A pochi giorni di distanza dal dodicesimo anniversario della perdita della libertà a causa della persecuzione giudiziaria del governo americano e dei suoi complici in Gran Bretagna, Svezia, Ecuador e Australia, Julian Assange è tornato finalmente un uomo libero nella giornata di lunedì grazie a un accordo raggiunto con il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. Di un possibile patteggiamento si discuteva in maniera non ufficiale da qualche mese, ma a convincere Washington a mollare la presa è stata una combinazione di fattori, primo fra tutti l’insostenibilità delle ragioni dell’accusa con l’approssimarsi dell’epilogo di un procedimento-farsa orchestrato fin dall’inizio per infliggere una punizione esemplare al 52enne giornalista australiano.

Il ricorso a operazioni di matrice apertamente terroristica contraddistingue il regime ucraino almeno fin dall’inizio della guerra con la Russia nel febbraio 2022. Il bombardamento di una popolare spiaggia in Crimea nel primo pomeriggio di domenica sembra però un’azione in grado di imprimere un’ulteriore svolta al conflitto, soprattutto per via del ruolo decisivo svolto dagli Stati Uniti. È possibile infatti che Mosca decida nel prossimo futuro una ritorsione direttamente contro le forze NATO o, quanto meno, qualche iniziativa che restringa in maniera drastica le manovre di queste ultime in appoggio alla strategia disperata di Kiev.

La prima visita in 24 anni in Corea del Nord del presidente russo Putin ha scatenato una valanga di commenti altamente critici sulla stampa e tra i governi “democratici” occidentali. Dai pericoli legati al consolidamento dell’alleanza tra due potenze nucleari al rischio di un definitivo aggiramento delle sanzioni imposte a Pyongyang, le ragioni alla base di questa isteria collettiva sono state esposte con tutti i dettagli del caso. Inutilmente si cercherebbe invece un’analisi oggettiva delle implicazioni del vertice, da inserire nel quadro del rafforzamento di un sistema di governance globale alternativo, anche perché ciò comporterebbe la presa d’atto dell’ennesimo colossale fallimento della politica estera di Washington.

Gli eventi seguiti alle elezioni generali di fine maggio in Sudafrica sono stati inevitabilmente influenzati dal peggiore risultato fatto segnare dall’African National Congress (ANC) dalla prima consultazione democratica del 1994 dopo la fine del regime di apartheid. Il partito che fu di Nelson Mandela era sceso per la prima volta sotto il 50% dei consensi ed è stato così costretto a entrare in un’inedita alleanza politica con altre formazioni, tra cui la principale è la propria nemesi dell’Alleanza Democratica (DA), tradizionale espressione delle élites bianche ed erede di fatto del Partito Nazionale al potere tra il 1948 e il 1994.

Il primo ministro cinese, Li Qiang, è protagonista in questi giorni di una trasferta in Oceania con al centro delle discussioni il tentativo di contrasto alle manovre americane per contenere e accerchiare militarmente la Repubblica Popolare. Australia e Nuova Zelanda sono due elementi fondamentali nella strategia americana di confronto con Pechino ed entrambi i paesi stanno progressivamente e pericolosamente piegandosi alle pressioni degli Stati Uniti nonostante abbiano proprio nella Cina il loro principale partner commerciale.


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