le corporations “intendono limitare il peso del diritto nazionale e il ruolo dei [singoli] governi”, promuovendo “una sorta di sistema legale parallelo e privato sotto il loro controllo per gestire le dispute” in cui potrebbero essere coinvolte.
Un’analisi della stessa accademica americana ha proposto poi un concetto interessante per inquadrare i vari trattati di libero scambio emersi un po’ ovunque nel pianeta a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Questi strumenti servirebbero cioè alle grandi compagnie per creare uno “spazio operativo globale”, all’interno del quale è loro possibile agire per aumentare i profitti sostanzialmente senza i vincoli rappresentati, ad esempio, dalle normative sul lavoro o sul rispetto dell’ambiente di ogni singolo stato.
Questa è la necessità a cui rispondono gli sforzi dei protagonisti dei negoziati ed essi hanno perciò bisogno di un apparato retorico da presentare ai loro cittadini per propagandare i vari trattati o “partnership” come mezzi che prospettano un chimerico arricchimento generalizzato o un’esplosione di nuovi posti di lavoro.
La segretezza che avvolge le trattative smentisce però da sola le intenzioni ufficiali, mentre un lungo elenco di dati sugli effetti dei trattati negli ultimi decenni mette in guardia dalle inevitabili conseguenze, fatte puntualmente di perdita di reddito e di occupazione, soprattutto per i paesi firmatari che vantavano condizioni di vita relativamente dignitose per i lavoratori.
Il TTIP, così come il TPP (Partnership Trans-Pacifica), che coinvolge gli Stati Uniti e 12 altri paesi asiatici e del continente americano, contiene però anche l’estremizzazione del diritto delle corporation a contestare e denunciare qualsiasi azione dei governi firmatari che possa risultare in un danno per i loro profitti.
In altre parole, ogni decisione di un paese sovrano che colpisca in qualche modo gli interessi delle grandi aziende che vi operano può essere oggetto di una contesa, la cui soluzione è affidata a un organo arbitrale terzo e sovranazionale, svincolato dalle leggi di quello stesso paese e, oltrettutto, non appellabile.In sostanza, i governi che aderiscono a simili trattati sono scoraggiati dall’adottare regolamentazioni anche modeste che potrebbero costare care, vista anche la virtuale assenza di un tetto ai risarcimenti per le corporations “danneggiate”, per non parlare di iniziative più radicali come nazionalizzazioni o espropri.
Gli esempi di cause di questo genere sono peraltro già centinaia nel pianeta e una delle più recenti riguarda il governo tedesco, denunciato dalla compagnia energetica svedese Vattenfall per 6 miliardi di euro in seguito alla decisione presa da Berlino di abbandonare il nucleare dopo il disastro di Fukushima, in Giappone, del 2011.
Il TTIP, inoltre, minaccia di importare nel continente europeo regole decisamente meno rigorose in materia di controlli sulle merci e, in particolare, gli alimenti. Secondo il sito web italiano Stop-TTIP, le etichettature obbligatorie “dovranno essere limitate il più possibile per evitare che diventino ostacoli al libero mercato”, mentre la tanto decantata protezione dei prodotti tipici e del “Made in” potrebbe lasciare spazio a una “semplificazione e omologazione” con “l’addio ai controlli su tutte le fasi della filiera”.
I timori in questo settore riguardano anche la possibile introduzione sul mercato europeo di alimenti geneticamente modificati (OGM) provenienti dagli Stati Uniti, così come in ambito energetico non sembra potersi escludere una diffusione massiccia della pericolosa pratica del “fracking” per le estrazioni di gas e petrolio.
Sul fronte della proprietà intellettuale, l’eventuale armonizzazione delle norme europee e americane potrebbe avere infine un impatto rovinoso sulla libera circolazione delle idee e l’accesso alla conoscenza, con l’assegnazione di un potere enorme quanto inquietante alle grandi compagnie che operano in quest’ambito.
Da tenere in considerazione è anche l’aspetto strategico del TTIP, sia pure intimamente legato a quello economico e di classe. A ricordarlo è stata qualche settimana fa lo stesso commissario Malmström, per la quale nei negoziati in corso “le tradizionali questioni come l’accesso ai mercati e le tariffe doganali su beni e servizi non sono mai state un problema per l’Europa e gli USA”, visto che queste ultime sono già molto basse.
Per l’ex diplomatica svedese, piuttosto, il TTIP avrebbe a che fare col fatto che le due parti in trattativa sono “le più grandi economie [del pianeta] che condividono molti valori comuni”, come “democrazia, rispetto del diritto, dell’individuo e dei mercati aperti”.
Questa precisazione lascia intendere, com’è evidente, che il trattato USA-UE rientra all’interno dell’offensiva di Washington contro la Russia, con il preciso scopo di impedire una maggiore integrazione dei propri storici alleati nel vecchio continente in un blocco economico euroasiatico.
Ancorando così l’UE agli Stati Uniti, il governo americano intende completare la propria strategia di accerchiamento - in questo caso economico - della Russia, dopo quello militare in fase già avviata soprattutto in seguito all’esplosione pilotata della crisi in Ucraina. In questo senso, il TTIP è il corrispondente europeo del TPP in Estremo Oriente, dove nel mirino di Washington c’è ovviamente la Cina.La creazione di queste due gigantesche aree di libero mercato, all’interno delle quali circolano complessivamente ben più della metà delle merci scambiate nel pianeta, deve avvenire secondo i termini del capitalismo a stelle a strisce, vista appunto la necessità di giungere in questo modo alla dominazione dell’“impero” sui propri rivali, quanto meno a livello teorico.
Per fare ciò e chiudere il cerchio, è indispensabile quindi ideare strumenti come le “partnership”, così da abolire quelle che sempre il commissario Malmström ha definito “barriere non doganali” al libero dispiegamento del commercio, ovvero le rimanenti regolamentazioni previste dai paesi aderenti ai trattati, viste come ostacoli ai profitti delle corporations.
In breve, il TTIP e i suoi simili non sono altro che coperture per giungere alla dittatura del capitalismo transnazionale, con quello americano a farla da assoluto protagonista.
Un progetto di questo genere, come appare evidente, non può essere perseguito con metodi democratici. Da qui, dunque, la segretezza quasi maniacale circa il contenuto delle trattative, sulle quali pesano in maniera determinante le pressioni delle lobby delle grandi aziende, desiderose di estrarre il massimo dai trattati in discussione.
Sul TTIP, come sul TPP, pesano però numerose incognite che ne stanno ritardando in maniera imbarazzante l’approvazione. Oltre all’inesorabile declino economico americano e alle proteste popolari che coinvolgono un numero sempre più consistente di persone, come le decine di migliaia sfilate nel fine settimana a Berlino, a complicare i negoziati sono anche e soprattutto le rivalità tra i vari paesi coinvolti e, all’interno di essi, la difficoltà - per non dire l’impossibilità - di conciliare gli interessi economici contrastanti delle rispettive sezioni della borghesia nazionale, che sperano di beneficiare o temono di essere danneggiate dall’ingresso in un blocco sovranazionale dominato dagli Stati Uniti.