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di mazzetta
La settimana prossima ci sarà probabilmente un nuovo paese al mondo: il Sud Sudan, almeno in attesa di un battesimo diverso. Si tiene infatti nel fine settimana un referendum, con il quale la popolazione della parte meridionale del Sudan dovrebbe scegliere la secessione dal Sudan. La storia di questo referendum è lunga più della ventennale guerra che ha contrapposto gli indipendentisti al governo di Karthoum e ha le sue radici nella colonizzazione britannica del paese, che ha racchiuso in un territorio grande otto volte la Germania riunificata un coacervo di etnie diversissime e consegnato all'indipendenza un paese enorme e molto difficile da gestire.
Ancora di più se quasi subito le ingerenze britanniche ed occidentali hanno brigato per questa secessione, alimentando la guerra destinata a separare la parte del paese con l'80% delle risorse petrolifere dal resto. Il conflitto s è concluso nel 2004, quando il regime sudanese di Bashir ha completato una svolta a 180°, sotto l'influsso delle minacce americane post undici settembre ai paesi troppo vicini all'estremismo islamico.
Nelle more del processo di pace scoppiò in quell'anno la crisi del Darfur, che venne a lungo ignorata dall'Occidente, troppo preso dal sostegno alla secessione sudista per preoccuparsi degli attacchi dei ribelli darfurini sostenuti dal Ciad (e altri attori regionali in maniera più defilata) e della brutale risposta governativa, probabilmente praticata dopo un riservato via libera occidentale.
Il distacco di Bashir dagli islamisti, già maturato ai tempi della cacciata di Bin Laden anteriore al 9/11, si fece allora drastico con l'arresto dell'ideologo islamico al-Turabi, poi passato alla guida di una delle formazioni ribelli del Darfur d'ispirazione islamica. Già questo dettaglio denuncia la falsità della ricostruzione ad uso delle opinioni pubbliche occidentali, alle quali la tragedia del Darfur è stata presentata come un massacro ordito da un regime “islamico” e arabo contro popolazioni di etnia e cultura diversa.
Nemmeno l'evidenza rappresentata da al-Turabi in guerra contro il governo ha avuto ragione di questo falso della propaganda ed è inutile dire che gli abitanti del Darfur non sono stati protetti da nessuno. Anche se persino l'Italia ha inviato una missione militare in Sudan, ma si trattava di un contingente ospitato a Khartoum a garanzia degli accordi di pace con il Sud: se non ne avete mai sentito parlare chiedetevi perché.
La secessione sudista sembra destinata ad andare a buon fine, Bashir ha ribadito anche nei giorni scorsi che rispetterà l'esito del referendum e nulla sembra davvero minacciarne l'esito. I problemi sono semmai attesi in seguito perché i leader del Sud, affermatisi sul campo di battaglia e selezionati tra quelli più duttili alle esigenze occidentali, non hanno sfruttato gli anni trascorsi dagli accordi e i proventi del petrolio per costruire istituzioni o infrastrutture, ma piuttosto per acquistare armi e vecchi carri di produzione sovietica.
Un traffico illegale, perché tutto il Sudan è sottoposto ad embargo, scoperto quando i pirati somali che hanno sequestrato la nave Faina, all'interno della quale c'erano decine di tank di produzione sovietica e documenti di viaggio che indicavano la destinazione finale nel Sud Sudan attraverso il compiacente Kenya. Che poi cercò di attribuirsi l'acquisto senza grande successo. Nessuna condanna venne allora né poi dal Dipartimento di Stato americano o dal Foreign Office britannico, evidentemente consenzienti a quella che comunque ha rappresentato un'infrazione della legalità internazionale e degli accordi di pace.
Il leader del Sud, Salva Kiir, non sembra avere sottomano un esecutivo all'altezza della sfida e il governo provvisorio, composto da per lo più da ex-guerriglieri, in questi anni ha dato una prova pietosa delle proprie capacità. Salva Kir è sicuramente più presentabile di John Garang, leader del Sud in tempo di guerra, iscritto nella lista dei terroristi dall'ONU e opportunamente precipitato con l'aereo che lo trasportava insieme alla sua conoscenza della storia dei rapporti del Sud con l'Occidente; ma agli osservatori indipendenti non sembra all'altezza della sfida, resa ancora più ostica dal fatto che anche il Sud a sua volta ospita una popolazione per niente omogenea e spesso impegnata in conflitti intestini.
Diverse variabili influiranno sul futuro del nuovo Stato e molti problemi dovranno essere risolti privilegiando la costruzione del paese al suo ruolo nello scacchiere regionale. Il pericolo che incombe maggiormente è infatti quello di un'iniziativa del Sud che colleghi il paese, che non ha sbocchi al mare, all'oleodotto che dal Ciad raggiunge il Golfo di Guinea, tradendo così gli accordi con il Nord per la sua distribuzione attraverso gli oleodotti che lo portano fino ai terminal sul Mar Rosso.
Se il Sud riuscirà ad emanciparsi dal Nord in maniera non ostile e a costituirsi come uno Stato con istituzioni solide e leggi moderne, è il vero interrogativo che aleggia su tutta la vicenda. Ed è triste osservare come, ancora una volta, le analisi che circolano nel nostro paese riducano tutto, ancora una volta, alla “minaccia islamica” del Nord. Il Sud Sudan nasce e dovrà camminare con le sue gambe, che per ora appaiono malferme e per niente all'altezza delle sfide all'orizzonte.
Se l'Occidente avesse veramente a cuore la democrazia e lo sviluppo in quelle lande, probabilmente i comportamenti fin qui osservati sarebbero stati diversi, così come sarebbe stata diversa e più genuina la presentazione del suo caso alle opinioni pubbliche occidentali. Il mancato verificarsi delle due condizioni spinge al pessimismo sul futuro del paese, che rischia di scivolare in un'anarchia di stampo somalo ancora prima di nascere. La sua storia comincia oggi e solo il tempo potrà dire se i suoi abitanti riusciranno a emanciparsi da certe ingombranti tutele e trovare un sentiero sicuro in un futuro che si presenta denso d'incognite e di minacce.
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di Alessandro Iacuelli
Non è iniziata nel migliore dei modi la presidenza di turno dell'Unione Europea da parte dell'Ungheria, inaugurata il primo gennaio. Subito all'indirizzo del Paese è arrivato un duro monito della Commissione Europea sulla legge che istituisce la nuova Autorità nazionale per i media e le comunicazioni. La Commissaria europea alle Telecomunicazioni, Neelie Kroes, ha chiesto al governo ungherese chiarimenti immediati sulla legge, ribattezzata in tutta Europa "legge bavaglio". A preoccupare é soprattutto "la capacità della nuova autorità di agire in maniera indipendente, principalmente a causa della sua composizione".
La risposta è stata altrettanto dura: Budapest rispedisce al mittente le critiche internazionali alla legge, definendole "assurde e frutto di disinformazione". Viktor Orban, il primo ministro magiaro, non si è spaventato e ha invitato i suoi connazionali ad andare avanti, senza curarsi troppo delle reprimende provenienti dall'Europa occidentale.
Ma i timori in Ungheria non sono affatto sopiti e guadagnano spazio sulle prime pagine di due quotidiani, che hanno parlato di "fine della libertà di stampa" e accusato la legge di "servire esclusivamente i fini autoritari del premier Orban". "Fine della libertà di stampa" è il titolo di prima pagina del Nepszabadsag (indipendente) e del Nepszava (di tendenza socialista), per protestare contro la legge bavaglio, in vigore dal primo gennaio. Oltre che in ungherese, la frase viene ripetuta in tutte le lingue dell’Unione europea, compreso l’italiano.
Il Nepszabadsag, in un articolo di fondo, sottolinea che la controversa legge sui media serve solo alle intenzioni autoritarie del governo del premier Viktor Orban e al suo partito conservatore Fidesz, consentendo loro di controllare, sanzionare e in fin dei conti anche far fallire tutti i media di orientamento contrario. "Dobbiamo difendere i nostri diritti fondamentali, speriamo che l'Europa si renda conto del carattere antidemocratico di questa misura, e farà i passi necessari", scrive dal canto suo il Nepszava.
Il portavoce della Commissione europea, Olivier Bailly, ha spiegato che l'esecutivo europeo ha acceso un riflettore su due contestatissime leggi magiare: la nuova normativa sulla stampa e la legge che impone una tassa speciale anti-crisi sulle banche, sulle compagnie energetiche, su quelle di telecomunicazioni e sulla grande distribuzione. Bruxelles dovrà valutare se i due provvedimenti non violino principi sanciti dalla normativa europea. Già l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), diversi governi europei, le organizzazioni internazionali non governative dei giornalisti, avevano puntato il dito nei confronti di una normativa accusata di limitare fortemente la libertà d'espressione.
I chiarimenti richiesti dall'Unione Europea sono stati sollecitati con una lettera inviata il 24 dicembre, in vista della riunione della Commissione programmata proprio a Budapest, come da prassi quando un Paese assume la presidenza di turno dell'Unione Europea. Intanto, la nuova legge ha già fatto la prima vittima: una radio commerciale è stata ammonita per aver mandato in onda una canzone del noto rocker Ice-T, che secondo l'Autorità rischia di corrompere la moralità dei giovani magiari.
Sul fronte della tassa internazionale, arrivano nuove grane a Budapest. Tredici grandi società europee hanno fatto ricorso alla Commissione Europea contro la legge adottata in ottobre che introduce un'imposta speciale retroattiva sulla grande distribuzione, le telecomunicazioni e le attività legate alla distribuzione dell'energia. L'obiettivo di Orban è di garantire un'entrata straordinaria per colmare il buco di 500 milioni di fiorini, circa 1800 miliardi di euro) nel bilancio pubblico.
Le società europee, in particolare tedesche, austriache, olandesi, francesi e della Repubblica Ceca, tra cui Ageon, Allianz, Axa, Ing, Rwe, EnBw, E.On, Deutsche Telekom, Omv, Cez, accusano il governo ungherese di agire in contrasto con le norme europee sulla concorrenza e non discriminazione tra imprese nazionali e imprese europee. Invece Orban cerca visibilmente di caricare il peso del consolidamento di bilancio sulle società estere. La lettera inviata dai 15 responsabili d'impresa alla Commissione europea dice esplicitamente che la legge magiara "fa torto agli investimenti e alla credibilità dell'impegno ungherese a favore del mercato europeo". Il portavoce dell'esecutivo europeo, a tale proposito, ha dichiarato che la Commissione sta aspettando la risposta puntuale del governo di Budapest e che valuterà il caso sotto il profilo della "non discriminazione" della tassazione in relazione ai diversi settori.
Le tasse speciali anti-crisi non sono una novità per l'Ungheria: già erano state introdotte dal precedente governo socialista nei settori bancario ed energia anche se meno pesanti. Il caso ha creato un gran subbuglio nel mondo imprenditoriale europeo, perché denuncia un problema reale: in tutti i Paesi dell'Europa dell'Est il peso degli interessi d’imprese occidentali è notevole, in alcuni settori come quello bancario talvolta preponderante. A questo si aggiunge la campagna della coalizione di centro-destra contro gli investitori non ungheresi, accusati di aver corrotto il governo socialista precedente per ottenere trattamenti fiscali favorevoli.
Tirando le somme, all'avvio del nuovo semestre a Bruxelles, dopo la legge bavaglio sui mezzi di comunicazione, Budapest è additata come la pecora nera dell'Europa liberale. La Commissione europea non esiterà ad aprire una procedura d’infrazione nei confronti dell’Ungheria se la sua nuova legge sui media dovesse rivelarsi in conflitto con le normative europee in materia. L’ha assicurato il portavoce della commissione Olivier Bailly: “Se c’è un’infrazione del diritto comunitario, la commissione aprirà una procedura e il fatto che l’Ungheria presieda l’Ue non avrà alcuna incidenza”.
Ci si chiede già se la presidenza ungherese sia in grado di portare a termine il suo mandato senza clamorosi incidenti in un momento particolarmente difficile, basti pensare alla gestione della crisi dell'Eurozona. Con il fiorino ungherese in caduta libera le difficoltà finanziarie del paese si aggravano, lo spettro di un nuovo declassamento da parte delle agenzie di rating si avvicina e i dubbi sulle prospettive economiche all'origine della decisione del Fondo monetario internazionale di sospendere il prestito di 25 miliardi di dollari non sono stati fugati. Senza parlare dei conflitti con la banca centrale sull'indipendenza e sulla politiche di bilancio.
Il 2011 è da molti considerato come l’anno della verità per l’euro e, più in generale, per il destino dell’Unione Europea. Da presidente dell’Unione, l'Ungheria rischia di doversi impegnare nel suo stesso salvataggio dalla crisi economica. E' difficile in tali condizioni tenere in mano le redini dell'agenda politica ed economica europea.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. L’Austria, nel segno di una sincera revisione storica, restituisce nome ed onore a quei 60.000 soldati dell’Armata Rossa che caddero sul territorio austriaco durante la seconda guerra mondiale. Non tutti morti in combattimento: alcuni morti di stenti o di malattia nei campi di concentramento, altri giustiziati sommariamente dopo un tentativo di fuga. Nella capitale austriaca c’è un monumento, nella piazza Schwarzenberg, che ricorda i tanti Ivan caduti.
Ma ora il governo di Vienna ha provveduto ad un “censimento” di tutti quei sovietici morti nella battaglia per la liberazione del Paese. L’ha fatto con un lavoro di ricerca a tutto campo curato dallo storico austriaco Stefan Karner e dai collaboratori del Boltzmann Institut für Kriegsfolgenforschung. Le ricerche sul territorio e negli archivi sono durate 12 anni e hanno portato alla pubblicazione di un libro (anche in versione digitale) con l’elenco completo delle vittime e con le informazioni relative alla loro sepoltura.
Tutto questo avviene perché di quelle vittime sconosciute si era perso il ricordo, tanto da non sapere più chi fossero né dove fossero sepolti i loro corpi. Una situazione speculare, in un certo senso, rispetto a ciò che era capitato in Russia ai soldati dell’Armir. Ma ora i caduti dell’Armata Rossa in Austria hanno un nome e un cognome e si sa dove sono sepolti.
Un gesto estremamente significativo che Mosca saluta inserendolo nel quadro di un clima di rinnovata distensione nel cuore del continente. Intanto sono in arrivo nella capitale russa la ministra degli Interni austriaca, Maria Fekter, e lo stesso Karner (l’autore della ricerca) con l’obiettivo di consegnare l’intero elenco al presidente russo Medvedev. In questo modo le famiglie dei caduti potranno consultare l’elenco, che sarà disponibile anche su internet, e sapere finalmente dove riposano i loro caduti.
Forse non sarà possibile per essi andare fino in Austria e portare un fiore sulla tomba dei congiunti ritrovati, ma sarà almeno loro di conforto, dopo tanto tempo, poter guardare la carta geografica dell’Austria e sapere che lì, in qualche città o in qualche villaggio, si trova la loro tomba.
L’Austria - si nota con soddisfazione a Mosca - è il primo Paese in Europa ad aver condotto una simile ricerca sulle vittime di guerra dell’ex Unione Sovietica e ad averla messa a disposizione della Russia. Naturale, quindi, che la consegna dell’elenco a Medvedev costituirà anche una sorta di ringraziamento alle autorità russe per aver aperto negli anni ’90 gli archivi di Mosca e consentito di far luce sulla sorte di migliaia di soldati austriaci della Wehrmacht, fatti prigionieri durante la campagna di Russia o durante la ritirata.
Gli storici russi, in questo clima di distensione e di ricerca della verità storica, ricordano che quando sul finire della seconda guerra mondiale l’Armata Rossa giunse sul territorio austriaco, mancava ormai soltanto poco più di un mese alla capitolazione del Reich. Eppure bastarono quei pochi giorni per lasciare sul terreno decine di migliaia di morti, tanto cruenti furono i combattimenti, casa per casa, strada per strada (18.000 caduti sovietici soltanto nella battaglia di Vienna), voluti fino all’ultimo da Hitler. Alla fine il conto delle perdite russe fu, appunto, di 60.000 caduti.
Erano i giorni in cui le armate sovietiche concludevano la Liberazione della Slovacchia e si muovevano in direzione dell'odierna Repubblica Ceca, quelli in cui l'Armata Rossa combatteva valorosamente anche nelle strade di Vienna. Dal Marzo del 1938, dai giorni della forzata annessione alla Germania, l'Austria faceva parte del criminale Reich nazista.
Gli austriaci ne condivisero o ne subirono le colpe e la sorte, prima di essere liberati dagli Alleati e riconquistare la propria sovranità e indipendenza, benché condizionate alla "neutralità" sancita per loro a Yalta. Fu il generale Blagotatov ad effettuare la presa della capitale mentre le truppe tedesche del gruppo “Sud” ripiegavano. Le cronache di quei giorni ricordano a tutti che fu alle ore 14 del 13 aprile 1945 che le truppe sovietiche occuparono completamente Vienna.
Ed ora alla tv russa compare quella piazza Schwarzenberg, dove in cima all'alta colonna svetta la statua del soldato sovietico, stretto attorno alla sua bandiera vittoriosa. Alla base del monumento, è inciso il testo del decreto ? 334, firmato da Stalin il 13 aprile del 1945, giorno della Liberazione di Vienna. E' l'omaggio ai valorosi reparti del 2° e del 3° Fronte Ucraino e la cronaca delle loro gesta: 130.000 prigionieri tedeschi, 11 divisioni corazzate annientate, 1.345 carri e pezzi d'artiglieria, 2.250 mortai distrutti o sottratti al nemico. Ai lati, i nomi degli eroi. Attorno l'ampio colonnato, sul cui frontone sono incise le parole della gratitudine e della memoria: "Gloria eterna agli eroi dell'Armata Rossa, caduti in combattimento contro gli invasori nazifascisti, per la libertà e l'indipendenza dei popoli dell'Europa".
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di Giuliano Luongo
La bomba fatta esplodere nei pressi della cattedrale di S. Marco ad Alessandria d’Egitto, durante la messa di mezzanotte, ha riportato l’attenzione sulla situazione dei cristiano copti in Egitto. La posizione dell’autoproclamatosi monarca Mubarak e la reazione dell’Occidente europeo, hanno partorito la rapida creazione di un “fronte per la difesa della cristianità”. Sembra essere questo, infatti, il prossimo obiettivo in agenda dei conservatori europei, in particolare di quelli nostrani, mentre s’infiamma la polemica a distanza tra i più alti rappresentanti religiosi delle fazioni coinvolte.
I copti (termine di origine greca che significa semplicemente “egizi”) sono una minoranza cristiana presente in Egitto dal I secolo d.C., vicini al Papa di Roma, ma con molti punti di contatto con l’ortodossia cristiana orientale. Sebbene i numeri non siano né certi né aggiornati, si stima siano poco più del 10% della popolazione egiziana (il governo fissa la cifra all’8%). La convivenza ha sempre oscillato tra alti e bassi, secondo l’estremismo dell’opposta fazione, sia in maniera violenta e diretta, sia in maniera più subdola: un tipico esempio è quello dei rapimenti di donne copte fatte convertire forzosamente all’Islam per poi finire in spose ad uomini islamici.
Nel ‘900, il punto di minimo tra le relazioni interreligiose si ebbe durante il periodo Sadat (’70-’81): proprio nel 1981, un gruppo di fondamentalisti islamici uccise 17 cristiani e ne ferì circa 100. Il presidente dimostrò di essere lievemente di parte, facendo arrestare il patriarca copto Shenouda III ed insabbiando l’accaduto.
L’attentato di capodanno non sembra essere stato un attacco del tutto imprevisto, dato che ben due settimane prima un’affermazione presente su di un noto sito web di estremisti islamici elencava una lista di venti siti copti da colpire, tra i quali figurava proprio la chiesa di S. Marco.
E’ stata, come da copione, paventata una connessione con Al Qaeda: “Lo Stato Islamico dell’Iraq”, organizzazione fondamentalista irachena, dichiarava il 1° novembre 2010 sul suo sito che quale tutti i cittadini cristiani del Medio Oriente sono da considerarsi “bersagli legittimi”, con il pretesto di supposte conversioni forzate dall’Islam al Cristianesimo avvenute a luglio 2010.
Proprio poche ore prima dell’esplosione una folla di manifestanti islamici radunatisi alla moschea di Kayed Gohar aveva ripetuto gli stessi slogan anti-cristiani attribuiti ai noti estremisti.
Dell’attentato in sé si è già detto fin troppo, mentre ancora non c’è accordo tra i reporter sulle modalità dell’assalto (dal kamikaze all’autobomba, al kamikaze nell’autobomba) ben pochi si sono presi la briga di ricordare che sia stato il peggior attacco alla comunità copta dal 2000 a questa parte (secondo massacro di Kosheh, 02/01/2000, 21 vittime), di vedere un interessante schema nel colpire a gennaio, o semplicemente di fare una lista degli ultimi attacchi per cercare di capirci qualcosa.
Nel maggio 2009, un tentativo di attacco con due ordigni non fece vittime (uno dei due venne disinnescato dalla polizia dopo l’esplosione del primo). Seguì il massacro di Nag Hammadi, 6 gennaio 2010: sei cristiani ed un poliziotto musulmano furono uccisi da un gruppo di fuoco all’esterno di una chiesa del Cairo, durante le celebrazioni del Natale ortodosso. Ne scaturirono numerose proteste da ambo le parti, con gli scaricabarile e gli incendi di rito di case e beni materiali.
L’evento portò, oltre ai citati danni alla proprietà privata e al demanio, alla pubblicazione di una serie di studi sull’escalation di violenza ai danni della comunità copta, elencando una lunga serie d’incidenti avvenuti tra il 2008 ed il 2009. L’impatto del testo è comunque da considerarsi mediocre, nonostante gli interessanti contenuti. Ciò che è accaduto in seguito è cronaca recente: dopo le “picconate” degli estremisti iracheni, il 24 novembre le violenze interreligiose riprendono. Motivo: lo stop alla costruzione di un nuovo edificio di culto cristiano. Dopo una prima manifestazione alquanto violenta dei cristiani, se ne innesca un’altra di forza eguale e contraria da parte dei musulmani. Bilancio: due cristiani morti e ben 150 arresti nelle due fazioni.
Mentre sullo sfondo - o meglio, al centro del palco - si alimenta la protesta copta, aumentano le illazioni sui possibili mandanti dell’attentato. Gli attacchi si protraggono da molti anni a questa parte e si concentrano nelle principali festività copte/ortodosse, anche da prima del grande arrivo sulle scene di Al Qaeda. La tesi del coinvolgimento dell’organizzazione di Osama bin Ladin è infatti scartata da numerosi analisti, anche provenienti dal mondo arabo: si punta il dito soprattutto sugli stessi agenti governativi, nell’ottica di una strategia “sottile” al fine di fiaccare la scomoda minoranza religiosa.
Sarebbe facile per il governo, infatti, accusare “criminali stranieri”, fingere di prendersi cura del problema e lasciare la sola fuga come alternativa per la comunità cristiana. Di certo, il presidente Mubarak non ha brillato per reattività, accusando appunto i suddetti “elementi stranieri” e parlando genericamente di perseguire i colpevoli, ma di pratico c’è ben poco. A livello internazionale, le reazioni di politici e non rendono il tutto ancora più interessante: se il Papa fa il suo mestiere, denunciando in toto le violenze - in particolare alla luce degli attacchi alle comunità cristiane in altre parti del mondo - colpisce molto di più quanto detto dai politici.
Ancora esaltato dalle minacce al Brasile, il nostro Frattini è sceso in prima linea invocando l’attivazione del Parlamento Europeo per imporre ai paesi negligenti nella tutela dei cristiani una serie di sanzioni: si è parlato di “passare all’azione” anche se finora è tutto ancora definito nell’aria fritta. L’arma definitiva dovrebbe essere quella dell’aiuto “in cambio di diritti”: secondo il Ministro, i paesi in via di sviluppo che non collaborano alla tutela dei diritti dei cristiani sul loro territorio potrebbero veder svanire il supporto economico occidentale, mentre quelli più attivi potrebbero ricevere addirittura incentivi da parte dell’Europa.
Inutile dire che da Bruxelles ancora si tace riguardo a questo, ma tale scenario apre numerose illazioni anche dal punto di vista degli analisti: legare la tutela dei diritti umani ad un do ut des economico non potrebbe avere risvolti dannosi? Come si potrebbe misurare praticamente l’impegno a “difendere i cristiani? Sa molto di “impegno libico a difendere il mare dai migranti”; i brillanti risultati li conosciamo tutti.
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di mazzetta
Le utime dall'Afghanistan ci hanno raccontato che la presidenza Obama ha affidato il proseguimento della guerra al generale Petraeus, il quale aveva spiegato al mondo che gli americani avrebbero cercato di vincere “hearts and minds”, i cuori e le menti degli afgani. I conti però non tornano, perché dall'Afghanistan - e in particolare dalla regione di Kandahar - giungono notizie che vedono l'esercito americano impegnato in veri e propri crimini di guerra, in particolare nell'esercizio di quelle punizioni collettive della popolazione severamente vietate dai codici di guerra internazionali, Convenzione di Ginevra su tutti.
In due casi, nella provincia di Zhari, gli americani hanno arrestato e detenuto tutti gli abitanti, compresi i bambini e le donne, di due villaggi dai quali qualcuno aveva sparato fucilate agli americani. Circondati i villaggi hanno prelevato la popolazione e l'hanno portata via. Ma è un'altra tattica, che si sta affermando sempre più a sollevare rabbia tra gli afgani e commenti severi presso quei pochi occidentali ancora inclini a discutere di quel che fanno “i nostri ragazzi” in Afghanistan: quella della demolizione di interi villaggi.
Sono infatti ormai migliaia gli abitanti delle province di Arghandab, Zhari e Panjwaii rimasti senza casa perché gli americani hanno raso al suolo i loro villaggi. Gli americani dicono che lo fanno perché gli abitanti non rispondono alle loro richieste di consegnare le trappole esplosive delle quali questi villaggi sarebbero imbottite. Circostanza da chiarire perché è abbastanza strano che gli afgani vivano in villaggi imbottiti di trappole esplosive sperando che prima o poi gli americani siano così tonti da entrarci senza cautele.
Sia come sia, la presenza di eventuali mine o trappole esplosive non autorizza di certo un esercito a distruggere interi villaggi radendoli al suolo, ma di villaggi gli americani ne hanno raso al suolo parecchi. Fortunatamente dopo aver spiegato agli abitanti che era il caso di abbandonarli se non si voleva fare la stessa fine. Per gli americani la rabbia della gente non sembra rilevante e la scusa degli esplosivi sembra sufficiente come lo fu quella delle armi di distruzione di massa per invadere e distruggere quel che rimaneva dell'Iraq già bombardato in precedenza.
Al colmo dell'ironia o del disprezzo - a seconda dell'osservatore - ci ha pensato il brigadiere generale Nick Carter (si chiama proprio così) a spiegare alla stampa che la tattica ha anche il benefico effetto di avvicinare la popolazione ai rappresentanti afgani, che dopo ogni demolizione devono fronteggiare la rabbia dei profughi privati della casa e dei loro averi. Argomentazione allucinante e degna di un ufficiale nazista per lo spregio verso le vittime le leggi di guerra.
Governatori-fantoccio di un governo-fantoccio al potere in virtù di elezioni che gli stessi americani hanno definito per nulla regolari; ma sarebbe già qualcosa se la popolazione trovasse un sollievo nella loro opera. Invece niente, non ci sono risarcimenti, non ci sono altre case, nemmeno tendopoli, bisogna che gli afgani ai quali gli americani demoliscono le case si arrangino.
Perché il vasto ricorso a crimini di guerra se l'obiettivo è quello di vincere la simpatia degli afgani? Probabilmente perché nessuno è interessato veramente allo scopo dichiarato ufficialmente, perché gli americani hanno capito che è una guerra che non potranno mai vincere e allora non fa differenza se gli americani si fanno amare od odiare dagli afgani.
Il ricorso alle maniere forti non farà che spingere sempre più gli uomini verso la resistenza anti-occidentale ed è chiaro che se si ricorre a tattiche tanto disperate e brutali è perché ormai allo scopo ufficiale della guerra (“portare la democrazia in Afghanistan”) non crede più nessuno e non è nemmeno il caso di sforzarsi per conservare la decenza.
Infatti gli americani procedono e, nonostante alcuni dei principali media americani (ad esempio il Washington Post) ne diano notizia, negli States non ci sono state reazioni politiche, a nessun livello, nemmeno tra gli alleati. Figurarsi da parte di Karzai, che negli ultimi tempi si è fatto notare per aver detto che rimpiange i tempi di Bush, perché allora l'amministrazione lo sosteneva a spada tratta e non osava accusarlo qualunque cosa accadesse.
Facile mettersi nei panni degli afgani e concludere che niente di buono verrà dal governo o dalle forze d'occupazione occidentale, ma è abbastanza facile anche mettersi nei panni dei militari americani e concludere che pensano solo al giorno in cui lasceranno il paese. Non servivano certo i cablo pubblicati da Wikileaks per capire che la Nato non ha alcuna speranza di controllare il confine con il Pakistan e quindi di togliere ossigeno alla resistenza afgana: non è da ieri che gli stessi esperti americani dicono che la guerra non si può vincere.
Ma se la guerra non può essere vinta, che senso ha rimanere in Afghanistan ad alzare il livello dello scontro fino a commettere numerosi e odiosi crimini di guerra? Non si capisce bene, forse è solo rabbia, gli americani sono in Afghanistan da nove anni e non hanno concluso niente, da nove anni si aggirano per il paese pagando gli stessi talebani perché facciano da scorta ai convogli e armando reclute che poi disertano e sparano sugli alleati con le armi che gli abbiamo dato noi.
Sarebbe stato davvero strano se ne fosse venuto un successo, ma trasformare un fallimento militare in una vergogna, operando rappresaglie sulla popolazione civile, è ancora peggio. Peccato che il governo italiano sia in altre faccende affaccendato, che gli “umanitari” guardino al Darfur, che i paladini dei diritti civili guardino agli impiccati in Iran e che il nostro ministro della difesa sia impegnato a minacciare il Brasile che non concede l'estradizione per Battisti.
Davvero un peccato, agli afgani non pensa nessuno, se non per qualche tirata dei soliti razzisti contro il burka. Robaccia ad uso interno, di liberare le donne afgane non importa a nessuno, men che meno a quelli che hanno usato le loro sofferenze per giustificare la guerra.