di Eugenio Roscini Vitali

Il 10 gennaio scorso, con un video diffuso su web dal quotidiano basco Gara ed un comunicato stampa in lingua inglese, l’organizzazione separatista basca, Euskadi Ta Askatasuna (ETA), ha annunciato che la tregua avviata il 5 settembre 2010 sarà trasformata in un cessate il fuoco permanente e generale. Una soluzione duratura che permetterà la fine del confronto armato e consentirà il raggiungimento degli obiettivi del movimento separatista basco, dai diritti della regione alla sua indipendenza: «È arrivato il tempo di comportarsi con responsabilità storica.

L’ETA chiede ai governi di Spagna e Francia di mettere fine a tutte le misure repressive e lasciare da parte una volta per tutte le loro posizioni di negazione della nazione basca. L’ETA continuerà la sua infaticabile battaglia per promuovere e portare a conclusione il processo democratico fino a che nella nazione basca non ci sarà una situazione realmente democratica». Il documento arriva all'indomani della manifestazione a favore dei diritti dei terroristi detenuti e a quattro mesi dal video messaggio consegnato alla BBC, nel quale si annunciava una tregua con l’obiettivo di mettere in moto un processo democratico per l'indipendenza dei paesi baschi e si chiedeva alla comunità internazionale di «prendere parte ai negoziati per trovare una soluzione giusta e democratica a questo secolare conflitto politico».

La prima reazione del governo è stata quella del ministro degli Interni, Alfredo Perez Rubalcaba, che giudica la dichiarazione non conforme con quanto richiesto dalle autorità e non sufficiente a garantire la fine della lotta armata nei Paesi Baschi: «L’unico comunicato che vogliamo leggere è quello in cui ETA dichiara la fine della lotta armata ed è evidente che ciò non è successo; se mi chiedete se ciò rappresenti la fine dell’organizzazione separatista direi proprio di no: è una buona notizia, ma non è la notizia. Chiaramente non è quanto la società spagnola sperava».

In una intervista all’emittente Antena 3 lo stesso primo ministro, Josè Luis Rodriguez Zapatero, ha dichiarato che i vertici dell’organizzazione separatista  devono prendere iniziative molto più convincenti e definitive: «Nessuno pensi che il governo abbasserà la guardia, non intendiamo consentire alcun inganno. Senza alcun dubbio, all’orizzonte c’è la fine della violenza, ma ci vorrà tempo e dobbiamo restare uniti. Sappiamo che sarà un processo duro e costoso».

Scettico pure il principale partito di opposizione, il Partido Popular (Pp) di Maria Dolores de Cospedal, che si è detto pronto ad accettare solo lo scioglimento definitivo del gruppo e per ora ha definito la tregua come una semplice pausa delle attività terroristiche. L’allusione avanzata nel comunicato a un possibile referendum sull’indipendenza, ipotesi peraltro già respinta in passato dal Parlamento spagnolo, è stata comunque accolta positivamente da gran parte della sinistra abertzale, i movimenti indipendentisti baschi di estrazione nazionalista che da diverso tempo premono su ETA perché annunci una tregua permanente e verificabile.

Il movimento indipendentista basco Herri Batasuna, considerato da molti il braccio politico dell’ETA e dichiarato illegale dal 2003, ritiene che l’annuncio del gruppo sia un fatto di “portata storica”, una decisione senza precedenti che «apre in forma chiara e inequivocabile l’opportunità di avanzare in forma irreversibile verso un orizzonte di pace e di soluzioni democratiche».

L’ETA, nata il 31 agosto 1959 per volontà di un gruppo di studenti di Bilbao fuoriusciti da Eusko Gatedi Indarra, l’organizzazione dei giovani del Partito nazionalista basco (Pnv-Eaj), è stata per anni una spina nel fianco del regime di Franco. Un’anomalia nel panorama politico europeo e un movimento di liberazione che ha tratto alimento dalla cultura basca e dalle sofferenze della guerra civile, un conflitto che Euskal-Herria (Paesi Baschi) ha pagato con 25.800 morti, 15.000 dei quali uccisi dai bombardamenti, 21.780 fucilazioni, 49.500 feriti, 86.550 prigionieri, 150.000 esiliati e quasi 600 mila perseguitati.

La volontà franchista di annientare l’identità basca, la militarizzazione totale delle province spagnole di Vizkaya, Alava, Guipuzcoa e Navarra, le schedature, le detenzioni preventive e i maltrattamenti, furono per anni la cornice alla mancanza dei diritti civili più elementari; ed è in questo clima che tra i giovani matura la convinzione che contro la violenza di regime l’unica soluzione possibile è la lotta armata.

Si faceva riferimento alle esperienze di Cuba e al Fronte di liberazione algerino, alle condizioni di vita della classe operaia e alla coincidenza tra lotta nazionale e lotta di classe, una riflessione che porterà l’ETA a definirsi socialista, termine che ritroveremo nello slogan “Gora Euskadi socialista” (viva Euskadi socialista) e in chiusura di tutti i documenti ufficiali che, al contrario di quanto si pensa, non termineranno mai con l’aggettivo comunista o marxista-leninista.

Il cammino dell’ETA non si concluse neanche dopo il 1973, quando per  problemi di salute il Generalissimo Franco nominò capo di Stato supplente Juan Carlos I di Spagna, e neanche dopo la morte del Caudillo de Espana (19 novembre 1975), quando il potere passa dalle mani della neonata monarchia costituzionale. In 52 anni di storia l’ETA è stata ritenuta responsabile della morte di 829 persone, un escalation di operazioni militari che hanno devastato la Spagna.

Dalla prima vittima, Meliton Manzanas, capo della polizia politica della provincia di Guipuzcoa ed ex-informatore della Gestapo, fulminato il 2 agosto 1968 da una pallottola sulla porta di casa, fino all’attentato del 30 luglio 2009 a Maiorca con due agenti della Guardia Civile uccisi, passando per la spettacolare azione dinamitarda nella quale viene assassinato l’ammiraglio Carrero Blanco, capo del governo e delfino designato del Caudillo.

Un percorso che l’organizzazione separatista ha comunque pagato duramente anche dopo la transizione spagnola alla democrazia, ma che non si è fermato neanche di fronte alle ondate di arresti e alla falcidia sofferta dall’intera struttura direttiva: tra il 1978 e il 1998 si contano 2.770 azioni, 6.585 arresti e 1.448 detenzioni.

L’annuncio del 10 gennaio non giunge del tutto inaspettato: le difficoltà di Eusko Alkartasuna (EA), il partito nazionalista basco nato il 4 settembre 1986 da una scissione interna al Pnv-Eaj, e la messa al bando di Batasuna, hanno spinto i leader politici della cosiddetta sinistra “abertzale” a promuovere «un negoziato per via politica e pacifica» e, nel marzo scorso, hanno invitato pubblicamente il gruppo armato ad abbandonare la strada della lotta armata.

Le valutazioni dell’opinione pubblica spagnola restano comunque caute e molti analisti sono convinti che si tratti solo di una prima offerta, una svolta sulla quale pesa soprattutto la raffica di arresti dello scorso anno, 68 tra dirigenti e militanti, tra i quali Ibon Gogeascoechea, nome di battaglia “Arronategui”, ricercato dal 1997, e Mikel Kabikoitz Carrera Sarobe, noto come “Ata”, presunto responsabile dell’ala militare dell’organizzazione. Se ciò fosse vero quello che alcuni hanno già definito “la fine della fine” è ancora ben lungi dall’arrivare.

 

di Giuliano Luongo

Un solo faccione dominava le colonne del Wall Street Journal di ieri, quello del Presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Jintao: il leader cinese ha rilasciato una lunga serie di dichiarazioni sul futuro delle relazioni bilaterali e della cooperazione tra il suo Paese e gli Stati Uniti, proprio con una manciata di ore di anticipo sul suo prossimo incontro con il Presidente americano Obama. Hu Jintao però, nonostante il generale tono di diplomazia, ha rivolto numerose critiche sia alla politica economica del rivale a stelle e strisce che al ruolo delle istituzioni finanziarie internazionali.

Ma conviene andare per ordine: le dichiarazioni di Hu Jintao - non possiamo parlare di discorso, in quanto abbiamo per le mani solo delle risposte in forma scritta a quesiti posti da alcune testate statunitensi - sono partite con un tono alquanto generico, facente riferimento a delle non meglio identificate “differenze e problematiche” che rallentano l’avvicinamento tra i due paesi, senza far riferimento a manovre non propriamente di “buon vicinato” da parte americana, come la fornitura di armi a Taiwan.

Sono seguiti alcuni commenti negativi alla strategia della Federal Reserve al fine di stimolare la crescita attraverso ingenti acquisti di bonds per mantenere bassi i tassi d’interesse a lungo termine, una strategia che la Cina ha già criticato in passato, additandola come prima causa di incremento dell’inflazione nelle economie emergenti, inclusa la stessa Cina.

Il Presidente cinese ha detto che la politica monetaria americana “ha un forte impatto sulla liquidità e sui flussi di capitale globali, e perciò la liquidità del dollaro deve essere mantenuta ad un livello stabile e ragionevole” e ha inoltre smorzato le accuse americane alla propria politica economica, nonostante il fatto che il problema del valore dello yuan sarà di sicuro al centro delle discussioni con l’omologo d’oltreoceano.

L’influente politico asiatico ha quindi ribadito la convinzione della Cina riguardo al fatto che la crisi abbia rispecchiato “l’assenza di regolamentazione nell’innovazione finanziaria” ed il totale fallimento delle istituzioni finanziarie internazionali “nel riflettere il nuovo ruolo dei paesi in via di sviluppo nell’economia e nella finanza mondiale”. Ha poi invocato, con modalità un filino trite ma pur sempre d’effetto, un sistema finanziario che sia più “giusto, corretto e ben gestito”.

Fino a questo punto, sembrerebbe dunque di essere di fronte alle ennesime dichiarazioni-fuffa vuote di contenuti degne del peggior politico, ma invece Hu Jintao ha saputo dare una stoccata molto forte con le sue parole, una volta davanti al tema del dollaro come valuta di riserva internazionale: “Il sistema valutario internazionale è un prodotto del passato”. Poche parole, pesanti come piombo: le generiche accuse al sistema finanziario mondiale ed al “piove, governo ladro” si concretizzano in un attacco diretto ad una direttrice dalla quale l’economia mondiale non ha mai saputo allontanarsi, ossia quella dello strapotere della valuta americana e della sua irrinunciabilità come intermediario degli scambi internazionali e come misura di valore.

Ma le affermazioni “ad effetto” non si sono fermate qui. Hu Jintao ha richiamato l’attenzione sul fatto che la Cina voglia affermare la propria valuta come punto di riferimento per l’economia internazionale; affermazione, questa, non da poco ma nemmeno eccessivamente nuova, visto che tanto gli addetti ai lavori quanto gli amateurs più interessati ben sanno che già da qualche anno la Cina è intenta a studiare le eventuali applicazioni dell’uso internazionale dello yuan nell’area del sud-est asiatico.

In ogni caso, nonostante Hu stesso ammetta che la “internazionalizzazione” della moneta cinese sarà un processo lungo, il guanto della sfida sembra lanciato: non più - o almeno non solo - una minaccia al dollaro che si concretizza nello spostare le preferenze su di un’altra valuta (l’euro, oramai da identificare come il fesso di turno dell’economia), ma anche nell’atto di offrire, seppure in futuro, una nuova valuta di riserva.

Non resta dunque che vedere in che modo la questione economico-monetaria verrà affrontata e trattata una volta giunti al tavolo delle trattative, o se da Washington diverse strategie spingeranno verso un ordine del giorno con differenti priorità. Va ricordato che le note testate di cui sopra riportano anche le prospettive della Casa Bianca riguardo il prossimo importante incontro al vertice col rivale asiatico. Hilary Clinton esordisce con più entusiasmo rispetto al leader cinese, parlando di “accordi promettenti”, “futuro roseo” et similia.

Andando più nel concreto, l’amministrazione Obama punta a lanciare sul piatto altri argomenti scottanti come il caso Corea del Nord, il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo ed i problemi legati al regime di tutela del diritto d’autore sul territorio cinese. Accanto a questo, Washington vuole anche dimostrare le proprie capacità nel produrre occupazione nonostante la disoccupazione oltre il 9% e, soprattutto, vuole riaprire anche il dialogo al livello di coordinamento militare: non dimentichiamo infatti il “no” secco di Pechino all’avvio di eventuali esercitazioni coordinate tra le forze armate dei due paesi.

Sulla base di questi elementi, non resta che fare alcune riflessioni sulla possibile agenda di questo tanto atteso meeting che riporta Hu Jintao sul suolo statunitense 5 anni dopo la sua ultima visita del 2006. Ebbene, bisogna essere consci del fatto che la Cina arrivi ormai al tavolo delle trattative come grande potenza non solo economica, non più come un semplice PVS territorialmente obeso.

Gli USA, invece, partono clamorosamente svantaggiati dal punto di vista dell’economia, trovandosi a dover “limitare i danni” nel dialogo con un paese che, in quanto a dinamismo, impartisce severe lezioni. Si misurerà la spinta statunitense a svalutare il dollaro con la volontà di freno dei cinesi ad attuare questa strategia: se gli USA svalutano troppo, a Pechino ci si ritroverà con miliardi di dollari di nessun valore…ma comunque dalla Cina si potrà sempre prendere la decisione di “staccare la spina” al debito americano.

Il campo è alquanto minato, Washington rischia più di Pechino vista la situazione di crisi nera: se vuole raggiungere qualche vago successo o almeno cercare di rafforzare la propria posizione, lo Zio Sam deve far leva sui cosiddetti problemi “etici” e di geostrategia, si veda appunto il tema dei diritti ed il delirio nordcoreano. Il “piccolo” problema è che, specie dopo il benedetto scandalo Wikileaks, gli USA si pongono ormai anche davanti all’opinione pubblica meno smaliziata, solo come una diversa potenza con un grado di oppressività appena minore ma meglio dissimulato rispetto all’avversario.

Non siamo dunque di fronte ad un momento storico per la sola Cina, che si presenta alle porte dell’America come (potenziale) “vincitrice”, ma siamo davanti ad un’occasione fondamentale per gli Stati Uniti, l’occasione per dimostrare di poter essere ancora la superpotenza di riferimento o, almeno, un grande partner con cui il confronto e la ricerca di un accordo sono obbligatori.

 

 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Arriva a Mosca e provoca sorrisi amari la notizia che tra l’italiana Gorizia e la slovena Nova Gorica è stata riaperta l’ex stazione doganale di via San Gabriele. Quella che, negli anni della guerra fredda, segnava il confine tra Italia e Jugoslavia. Ora per ricordare le tracce di quella “cortina di ferro” ci sono due film che sono proiettati sulla facciata del palazzone abbandonato. Sono intitolati: Ordinacija spomina (Corsia dei ricordi) e Pogledi skozi železno zaveso (Sguardi attraverso la cortina di ferro), realizzati dalla regista Anja Medved proprio nell’ex stazione doganale.

L’iniziativa è abbastanza originale. Parte dal dicembre 2007, quando la Slovenia entrò nell’area del trattato di Schengen. Nell’occasione una ex postazione della dogana fu trasformata in un “video confessionale” nel quale gli abitanti di Gorizia e Nova Gorica erano invitati a raccontare tutto ciò che per anni avevano nascosto ai doganieri. Ed ora ecco che la regista Medved mescola ai reperti filmici d’epoca, tratti da archivi privati, un filmato ripreso all’interno del confessionale. Immagini da una vita di confine, un album di memorie di questa doppia città conservate per le generazioni future.

C’è poi un altro aspetto di questo video-verità che presenta una raccolta di fotografie di famiglia dal titolo Ordinacija spomina, tutte raccolte tra gli abitanti di ambedue le città invitati a frugare tra le proprie vecchie foto e sceglierne alcune in cui è rappresentato il territorio confinario, per poi condividere i propri ricordi nell’ex stazione doganale.

Ma tornando a Mosca con i sorrisi amari provocati dalla rievocazione italo-slovena, la memoria collettiva dei russi (un tempo sovietici) impone ricordi amari ed umilianti. Lunghe, lunghissime sarebbero le storie e le documentazioni relative ai vecchi confini con l’Est. Quelli, appunto, che Churchill così caratterizzò nel marzo 1946 a Fulton, nel Missouri: “Una cortina di ferro è scesa attraverso il continente…  da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico … dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi stati dell’Europa centrale e orientale”.

Il resto è già storia. Con pagine di drammi e vicende uniche. Tutto consegnato agli archivi e alle esperienze personali. Ed è in questo contesto che, forse, vale la pena di ricordare alcune “scene” di vita vissuta che provocano, ancora oggi, sorrisi amari. Ma pur sempre sorrisi.

Già, la cortina di ferro… E per chi - come il sottoscritto - si trovava a transitarla molto e molto spesso senza aver paura, vista la sua condizione di cittadino italiano, tutto resta nel bagaglio dei ricordi di scene segnate da uno humour nero… Ed ecco che si va (siamo negli anni ’60) in auto verso l’Ungheria provenendo dall’Austria. I villaggi austriaci a poco a poco scompaiono. Restano alcuni alberi. Poi una solitaria stazione di servizio dove svetta un cartello, in tedesco, inglese e italiano: “Automobilisti, fate il pieno. Questa è l’ultima stazione. Poi la benzina la troverete solo a Budapest. Buon viaggio!”.

E subito a vista d’occhio appaiono le torrette della polizia di frontiera dell’Ungheria. Qui una bella sosta di circa due-tre ore. Esame dei passaporti e del visto, ispezione microscopica dell’auto e dei bagagli. Formulari, chi, come, dove e perché. Poi si entra e per qualche chilometro - già in terra ungherese - si scopre (visti i drappelli di polizia) che siamo sempre in fascia di confine. Perchè é proprio qui la cortina con l’Ovest…

Più complesso, drammatico, ma pur sempre oggetto di humour nero, l’impatto con la frontiera sovietica. Qui la “casa-madre” non fa sconti. I soldati, con tanto di kalashnikov, si mettono bene in mostra. L’auto è isolata in un parcheggio. Stesse pratiche burocratiche. Poi si va in un capannone e cominciano le danze. L’auto è ispezionata e la povera Fiat125special (da poco uscita dalle catene di Mirafiori) subisce l’oltraggio. I poliziotti, con una specie di forcone, forano le copertine e cercano tra le molle dei sedili… stessa sorte per le portiere e per i sedili e le foderine. Saltano così borchie e maniglie e va a farsi benedire anche quel bel tappeto interno preformato.

Brutta sorte anche per libri, giornali e riviste. Bisogna farne un elenco e attendere cosa potrà passare. Per poi ricevere un foglio da sottoscrivere assicurando che quando si uscirà dal paese il materiale stampato dovrà essere riportato via. E così si può andare. Sono passate sei-sette ore. Questo per un italiano normale. Per il russo-sovietico (in uscita) tutto era più complesso, difficile, umiliante. Mala sorte, invece, per chi tentava la via clandestina, quella della fuga…

Ed ecco che oggi sapere che a Gorizia e a Nova Gorica c’è chi, allegramente, va a confessare le vicende di un tempo, provoca solo un sorriso. A Mosca c’è chi pensa a cosa potrebbero raccontare i russi-sovietici a proposito delle cortine di un tempo. E cosa potrebbero aggiungere i berlinesi che cercavano di farla franca quando sfidavano i Vopò, quelli della “Volkspolizei”, ossia la “Polizia popolare”…

 

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. I neonazi si sono impossessati di Jamel, un minuscolo villaggio dell’ex-Germania dell’Est e, a quanto pare, le autorità autoctone hanno rinunciato a combatterli. Nonostante il fenomeno sia ancora di proporzioni estremamente limitate, la questione ha già risvegliato i campanelli d’allarme dei sociologi più vigili. Perché qualcuno vede nella grottesca situazione di Jamel il simbolo della crescente influenza dell’estrema destra nell’ex-Repubblica Democratica Tedesca (RDT): un’influenza che va a rispecchiare un disagio, quello dei cittadini, non ancora risolto dopo oltre vent’anni dalla caduta delle dittature comuniste.

Jamel si trova sulle coste del mar Baltico, nella zona rurale del Meclemburgo Pomerania (Nord-Est della Germania). Il Partito Nazionaldemocratico Tedesco (NPD) è nel parlamento regionale dal 2006 con una percentuale del 7.8% e, a quanto risulta da testimonianze rilasciate a giornali autorevoli quali Der Spiegel, da allora le azioni vandaliche di estrema destra sono all’ordine del giorno. Negli ultimi tempi si è addirittura registrata una serie di attacchi diretti ai politici di tutti i partiti democratici che non siano NPD.

Qualche anno fa, Jamel era un piccolo comune come gli altri. Unica curiosità, ci  viveva Sven Krueger, un militante neonazi già conosciuto nell’ambiente di estrema destra, e non solo. Nel 2009 Krueger ha tentato di candidarsi al parlamento locale del Meclemburgo Pomerania nord-occidentale tra le fila di NPD e ora fa ufficialmente parte del Consiglio locale: lo sdegno della Repubblica federale non si è fatto attendere. Negli anni ‘90 Krueger é stato più volte condannato per disturbo dell’ordine pubblico, assalto a un’osteria e per la provocazione di una rivolta in prigione: un passato troppo controverso per reinvenstarsi candidato politico. Inoltre, nel 2003, Krueger ha addirittura tentato di formare politicamente un proprio gruppo armato: le accuse non sono andate a buon fine per insufficienza di prove, ma la situazione di Jamel sembra dare loro credito.

Perché a Jamel i ragazzi, per strada, si rivolgono ai visitatori con il saluto nazista. Il gruppo di neonazi cui fa capo Krueger sta cercando di creare nella frazione una National befreite Zone, un’area nazionale “liberata”. In gergo, la locuzione sottintende una zona libera dagli stranieri. Secondo quanto riporta il settimanale Der Spiegel, gli estremisti avrebbero comprato sette case su dieci e cacciato via tutti i “dissidenti” con attacchi vandalici e psicologici. La celebrazione pubblica del compleanno di Adolf Hitler e una svastica sul cartello d’ingresso al paese sono solo alcune delle tradizioni del villaggio. 

Krueger, fra l’altro, è proprietario di un’impresa di demolizione il cui simbolo è una stella di David fatta a pezzi. Secondo alcuni testimoni, tra cui il sindaco Uwe Wandel, l’azienda smaltisce rifiuti e brucia immondizia in maniera illegale, senza che nessuno sia in grado di prendere provvedimenti. Oltre a preda ideologica dell’estremismo di destra, quindi, il villaggio di Jamel è diventato una specie di zona franca dove la legge non è uguale per tutti.

Per qualcuno, Jamel è diventata il simbolo della crescente influenza dell'estrema destra nelle regioni dell'ex-Germania comunista, l’ex-Repubblica Democratica Tedesca (RDT). Il fenomeno, per ora, è limitato a una piccola frazione ai margini settentrionali dello Stato tedesco, una zona rurale facile da ignorare. E tuttavia, l’incertezza cresce: l’ex-RDT è una zona risaputamente sensibile alle ideologie neonazi e i più prudenti temono che la loro influenza possa diffondersi ulteriormente.

Tra il 2000 e il 2005, l'ex-Germania dell’Est registrava già il 44 % dei delitti politici di matrice neonazista, con appena il 19% della popolazione dell'intero Paese. Qualche anno dopo la caduta del Muro, gli estremisti di destra indicavano in rete ben venticinque città dell'Est come "libere da stranieri", centri quindi da porre sotto il controllo dei sostenitori della supremazia razziale. Fatto sta che nell’ex-RDT le dottrine neonaziste hanno trovato suolo fertile per radicarsi più profondamente che in altre zone.

Qualcuno riconduce il fenomeno alle condizioni di vita meno agiate offerte ancor’oggi dai Paesi un tempo d’oltre Cortina. I più maligni accusano la società moderna di non aver saputo accompagnare e sostenere i cittadini nel passaggio dagli Stati socialisti all’attuale capitalismo. Altri fanno riferimento al vuoto lasciato da un’ideologia forte come il comunismo, un vuoto che la società di mercato contemporanea non ha saputo - o potuto - colmare.

Bisogna ammettere che la realtà è finta senza idee per interpretarla e progetti per cambiarla e, d’altra parte, che gli uomini sono nulla senza l'anima. Perché il sogno del libero mercato s'é infranto contro l'esclusione dal mercato e l’unificazione ha riguardato le banche e le imprese, non le persone. Che ad ovest continuano a vivere più e meglio che ad est. O forse aveva ragione un tedesco eccellente come Bertolt Brecht, che commentando la caduta del nazismo ammoniva: “La bestia é morta, ma il ventre che l’ha partorita é ancora gravido”.

 

di mazzetta

Fugge il dittatore dalla Tunisia e il potere resta nelle mani del suo primo ministro, di un ristretto comitato di sei persone e dell'esercito, che ha chiuso lo spazio aereo del paese e occupato l'aeroporto di Tunisi. Poche ore e il potere passa al presidente della Camera Bassa, su indicazione della Corte Suprema, che decide per le elezioni generali entro sessanta giorni. Riaprono i porti e gli aeroporti, ma non finiscono le violenze; adesso sono le prigioni il nuovo catalizzatore della rivolta e anche ieri sono morti decine di tunisini. Bande di partigiani di Ben Alì si sono prodotti in aggressioni e atti di violenza, ma il fenomeno non sembra diffusissimo. Ai tunisini in rivolta non ha ancora arriso la vittoria, il potere passa in mano a chi lo detiene da sempre, vola via il dittatore a fungere da capro espiatorio lontano e restano al potere quelli che avevano fatto carriera e si erano arricchiti alla sua ombra.

Fa belle promesse il nuovo governo provvisorio, parla di multipartitismo e di elezioni libere, di libertà di stampa e d'espressione; ma è lo stesso governo che ha sparato sui manifestanti, è la stessa elefantiaca burocrazia messa in piedi dalla dittatura per spiare e reprimere i tunisini fin dall'indipendenza dalla Francia. A un padre della patria era seguito nel 1987 il repressore in capo, che, anche allora, aveva promesso riforme che nessuno ha più visto.

Ben Alì giunse al potere grazie all'aiuto dei servizi italiani, allora alle dipendenze di Craxi, un piccolo dispetto alla Francia che varrà ai socialisti italiani l'imperitura gratitudine del dittatore ora fuggiasco. Gratitudine ricambiata, se è vero che il Ministro degli Esteri italiano Frattini (un tempo craxiano) ha schierato il nostro paese accanto alla dittatura nonostante le dure condanne espresse da Unione Europea e Stati Uniti. Unica al mondo l'Italia. La Francia che in Tunisia regge il gioco da sempre, si è trincerata nel mutismo e nelle non-dichiarazioni. Della fuga di Ben Alì Parigi ha solo “preso atto”, l'Italia invece ha colto l'occasione per spendere parole di stima per la dittatura.

Non poteva mancare il Sottosegratario agli Esteri Stefania Craxi, che ha usato per il dittatore le parole che i mussoliniani usano ancora oggi per Mussolini: “Io credo che la storia ridarà al presidente Ben Ali i meriti del presidente Ben Ali, che comunque ha consentito in questi anni al Paese di avere uno sviluppo economico, un progresso civile e sociale”. E non poteva mancare suo fratello Bobo, che in qualità di rappresentante per la politica estera del PSI ha affermato che la Tunisia è “un Paese che è stato un modello esemplare nell'ambito del mondo arabo”. Impossibile aspettarsi qualcosa di diverso dai figli e dai miracolati di Craxi, che da Ben Alì fu ospitato e protetto dalla giustizia italiana durante la sua latitanza.

Peccato che questa sia anche la posizione ufficiale dell'Italia, agli occhi dei tunisini come a quelli dei confederati europei. Quasi tutti i media italiani hanno aspettato la fuga di Ben Alì per definirlo dittatore; un cambio tempestivo dopo che per oltre vent'anni era stato definito Presidente e descritto come un abile politico che faceva del bene al suo paese nonostante i modi un po' bruschi. Ma non è che le opposizioni brillino per attenzione: il popolo tunisino non è esattamente in cima ai pensieri dei politici e dei grandi media italiani, nessuno dei quali (ancora) ha accennato a schierarsi dalla parte dei rivoltosi e neppure osato definire dittatore Ben Alì.

Eppure era facile. Non bastavano le amicizie di Berlusconi con i peggiori dittatori, ci voleva anche la difesa oltre il tempo massimo della disgrazia del giorno, decisamente maldestra e per nulla utile al paese. Forse nemmeno utile a conservare l'unica concessione televisiva mai concessa dalla Tunisia a stranieri, Berlusconi potrebbe vedere la sua Nesma TV andare a fondo insieme al capitano della barca, se solo i tunisini avranno il tempo di fare il conto degli amici e dei nemici della loro rivoluzione popolare.

Rivoluzione che dopo la cacciata del tiranno diventa quanto mai incerta e aperta agli esiti più imprevedibili. Potrebbe essere una rivoluzione relativamente dolce, non fosse che per ridare il potere al popolo tunisino ci sarebbe da spogliare dei beni accaparrati i personaggi più influenti del paese e bonificare con severità la terribile burocrazia pubblica e gli apparati repressivi. Operazioni che troveranno sicuramente la contrarietà di chi ancora oggi il potere lo detiene e che potrebbe essere tentato dall'usarlo per difendere capitali e privilegi o guidare le annunciate elezioni verso la conservazione, in fondo alle ultime elezioni Ben Alì aveva fatto il pieno, non è certo gente che s'imbarazza a truccare il voto.

Ora come non mai il popolo tunisino avrebbe bisogno di sentire la vicinanza e la solidarietà della sponda settentrionale del mediterraneo, il calore e la vicinanza dei francesi e degli italiani, ma non accade. L'Occidente politico non riesce a fraternizzare con i popoli dell'Africa del Nord perché da troppo tempo è schierato accanto alle autocrazie che lo opprimono. Dalla triste - e molto poco democratica - monarchia marocchina, passando per il regime algerino e le ormai antiche dittature di Tunisia, Libia ed Egitto, leader impresentabili sono retribuiti, armati e sostenuti nel loro dominio sui rispettivi popoli, ai quali vengono negati i più elementari diritti civili, persone per le quali i diritti umani sono un concetto astratto che vale per altri, altrove.

Una volta si spacciava questo sostegno come il male minore, meglio una dittatura di un paese nell'orbita sovietica ai confini. Poi le dittature divennero un male sopportabile per non vedere l'estremismo islamico dilagare ai confini, quell'estremismo islamico nutrito ovunque, non solo in Afghanistan, in funzione anticomunista proprio dall'Occidente e dagli alleati più allineati, su tutti i paesi europei, Israele ed Arabia Saudita. Il grande successo di Khomeini in Iran scatenò ovunque tentativi di emulazione. L'estremismo islamico era riuscito a dirottare la rivoluzione iraniana contro lo Shah di Persia, feroce despota filo-occidentale; il terrore rivoluzionario si era concretizzato nel massacro dei comunisti e nella presa del potere da parte di una rassicurante élite reazionaria, chiudendo ai sovietici la porta per il Golfo Persico.

Inutile dire che la minaccia islamica è stata notevolmemente sopravvalutata e che, dal 2001, i regimi del Nord Africa si sono fatti più duri: da allora non ci sono più stati oppositori o avversari politici, chi era contro il governo era un “terrorista” o complice dei terroristi, ogni genere di legge speciale è stata giustificata per “combattere il terrorismo. Il Patriot Act ha fatto scuola, gli Stati Uniti hanno dato l'esempio, la democrazia si può sospendere, cancellare, basta dire che serve a combattere il malvagio nemico. Peggio che ai tempi della Guerra Fredda.

Dal 2001 in poi è stata una strage delle libertà fondamentali in questi paesi e solo oggi, complice anche la crisi che li ha colpiti in maniera devastante, sembra sollevarsi il coperchio che ha trattenuto per decenni la vitalità della sponda Sud del Mediterraneo. Popoli dalla storia millenaria hanno forse l'occasione di cambiare il loro triste destino, ma questo significa instabilità agli occhi dei governi che contano, significa imprevedibilità e significa la rottura di vecchi rapporti e antiche clientele che hanno assicurato grandi vantaggi, ai quali non è facile rinunciare a cuor leggero.

Interessi che saranno difesi, il cammino dei tunisini per uscire dal loro incubo è ancora lungo e non è detto che il loro esempio avrà successo o sarà seguito a breve negli altri paesi vicini. Molte variabili sono in gioco e lo scoppio della crisi nel Maghreb sembra aver preso in contropiede la folla di analisti che disegnano le strategie occidentali. Sicuramente peggio di loro staranno i governi sui quali aleggia la minaccia della rivolta, incerti sul da farsi e impegnati a cercare di spegnere l'incendio prima che divampi anche nel loro paese.

Ai sinceri democratici non resta che fare il tifo per il popolo tunisino e godersi il triste spettacolo offerto dai nostri politici. A quello siamo ormai più o meno assuefatti, c'è da sperare che almeno la gioventù nordafricana riesca a incrinare questa fetida caricatura di realpolitik e contribuire ad alzare il livello di civiltà. Se ci riescono loro, farà bene anche a noi.


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