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di Carlo Benedetti
MOSCA. Partono le indagini mentre l’intera Russia è in lutto. L’ombra della strage di Domodiedovo (35 morti) domina nei palazzi del potere e il Cremlino comincia a fare i conti con la realtà. Come solito in questo Paese, i conti si fanno con le irregolarità, le violazioni, le manchevolezze. Ne parla direttamente il Presidente Dmitrij Medvedev il quale, annuncia che “la direzione dell'aeroporto Domodiedovo di Mosca dovrà rispondere dell'attentato”.
Non usa perifrasi Medvedev: "Quello che è accaduto dimostra chiaramente che ci sono state violazioni delle regole di sicurezza. C'è stato un vero fallimento dei servizi di vigilanza perchè si è arrivati a portare, o far passare, una grande quantità di esplosivo. Pertanto, quelli che hanno delle responsabilità, quelli che prendono delle decisioni, dovranno rispondere di tutto. I dirigenti dell’aereoporto saranno portati davanti alla giustizia per la violazione delle norme di sicurezza e di conseguenza ho incaricato il procuratore generale - dice ancora Medvedev - d’indagare in questa direzione ”.
Scatta, di conseguenza, la giusta repressione nei confronti dei servizi. Ma la vera attenzione, in questo momento, riguarda i primi risultati che le fonti ufficiali rendono noti. Secondo i dati preliminari, sarebbero stati due i terroristi kamikaze, una donna e un uomo, gli autori della strage effettuata con un ordigno che oltre a cinque kg. di tritolo conteneva pezzi di filo d’acciaio, di 5 millimetri di diametro e lunghi 2 centimetri: il che spiega il così alto numero di vittime. Il copione - dicono quelli della sicurezza - è “classico”. E questo vuol dire che, in particolare, si segue la pista di quel terrorismo che proviene (questa la tesi dell’intelligence locale) dal Caucaso del Nord e che ricorda le bombe nella metropolitana di Mosca della primavera scorsa.
Il perché della “pista caucasica”, comunque non è un fatto nuovo. Tutte le volte che a Mosca o in altre città accade qualcosa che si avvicina a fatti di terrorismo, la prima reazione consiste nell’aprire il dossier della lotta ai musulmani – independisti caucasici - provenienti dalla Cecenia, dal Daghestan e dall’Inguscezia. Di conseguenza scattano indagini a tappeto con il fermo di quelle persone che hanno la sola colpa di avere “un volto caucasico”. Ed è, quindi, una caccia all’uomo che alimenta anche il fanatismo dei nazionalisti russi.
Ma ci sono anche altre versioni ed altre piste nelle indagini di queste ore. Secondo il deputato Maksim Scevcenko, “l’attentato potrebbe essere un gesto estremo effettuato da organizzazioni neonaziste che vogliono sabotare il rapporto tra la Russia e i paesi dell’Asia post-sovietica”. “Non è un caso - aggiunge l’esponente della Duma - che l’attentato è stato messo in atto mentre si stava procedendo allo sbarco dell’aereo proveniente da Duscianbè in Tagikistan: un volo quasi interamente riservato a quei lavoratori asiatici che vengono a lavorare, clandestinamente, a Mosca. E cioè musulmani contro i quali la destra neonazista russa in questi ultimi tempi si sta scatenando”.
Intanto la caccia alle persone “non russe” continua ovunque. Nella città di Ulianov un gruppo di musulmani denuncia violazioni effettuate dalla polizia locale che, sull’onda dei fatti di Domodiedovo, attua perquisizioni e arresti, senza motivi plausibili. Mentre questo avviene, a Mosca una donna azera di 45 anni è stata aggredita ed uccisa da un gruppo di razzisti in un vagone della metropolitana. Ed è un fatto, anche questo, che va messo nel conto delle tante piste che si seguono a Mosca.
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di Michele Paris
A poco meno di due settimane dalla fuga del deposto presidente Zine el-Abidine Ben Ali, il popolo tunisino continua a manifestare contro un governo provvisorio che, nonostante alcuni provvedimenti di facciata, continua ad essere dominato da esponenti del vecchio regime. In una situazione di pieno fermento nel paese nord-africano, a Washington e a Parigi, così come tra le élites locali, si teme un’ulteriore escalation delle proteste popolari e delle rivendicazioni sociali e civili. Uno scenario che rischia di diffondere il contagio della rivolta in tutto il mondo arabo e che potrebbe non limitarsi al solo rovesciamento dei regimi autoritari per sostituirli con governi più presentabili ma ugualmente al servizio degli interessi occidentali.
A dare sostegno ai manifestati che da giorni chiedono le dimissioni del primo ministro ad interim e già braccio destro di Ben Ali, Mohammed Ghannouchi, giovani, lavoratori e disoccupati continuano a giungere a Tunisi dalle aree interne più disagiate del paese. Mentre nei giorni scorsi le forze di polizia erano sembrate concedere una tregua ai tunisini scesi in piazza, confidando in un rapido dissolversi delle contestazioni una volta insediato un nuovo governo, questo atteggiamento ha lasciato spazio ancora una volta alla repressione, indicando la volontà di rimanere al potere da parte degli uomini che già facevano parte della cerchia dell’ex presidente e che stanno cercando di incanalare la rivoluzione verso una transizione pacifica e indolore.
I segnali che la rabbia popolare scatenata in Tunisia sta attraversando i confini sono molteplici. La stampa internazionale negli ultimi giorni ha raccontato diffusamente degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine in Algeria, Egitto, Marocco, Libia, Giordania e Yemen. Ovunque, invariabilmente, gli strati più poveri di questi paesi arabi protestano contro la disoccupazione, l’aumento dei prezzi dei beni di consumo, la corruzione dilagante e la mancanza di spazi democratici che permettano loro di avere una vera rappresentanza politica e di beneficiare delle ricchezze dei loro paesi.
La persistenza dei tunisini in rivolta ha presto smascherato anche il divario tra le loro aspettative e quelle stesse istituzioni e organizzazioni che pretendevano di costituire un baluardo di opposizione nei confronti di Ben Ali. Quei partiti dell’opposizione più o meno tollerati e la stessa Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT), l’unico sindacato permesso da un regime che aveva di fatto appoggiato fino all’esplosione delle proteste, sono infatti stati costretti a ritirare i propri rappresentati dal primo governo di “unità nazionale” seguito alla cacciata di Ben Ali.
Il timore di un’opposizione popolare fuori controllo, che aveva spinto i partiti nominalmente anti-regime a entrare in un Gabinetto di emergenza al fianco degli uomini che avevano rappresentato l’ossatura del regime fino al giorno precedente, è in definitiva ciò che ha spinto anche il generale Rachid Ammar, capo delle forze armate tunisine, a parlare recentemente alla folla a Tunisi. Ad essa, Ammar ha promesso di sostenere la rivoluzione ma ha chiesto allo stesso tempo di confidare nell’opera del governo provvisorio, di cui l’esercito non è altro che lo strumento, come unica strada per risolvere la crisi ed evitare una nuova dittatura.
Il ritratto decisamente benevolo che i giornali occidentali stanno facendo in questi giorni dell’esercito tunisino - apolitico, professionale e favorevole ad una transizione democratica - così come del generale Ammar (secondo il New York Times la personalità più popolare del paese e un possibile candidato ad una carica politica di spicco) rientra perfettamente nel tentativo di appoggiare la normalizzazione della situazione nel paese maghrebino da parte americana ed europea. Un ritorno all’ordine basato su un governo più presentabile e che si limiti a qualche limitata concessione democratica, preservando gli interessi dell’Occidente e della ristretta cerchia che detiene il potere in Tunisia.
Per i governi occidentali che consideravano Ben Ali ed il suo regime un modello di stabilità per il mondo arabo, d’altra parte, le preoccupazioni sono sostanzialmente identiche a quelle della classe dirigente tunisina. A dimostrarlo sono le dichiarazioni ufficiali e la gran parte dei commenti della stampa istituzionale, da cui traspare non solo l’opportunismo dell’appoggio tardivo alle rivendicazioni del popolo tunisino, ma anche l’inquietudine per una protesta che non accenna a placarsi.
Campione d’ipocrisia in questo senso è stato il presidente francese Sarkozy, il cui ministro degli Esteri, Michèle Alliot-Marie, aveva offerto il sostegno delle forze di polizia di Parigi a quelle di Ben Ali, impegnate nel soffocare la rivolta, solo pochi giorni prima della sua deposizione. Nel tentativo di rimediare alle gaffe del suo governo, Sarkozy ha dichiarato di aver sottovalutato la rabbia che proveniva dalla popolazione della Tunisia e che, in ogni caso, per la Francia sarebbe stato inopportuno intromettersi nelle vicende interne di un’ex colonia.
Come é evidente, alla classe politica transalpina sono sempre state chiare le condizioni del popolo tunisino, oppresso da un dittatore che in questi 23 anni ha avuto il pieno appoggio di governi e presidente francesi. Allo stesso modo, la pretesa di non voler intervenire nei fatti domestici di un paese indipendente suona totalmente falsa, dal momento che la Francia, come le altre potenze occidentali, continua ad esercitare una profonda influenza su molti paesi africani per promuovere i propri interessi. Basti pensare alla Costa d’Avorio, dove enormi pressioni si stanno facendo sul presidente Laurent Gbagbo per lasciare la carica al suo rivale sostenuto dall’Occidente, presunto vincitore delle elezioni dello scorso novembre.
Lo stesso terrore per scenari inaspettati e un sostanziale disprezzo per le aspirazioni delle classi più disagiate, in Tunisia come altrove, traspare anche dai media americani. Sul Washington Times, ad esempio, recentemente il commentatore islamofobo Daniel Pipes ha messo in guardia da un possibile effetto domino della rivoluzione tunisina nel mondo arabo, facendo inoltre notare come il diffondersi dei disordini potrebbe rinvigorire l’integralismo islamico, nonostante quest’ultimo non abbia avuto praticamente nessun ruolo nei fatti di Tunisia. Per il direttore del think tank conservatore Middle East Forum, insomma, l’amministrazione Obama dovrebbe procedere sulle orme di George W. Bush, promuovendo la democrazia, ma “con la dovuta cautela”, poiché essa potrebbe “inavvertitamente facilitare la presa del potere da parte degli islamici radicali”.
Ancor più sconcertanti sono le conclusioni del giornalista e scrittore Robert Kaplan, apparse in un editoriale pubblicato dal New York Times. Avallando incondizionatamente gli interessi imperialistici americani e senza alcuno scrupolo per le condizioni delle popolazioni arabe, Kaplan in definitiva assegna a Ben Ali un ruolo tutto sommato positivo nella crescita del suo paese. A suo dire, infatti, “per ciò che concerne gli interessi americani… la democrazia comporta numerosi pericoli”. Se la democrazia ha portato al potere un movimento estremista come Hamas a Gaza, meglio allora appoggiare autocrati come Sadat o re Hussein di Giordania, dai quali gli Stati Uniti hanno ottenuto maggiore condiscendenza e garanzie di stabilità.
Se le sorti della rivoluzione tunisina appaiono ancora incerte, quel che é evidente è che le legittime speranze di vero cambiamento, pagate con il sangue di decine di morti in queste settimane, non potranno in nessun modo essere soddisfatte né da una classe politica locale compromessa con il vecchio regime, né da governi occidentali totalmente delegittimati a fornire lezioni di democrazia.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Lo scorso novembre, mentre la nave da addestramento della marina tedesca Gorch Fock si trovava nei pressi del porto di Salvador de Bahia, in Brasile, un’allieva ufficiale è caduta dall’albero delle vele ed è morta quasi sul colpo. L’incidente ha avuto conseguenze del tutto inaspettate: qualche giorno fa, la Gorch Fock ha interrotto il suo viaggio e l’intera ciurma è stata rimpatriata. Non è la prima volta che un cadetto muore durante l’addestramento militare, eppure, mai nella storia della marina tedesca si era arrivati alla sospensione della rotta. Cosa ha spinto il Governo tedesco a sospendere l’addestramento sulla Gorch Fock?
A quanto risulta da alcune testimonianze pubblicate solo di recente, le circostanze in cui è morta l’allieva non sono del tutto chiare e il fatto potrebbe aver creato tensioni tra cadetti e comando militare. In una lettera ufficiale, inviata al Ministero della Difesa tedesco e resa pubblica solo in questi giorni, l’equipaggio della Gorch Fock ha accusato gli istruttori di esercitare gli addestramenti con eccessiva pressione e violenza: si può dire che, indirettamente, i cadetti hanno incolpato il comando della morte dell’allieva ufficiale. I comandanti, per tutta risposta, hanno incriminato quattro aspiranti ufficiali di ammutinamento. Fatto sta che ora, sulla Gorch Fock, s’indaga ufficialmente, poiché serve chiarezza: l’ammutinamento potrebbe essere solo la punta dell’iceberg di uno scandalo ben più ampio.
Condizioni di estrema spossatezza, nonnismo esasperato, alcool e molestie sessuali sono solo alcune delle accuse che i cadetti hanno lanciato agli istruttori militari. Qualcuno fa notare che l’allieva ufficiale era troppo bassa per arrampicarsi sull’albero maestro: chi l’avrebbe obbligata a fare l’esercitazione se non c’erano i presupposti fisici necessari? Per quale motivo?
Alcuni testimoni raccontano che, pochi giorni dopo la morte della cadetta, sulla Gorch Fock si sarebbe tenuto un festino di carnevale con alcool e travestimenti, un party ritenuto dai cadetti di cattivo gusto dato il recente lutto. Altri, più in generale, parlano di riti d’iniziazione alla vita di marina molto simili a quelli delle peggiori prigioni del mondo, consuetudini che assomigliano a violenze sessuali vere e proprie.
Ancora poco chiari i primi risultati ufficiali delle indagini. La procura di Kiel, da parte sua, si è limitata a escludere la possibilità di pressioni esercitate sull’allieva: l’aspirante ufficiale era una cadetta estremamente motivata e non c’era alcun bisogno di incitarla a prendere parte alle esercitazioni, dicono i legali. A sostegno della tesi, il procuratore ha sottolineato la passata carriera da sottoufficiale di marina della ragazza.
Eppure, i media tedeschi già riportano la notizia del licenziamento del capitano della Gorch Fock, Norbert Schatz, in seguito alle informazioni rilasciate dall’equipaggio. Decisione che non ha mancato di lasciare a bocca aperta gli ufficiali della marin tedesca, che non si aspettavano tanta risoluzione. La Gorch Fock, per il momento, naviga in acque poco chiare (è il caso di dirlo) e il suo destino rimane avvolto dalla nebbia.
E ora il Governo tedesco pretende spiegazioni chiare ed esaurienti dal ministro della Difesa, Karl-Theodor zu Guttenberg (CSU). Sembra difficile credere che Guttenberg non sapesse nulla dell’accaduto e che ne sia venuto a conoscenza solo ora tramite stampa: perché, dunque, finora non sono stati presi provvedimenti al riguardo? L’opposizione già accusa il ministro cristianosociale di tentato insabbiamento. Gutteberg, tra l’altro, è attualmente al centro di un secondo scandalo della stessa natura: si tratta di un soldato di 21 anni morto il 17 dicembre scorso nel nord dell’Afghanistan per un colpo d’arma da fuoco sparato involontariamente durante un’esercitazione.
Per diverse settimane, una vaga versione ufficiale ha parlato del coinvolgimento di due commilitoni nell’incidente delle province afghane. Ora risulta che, nella stessa zona, qualcuno ha aperto la posta in partenza dei soldati tedeschi: i più maliziosi mettono in relazione gli avvenimenti e sospettano che il ministero abbia voluto controllare le informazioni in uscita per evitare la diffusione di informazioni scomode. Anche perché, in questi giorni, i giornali parlano di più di dieci persone presenti all’attentato, possibili testimoni di cui finora non si è avuta notizia. E in Afghanistan, purtroppo, non c’è nessun capitano Schatz che possa fare da capro espiatorio.
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di Michele Paris
Mantenendo una promessa fatta in campagna elettorale sotto le pressioni dei Tea Party, qualche giorno fa il Partito Repubblicano alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha votato all’unanimità per l’abrogazione della riforma del sistema sanitario firmata da Obama nel marzo 2010. L’iniziativa della nuova maggioranza nel ramo più basso del Congresso americano non è in realtà che una mossa puramente simbolica. Gli equilibri di potere usciti dopo le elezioni di medio termine dello scorso novembre minacciano però un possibile ulteriore ridimensionamento di una legislazione che già nella sua forma attuale farà ben poco per aggiustare un sistema sanitario totalmente al servizio del profitto privato.
Il testo presentato dalla leadership repubblicana alla Camera, significativamente chiamato “Repealing the Job-Killing Health Care Law Act”, è stato approvato con 245 voti a favore e 189 contrari, con tre deputati democratici che si sono uniti alla maggioranza. Nonostante il passaggio senza difficoltà del provvedimento, esso non ha praticamente alcuna possibilità concreta di cancellare interamente la faticosa riforma voluta da Obama e dai democratici. Questi ultimi, infatti, conservano una sia pur risicata maggioranza al Senato, dove è probabile che il testo appena licenziato dalla Camera non verrà nemmeno discusso. Anche nell’eventualità di un voto favorevole del Senato, comunque, il presidente avrebbe sempre a disposizione l’arma del veto per bloccarne l’entrata in vigore.
L’intero dibattito sulla controversa riforma sanitaria e lo zelo dei repubblicani testimoniano a sufficienza dell’isteria esplosa da subito attorno ad uno dei nodi centrali della campagna elettorale di Barack Obama per la Casa Bianca nel 2008. Le critiche che provengono da destra alla cosiddetta “Obamacare” continuano a sottolineare una eccessiva quanto improbabile intrusione del governo nel settore della sanità, tanto che alcune voci più estreme tra i repubblicani, come la deputata del Minnesota e beniamina dei Tea Party, Michele Bachman, l’hanno assurdamente definita un perfetto esempio di “medicina socializzata”.
Oltre a ciò, i repubblicani sostengono di temere un aumento vertiginoso del debito pubblico e lo spiacevole effetto collaterale della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, dal momento che, a loro dire, molte aziende saranno costrette a licenziamenti di massa perché non in grado di fornire la copertura ai loro dipendenti. In realtà, per le aziende non è contemplato alcun obbligo di offrire un piano di assistenza ai lavoratori, bensì sono previste sanzioni molto modeste per quei datori di lavoro che decideranno di non farlo.
Per quanto riguarda l’aumento del debito pubblico, le stime che i repubblicani continuano a propagandare impunemente si basano su studi promossi da organizzazioni e think tank di parte. L’unica fonte imparziale, l’Ufficio per il Bilancio del Congresso (CBO), incaricato di valutare in maniera indipendente l’impatto sulle casse federali delle varie leggi in discussione, ha confermato che la riforma di Obama contribuirà a far abbassare il deficit pubblico nel prossimo decennio, tagliando i costi nel settore sanitario - e di conseguenza anche i servizi - per 143 miliardi di dollari.
Nel complesso l’intera legislazione, che sarà attuata interamente a partire dal 2014, ben lontana dall’avere anche solo qualche traccia di socialismo, si basa pressoché del tutto sul settore privato. Scomparsa quasi subito dalla discussione politica l’ipotesi dell’istituzione di un piano pubblico universale, l’allargamento della copertura sanitaria previsto dal compromesso finale partorito dal Congresso si fonda in parte su una relativa espansione del popolare programma gestito dal governo federale, Medicaid, ma soprattutto sullo stanziamento di limitati sussidi per i redditi più bassi che dovranno ricorrere a polizze private.
I contenuti della legge che più stanno contrariando i repubblicani sono il divieto imposto alle compagnie assicurative private di negare la copertura ai cittadini con malattie pregresse e, in particolare, il mandato obbligatorio che imporrà a tutti gli americani di acquistare una polizza sanitaria, ancorché privata. Quest’ultimo aspetto della riforma è ritenuto da molti, soprattutto a destra, palesemente incostituzionale ed è già causa di procedimenti legali di fronte a svariate corti federali. Con ogni probabilità, la controversia verrà risolta dalla Corte Suprema nel prossimo futuro.
Consapevoli di non avere praticamente nessuna chance di revocare per il momento la riforma di Obama, i repubblicani promettono una battaglia a dir poco aggressiva su elementi specifici della legislazione stessa, come appunto l’obbligo di acquisto di un’assicurazione sanitaria. Per di più, la maggioranza alla Camera ha già annunciato di voler ostacolare lo stanziamento dei fondi destinati a quegli organismi federali incaricati a breve dell’implementazione dei vari elementi della riforma.
Al di là della diatriba tra democratici e repubblicani, a ben vedere le posizioni dei due principali partiti americani sulla questione della sanità appaiono molto più vicine di quanto possa apparire. Entrambi, infatti, concordano in pieno sul fatto che l’obiettivo primario di qualsiasi intervento legislativo in quest’ambito debba mettere al primo posto il contenimento dei costi.
Praticamente nessuno all’interno del Congresso mette poi in discussione la prevalenza assoluta del settore privato e la salvaguardia dei profitti delle grandi compagnie che dominano il mercato e che di fatto contribuiscono a finanziare la politica di Washington. Per questo, non deve sorprendere che sia scomparso anche solo qualsiasi lontano accenno alle cure sanitarie come diritto universale di tutti i cittadini e, come tale, garantito da un sistema pubblico.
La sostanziale conformità di vedute di maggioranza e opposizione è confermata poi dalle recenti aperture mostrate dalla Casa Bianca e da alcuni senatori democratici nei confronti dei repubblicani. Obama e i suoi compagni di partito si sono detti disposti a discutere di possibili modifiche alla riforma. Alcune proposte che potrebbero trovare un consenso bipartisan prevedono così nuovi tagli alla spesa sanitaria, ma anche limiti severi al diritto dei pazienti di denunciare i medici nei casi di malasanità e ulteriori restrizioni al finanziamento pubblico per le interruzioni di gravidanza.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. Dieci chilogrammi di tritolo esplodono nel nuovo aeroporto “Domodedovo”. Sono le 16,40 ora di Mosca (le 14,40 italiane). E’ una strage. A terra restano 35 vittime squarciate dalle schegge, 130 i feriti gravi. L’intero edificio - è la zona della consegna dei bagagli delle linee internazionali - è ridotto a un cumulo di rovine. Il caos è incredibile. Migliaia di persone si aggirano tra gli spezzoni della struttura di cemento armato, tra corpi dilaniati e bagagli sventrati. Tutto questo mentre la polizia - in un clima da apocalisse - cerca di arginare la folla.
Intanto sul posto, per i primi soccorsi, sono all’opera oltre duecento uomini dei servizi di sicurezza dell’aeroporto, i medici della Croce Rossa e i Vigili del fuoco. E dalla grande arteria, quella che unisce “Domodiedovo” alla capitale snodandosi tra la boscaglia, arrivano colonne di automezzi militari, auto della polizia e decine di ambulanze mobilitate per questa tragedia nazionale. E’ difficile, impossibile, farsi largo in questo caos.
Ovunque urla e pianti con la polizia che cerca di fare ordine in questa notte moscovita, fredda e tragica. Con la luce dei riflettori che sbatte in faccia la realtà e con il sangue che colora la neve. Nelle sedi ufficiali del potere, intanto, comincia l’altalena delle ipotesi, degli ordini per le indagini, del coordinamento dei soccorsi. Medvedev (che ha deciso di rinviare la sua partenza per Davos, dove era atteso per tenere il discorso che mercoledì avrebbe aperto l’edizione 2011 del World Economic Forum) convoca una riunione d’emergenza e parla in diretta alla tv, rendendo noto che stando alle informazioni ricevute dagli organi della sicurezza quanto avvenuto all’aeroporto “é un atto terroristico”.
E di conseguenza viene dichiarato lo stato d’assedio in tutti gli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie dell’intero paese. Subito si da il via ad un “regime di sicurezza speciale” che investe anche la metropolitana di Mosca, che porta ancora i segni di quell’attentato del marzo scorso quando morirono 49 passeggeri coinvolti in una serie di tragiche esplosioni.
I servizi della sicurezza statale, l’FSb, intanto ipotizzano che la bomba di “Domodedovo” (due esplosioni) sia opera di un gruppo di kamikaze. Ci sarebbero tre ricercati. Lo rende noto Vladimir Markin, un alto graduato che si occupa delle indagini sul posto e al quale fanno riferimento gli agenti delle sicurezza. L’attenzione degli inquirenti si concentra sui tanti “caucasici” che vivono nella capitale e che sono scesi in campo contro i nazionalisti russi. Si aggiunge così - se questi fatti venissero confermati - una tragedia nella tragedia.
Prende il via una lotta bestiale per il controllo del territorio. E in questa situazione è difficile stabilire la verità. Perchè la Mosca di queste ore rischia di cadere nella “trappola” delle vicende nazionaliste, dei contrasti tra russi e non russi. Tutto avviene anche per il fatto che l’aeroporto di “Domodedovo” è proprio quello che segna il transito dalle repubbliche asiatiche e caucasiche.
Intanto si mobilita anche l’ambasciata italiana a Mosca. Si verifica, attraverso le strutture consolari e le agenzie di viaggi, se vi sono italiani tra le vittime. E questo pur se a “Domodiedovo” - di regola - non fanno scalo gli aerei che provengono dall’occidente e dall’Italia in particolare. Ora, mentre tutti gli ospedali della capitale sono presi d’assalto, Mosca vive il lutto e si appresta a registrare una notte di paura. Dal ministero degli Interni arriva la direttiva di controllare tutte le persone sospette, di tenere sotto controllo gruppi ed associazioni che operano nell’illegalità. Sono solo i primi ordini, le prime indicazioni. Dove porteranno e come evolveranno è presto per dirlo.