di Marco Montemurro

Il governo thailandese, in vista dei cortei indetti per i prossimi giorni, ha deciso di estendere fino al 30 marzo le speciali norme di sicurezza, inasprendo i controlli a Bangkok e nelle province limitrofe. I militari potranno imporre il coprifuoco e installare posti di blocco, in modo tale da limitare gli spostamenti e contenere il dissenso. Le misure sono state sancite dal primo ministro, Abhisit Vejjajiva, per cercare di scoraggiare l’arrivo dei manifestanti nella capitale, città che da giorni è teatro delle proteste organizzate dalle cosiddette “camice rosse”.

Durante le ultime settimane ha ripreso vigore, di giorno in giorno in maniera crescente, il movimento conosciuto come United Front for Democracy against Dictatorship (UDD), determinato nel chiedere lo scioglimento del governo, elezioni anticipate e, soprattutto, la riammissione in politica dell’ex primo ministro e magnate delle comunicazioni Thaksin Shinawatra. Benché risieda all’estero, in esilio volontario dal 2006, il suo ruolo è molto influente nel paese e i messaggi da lui rilasciati, nei quali incita alla mobilitazione contro il governo, diffusi puntualmente tramite internet, hanno molto credito tra i dimostranti.

Il sostegno verso Thaksin potrebbe far apparire paradossale il conflitto politico, in quanto le rivendicazioni democratiche si affiancano agli interessi del noto imprenditore, tuttavia nelle province del paese l’ex premier continua a beneficiare del forte appoggio della popolazione. Durante il suo governo, tra il 2001 e il 2006, Thaksin ha introdotto nelle aree economicamente più depresse l’assistenza sanitaria gratuita e il microcredito; pertanto, sebbene sia stato condannato per conflitto d’interessi, corruzione e furto all’erario, continua a godere del sostegno dai ceti più poveri e rurali, degli studenti e degli attivisti politici.

Thaksin, grazie alle politiche sociali e populiste perseguite durante il suo incarico, ha ottenuto consenso. É difatti l’unico premier thailandese ad aver portato a termine il suo mandato quadriennale, riuscendo inoltre a essere rieletto nel 2005, in una tornata elettorale che ha registrato la più alta affluenza alle urne nella storia del paese. Nel settembre del 2006, però, accusato di corruzione e di scarsa lealtà nei confronti della monarchia, è stato deposto da un colpo di stato militare incruento, un’azione che ha comportato inevitabilmente l’inasprimento del conflitto politico.

Una volta messo fuori legge il partito di Thaksin, il Thai Rak Thai, parte dei sostenitori sono confluiti nel nuovo People's Power Party e in seguito, dissolto anch’esso, nel Pheu Thai Party, la formazione che tuttora si contrappone al People's Alliance for Democracy (PAD) e al Democrat Party dell'attuale primo ministro Abhisit.

Negli ultimi quattro anni, dunque, nella politica thailandese è cresciuto il contrasto tra le cosiddette “camice gialle” (così chiamate perché vestono i colori della monarchia che intendono difendere, legate all’élite urbane e vicine ai militari) e le “camicie rosse”, favorevoli all’ex premier miliardario Thaksin, che reclamano la democrazia e maggiori politiche sociali e sono sostenute dalla popolazione rurale. Tale conflitto ha dato luogo a forme di lotta eclatanti, cosicché diverse volte la Thailandia ha attirato l’attenzione mondiale.

Nel novembre 2008 i “gialli”, per chiedere le dimissioni del premier Somchai Wongsawat (cognato di Thaksin), occuparono per oltre una settimana i due aeroporti di Bangkok, bloccando completamente i voli e danneggiando così il turismo nel paese, settore cruciale dell’economia. In seguito nell’aprile 2009 i “rossi”, per protestare contro il nuovo primo ministro Abhisit, impedirono a Pattaya, località vicino la capitale, lo svolgimento del vertice tra i paesi Asean, Cina, Sud Corea e Giappone, mettendo in forte difficoltà il governo.

Pochi giorni fa, martedì 15 marzo, un altro clamoroso evento ha scosso il paese, richiamando l’interesse dei media internazionali. A due settimane di distanza dal verdetto della Corte Suprema contro Thaksin, sentenza che ha ordinato la confisca di 1,4 miliardi di dollari dai suoi beni, i “rossi” dell’United Front for Democracy against Dictatorship a Bangkok hanno gettato litri di sangue di fronte al palazzo governativo, alla residenza del primo ministro Abhisit e alla sede principale del Democrat Party.

Migliaia di volontari, intenzionati a lanciare verso il governo un segnale di forte valenza simbolica, hanno offerto il loro contributo affinché si potessero riempire intere taniche di sangue; cosicché, come se si volesse svolgere un rituale magico, le strade attorno ai palazzi del potere sono state tinte di rosso. Immediatamente le insolite immagini sono state presto diffuse in tutto il mondo, dimostrando quanto la protesta sia determinata e pacifica. A questa particolare forma di lotta ha fatto seguito un grande corteo, svoltosi il sabato successivo nelle strade della capitale, e al momento i dimostranti non sembrano demordere, dato che altre manifestazioni sono attese nei prossimi giorni.

Il movimento delle “camicie rosse” contro il governo si mostra dunque risoluto nel chiedere le dimissioni del primo ministro Abhisit, elezioni anticipate e un nuovo governo. Tuttavia, riguardo alla prospettiva di un ritorno in carica di Thaksin, non tutte le opinioni sono concordi. Pitch Pongsawat, professore alla Chulalongkorn University, sostiene appunto che molti cittadini di Bangkok sono favorevoli nei confronti del movimento, ma non sostengono Thaksin, poiché riconoscono che ha commesso abusi di potere e atti di corruzione. Il professor Pitch rivela infatti che i dimostranti hanno pareri differenti riguardo alla figura dell’ex premier però, purtroppo, “i media thailandesi sono il loro ostacolo, poiché rappresentano le ‘camicie rosse’ come dei ciechi sostenitori di Thaksin e, quindi, chiunque aderisce alle proteste viene mostrato inevitabilmente come un suo difensore”, come ha sostenuto il 20 marzo alla televisione Al Jazeera.

Nonostante non sia ancora ben definito il programma politico del movimento attualmente in campo, è evidente che le “camicie rosse” interpretano la loro lotta come fosse una contrapposizione tra i phrai, ossia la gente comune, e gli amataya, vale a dire le classi agiate, i burocrati e le élite. Il primo ministro Abhisit, ex professore di economia, nato in Gran Bretagna ed educato a Oxford, è appunto da loro considerato come un esponente del privilegio. Probabilmente le prossime azioni dei manifestanti e le decisioni del governo presto riveleranno le istanze e gli interessi in gioco nel conflitto.

di Michele Paris

Con l’arrivo nella capitale statunitense di una delegazione pakistana, mercoledì scorso è andato in scena il primo atto assoluto del “dialogo strategico” tra i due paesi con il coinvolgimento dei rispettivi responsabili degli affari esteri. La visita dei vertici diplomatici e militari del Pakistan negli Stati Uniti avviene in seguito all’accelerazione mostrata da Islamabad negli ultimi mesi sul fronte della lotta ai ribelli islamici operanti sul proprio territorio. Una guerra voluta fortemente dalla Casa Bianca e per la quale ora il fondamentale alleato in Asia meridionale di Washington sembra voler presentare il conto.

A guidare ufficialmente i rappresentanti del governo pakistano è stato il Ministro degli Esteri, Shah Mehmood Qureshi, anche se la personalità più importante appare chiaramente quella del capo delle forze armate di Islamabad, Generale Ashfaq Parvez Kayani. Quest’ultimo, infatti, aveva raggiunto gli USA anticipatamente per incontrare, in vista dei colloqui bilaterali, il numero uno del comando americano per il Medio Oriente e l’Asia Centrale, Generale David Petraeus, il capo di Stato Maggiore, Generale Mike Mullen, e il Segretario alla Difesa, Robert Gates. Prima della sua partenza, addirittura, Kayani aveva anche convocato tutti i ministri coinvolti nell’imminente trasferta a Washington senza nemmeno consultare il Primo Ministro, Yousuf Raza Gilani, o il sempre più indebolito presidente, Asif Ali Zardari.

Che siano i militari a dettare l’agenda diplomatica pakistana non è d’altra parte una novità. Il ruolo predominante assunto dal Generale Kayani conferma in ogni caso la dinamica del rapporto tra i due paesi. Come già accadeva con il deposto presidente-dittatore, Generale Pervez Musharraf, all’indomani dell’11 settembre, il Pakistan continua a fornire, sia pure con più di un’ambiguità, il proprio importantissimo supporto logistico agli Stati Uniti nell’ambito del conflitto nel vicino Afghanistan.

Quando il presidente Zardari visitò Washington, quasi un anno fa, la neo-insediata amministrazione Obama usò toni molto pesanti per convincere l’alleato a fare di più per contrastare le attività dei Talebani - con i quali ampi settori militari e dei servizi segreti pakistani mantenevano e continuano mantenere stretti rapporti - nelle aree tribali di nord-ovest. Da allora, l’esercito di Islamabad ha condotto un paio di operazioni su larga scala, nelle province di Swat e del Waziristan del Sud, assestando qualche colpo alla resistenza integralista ma, soprattutto, causando pesanti perdite tra i civili e sradicando qualcosa come due milioni di persone dalle loro abitazioni.

Parallelamente, gli Stati Uniti hanno intensificato le loro operazioni sul territorio pakistano, con il tacito accordo delle autorità locali, impiegando sempre più frequentemente i droni pilotati a distanza per colpire i Talebani. Una strategia che ha però alimentato ulteriormente un già diffuso sentimento anti-americano tra la popolazione, spesso colpita da quegli stessi attacchi aerei che si vorrebbero “chirurgici”.

Pressati da un’opinione pubblica sfiduciata e dal persistere dei nodi irrisolti legati alla propria sicurezza nazionale, Qureshi e Kayani si sono così presentati a Washington invitando il presidente Obama a prestare maggiore attenzione alle loro istanze. Oltre alla consueta richiesta di intervenire in maniera più incisiva nella disputa con l’India per la regione del Kashmir, la più recente pretesa emersa da Islamabad sembra essere quella di ottenere un accordo sul nucleare simile a quello garantito tra molte polemiche proprio al rivale indiano nel 2008 dalla precedente amministrazione americana.

Nuova Delhi, pur essendosi dotata di armi nucleari senza aver sottoscritto il Trattato di Non-Proliferazione, aveva eccezionalmente siglato con gli USA un patto per lo sviluppo del nucleare a scopi civili, così da sostenere il fabbisogno energetico di un’economia in rapida espansione. Nella stessa situazione dell’India si trova ora anche il Pakistan che gradirebbe un trattamento simile da parte di Washington per ristabilire l’equilibrio in ambito nucleare con il paese che continua a rappresentare, a torto o a ragione, la minaccia principale ai propri interessi.

Se l’eventuale accondiscendenza americana sulla questione nucleare finirà per infuriare il governo indiano, ulteriori frizioni saranno da mettere in preventivo anche nel caso venissero soddisfatte le richieste pakistane sul fronte degli armamenti. Il Ministro degli Esteri Qureshi, infatti, vorrebbe accedere agli equipaggiamenti statunitensi più sofisticati, tra cui appunto gli stessi droni che la CIA e l’esercito impiegano su larga scala in Pakistan. Su quest’ultimo punto, tuttavia, il Pentagono ha mostrato finora una certa freddezza e di certo nessun annuncio fondamentale sulle forniture militari verrà fatto al termine dei colloqui bilaterali.

Un altro punto all’ordine del giorno della visita pakistana a Washington è poi quello relativo alla trattativa con quei Talebani, ed esponenti degli altri gruppi ribelli, disposti a scendere a compromessi con il governo di Kabul. Una questione che si intreccia indissolubilmente con la necessità per Islamabad di giungere ad un governo afgano non ostile ai propri interessi una volta che le forze occidentali si saranno ritirate. In questa prospettiva, per il Pakistan risulta fondamentale limitare al massimo l’influenza indiana in Afghanistan, che in qualche modo è stata invece favorita da Washington negli ultimi anni nel perseguimento di un difficile equilibrio strategico.

La cattura da parte pakistana del leader talebano Mullah Abdul Ghani Baradar lo scorso mese di febbraio, a questo proposito, ha causato qualche attrito con Washington, nonostante le smentite. Secondo l’ex rappresentante ONU a Kabul, Kai Eide, l’arresto di colui che viene indicato come il vice del Mullah Omar avrebbe interrotto bruscamente i negoziati in corso tra il governo afgano e i Talebani. Una mossa decisa da Islamabad per ricordare agli americani e al presidente Karzai la volontà del Pakistan di ricoprire un ruolo di spicco in qualsiasi colloquio di pace in Afghanistan.

In definitiva, i vertici politici e militari pakistani appaiono voler incassare ulteriori concessioni dagli Stati Uniti per il proprio ruolo di contrasto alle forze integraliste negli ultimi tempi, ben sapendo che non sarà possibile prescindere dal loro contributo a qualsiasi soluzione pacifica verrà cercata per il futuro dell’Afghanistan e dell’intera regione. Una situazione della quale la Casa Bianca sembra essersi resa conto, anche se un punto di equilibrio, che dovrà pure tener conto delle preoccupazioni di Nuova Delhi, appare ancora lontano. Il rischio, nel frattempo, è che la rivalità indo-pakistana possa riesplodere complicando nuovamente i piani americani.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Dalle armi all’industria petrolifera, dalle joint-venture ai rapporti economici. Ed ora  per il Cremlino, impegnato da molti anni nel Sudan, scatta l’operazione “acqua potabile”. E così parte all’attacco del paese africano con un piano di sviluppo che prevede trivellazioni in tutte le zone e la realizzazione di stazioni di filtraggio. I tecnici inviati da Mosca sono già all’opera e la loro forma di intervento trova il pieno appoggio della popolazione locale, purtroppo abituata alle incursioni di un occidente avido di affari e di petrolio da esportare. Ed ecco che la Russia, che però non trascura l’oro nero, sceglie come facciata, la battaglia per l’oro bianco. E’ una scelta d’intervento economico, ma è soprattutto un tentativo per distinguersi dagli altri paesi presenti in questa tormentata zona dell’Africa.

Lo spiega alla stampa il russo Michail Markelov che a Kharthoum rappresenta la dirigenza russa. E’ lui che ricorda come con la firma della pace si è ora aperta una nuova difficile fase di ricostruzione del paese che coinvolge praticamente tutti gli ambiti della società sudanese. Rendere, ad esempio, disponibili i servizi di base tra cui l’accesso alle fonti di acqua potabile sarà dunque essenziale per il pacifico rimpatrio di centinaia di migliaia di rifugiati in tutto il sud e per il futuro sviluppo dell’intero Paese.

E’ noto – sottolinea Markelov – che la mancanza di acqua potabile è una delle piu delicate emergenze nel Sud. Essa è strettamente legata alle condizioni sanitarie e igieniche della popolazione che non avendo ampie disponibilita di risorse idriche è costretta a procurasi l’acqua con mezzi altamente insicuri e in zone contaminate come stagni, ruscelli e persino acquitrini formatisi durante le pesanti piogge stagionali; sorgenti  tutte che spesso vengono contaminate da agenti esterni ed ambientali come animali domestici e attivita umane.

Questa situazione - ricordano i tenici russi che partecipano alle operazioni di trivellazione nel Sudan - favorisce la diffusione di malattie legate soprattutto ad una mancanza di igiene e di acqua potabile causando talvolta epidemie di colera (malattia la cui contaminazione avviene nella maggior parte dei casi attraverso acqua contaminata), epatiti e tifo.

Per questo motivo, la creazione di punti idrici sicuri sul territorio come boreholes (pozzi artesiani), wells (pozzi) o bacini di acqua potabile (water catchment) rappresentano tutt’oggi una importante risorsa per quelle popolazioni che vivendo ancora isolate a causa della guerra, non possono raggiungere facilmente i principali centri urbani. Durante la guerra civile, molte persone abbandonarono infatti le proprie abitazioni nei dintorni dei principali villaggi per trasferirsi nelle zone montane; luoghi certamente piu sicuri per sfuggire alle rappresaglie degli Arabi e ai bombardamenti, ma definitivamente molto più carenti per quanto riguarda la fornitura di cibo e soprattutto di acqua potabile. Notevole quindi il contributo dei tecnici russi e delle tecnologie messe a disposizione del Sudan.

Intanto negli ambienti della Croce Rossa di Mosca si fa notare che nelle zone dell’Eastern Equatoria, e in particolare in quelle delle Contee di Torit e Kapoeta, continua l’emergenza alimentare, resa ancor piu acuta dalle scarse precipitazioni e dal cronicizzarsi della siccità, che dagli anni ‘80 impoverisce la regione. Si assiste, infatti, ad un’anomala distribuzione delle precipitazioni nella zona. I rilievi condotti negli ultimi anni hanno mostrato precipitazioni fino a 3.000 mm. nella zona dell’Upper Tallanga e precipitazioni intorno ai 1.000 mm. nella zona Acholi, Madi, Torit; Lafon invece si attesta su valori intorno agli 800 mm. Quanto alla situazione politica attuale del Sudan i russi che seguono le vicende di Kharthoum rilevano che la situazione generale è sempre a rischio perchè il “vento” che soffia dalla vicina Somalia potrebbe sconvolgere il paese.

C’è soprattutto il problema collegato alla gestione nazionale. Perchè si dispiegano sempre più forze ostili al presidente del Sudan, Omar Hassan al-Bashir, accusato di genocidio da parte del Tribunale penale internazionale dell’Aja in riferimento, soprattutto, alla questione del Darfur.

Secondo gli osservatori russi (che in questi ultimi tempi tengono sotto tiro la situazione sudanese) tra i tanti problemi c’è quello che si riferisce al fatto che il presidente ha favorito una islamizzazione radicale senza tener conto che gran parte degli abitanti sono cristiani. Di qui lo scontro tra Nord e Sud. Ora la Russia - per favorire la penetrazione nel paese - utilizza l’arma dell’economia scegliendo come terreno d’intervento quello dell’acqua. Ma non trascura la corsa verso le infastrutture. In particolare - lo rende noto il quotidiano moscovita “Kommersant” - nel settore dei trasporti. Favorita in questo dal fatto che l’intero parco ferroviario del Sudan era stato fornito dagli americani, ma che col passare degli anni tutto è obsoleto e, praticamente, inutilizzabile.

La Russia offre ora le sue attrezzature per i 4764 chilometri di strade ferrate. Parla di acqua. Ma è chiaro che pensa all’oro nero. E in proposito va ricordato che ci fu a suo tempo una missione guidata da Medvedev. Il quale, era accompagna toda una delegazione composta da circa quattrocento uomini d'affari e rappresentanti del mondo industriale, tra i quali, in particolare, i dirigenti dei principali colossi russi, quali Rosatom, Lukoil e Gazprom.

Nel tentativo di avvicinarsi all'intensità di affari della Cina (obbiettivo particolarmente difficile tanto che lo stesso Presidente russo dichiarò apertamente che la Russia avrebbe dovuto iniziare ad instaurare rapporti commerciali con i Paesi africani da lungo tempo), Medvedev puntò l'attenzione, in particolare, sul campo energetico. Tanto che fu raggiunto un accordo tra il gigante dell'energia Gazprom e l'azienda nazionale Nigerian National Petroleum Corporation per la creazione di una società congiunta impegnata a concedere, al colosso russo un accesso diretto alle risorse gassifere e petrolifere del Paese. Per Mosca il problema, ora, consiste nel decantare le tensioni accumulate in una regione dove, purtroppo, la conflittualità è endemica, storica, secolare.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Il Pubblico Ministero di Diyarbakir (Turchia dell'Est) ha proposto 525 anni di prigione per il giornalista curdo Vedat Kursun, caporedattore dell'unico quotidiano curdo pubblicato in Turchia, l'Azadiya Welat. L'accusa è "propaganda terroristica" a favore del Partito dei Lavoratori Curdo (PKK), il movimento politico clandestino armato che dagli anni Ottanta lotta contro il governo di Ankara per ottenere il rispetto della minoranza curda. La situazione, tuttavia, è ben lungi dall'apparire lineare.

Secondo quanto riporta il quotidiano tedesco Tageszeitung (TAZ), la procura turca avrebbe portato ben 103 edizioni dell'Azadiya Welat a sostegno delle sue accuse contro Kursun, tutte apparse tra il 2007 e il 2008. Certo, trovare prove contro il giornalista trentaquattrenne non deve essere stato difficile. Per la Giustizia turca, infatti, anche solo parlare di "Kurdistan" o "guerriglia" risulta punibile secondo le leggi anti-terrorismo: non meraviglia che Kursun, pubblicando dichiarazioni di capi del PKK e annunci mortuari di combattenti curdi, sia sia guadagnato l'attenzione estrema del Governo di Ankara.

Che la Turchia non veda di buon occhio i mezzi di espressone in lingua curda non è un mistero. I curdi, con una popolazione totale di quasi 30 milioni di persone distribuita fra Turchia, Siria, Iran e altri stati del Medio Oriente, costituiscono uno dei più estesi gruppi etnici senza patria al mondo: già da oltre un secolo cercano di creare il Kurdistan, una nazione indipendente e autonoma politicamente, incontrando però sempre l'ovvia opposizione degli Stati sovrani.

La sola Turchia, da parte sua, ospita 7 milioni di individui di lingua e etnia curda: si tratta dell'8 percento dell'intera popolazione su suolo turco, una percentuale non indifferente. Il rapporto fra il Governo di Ankara e la minoranza curda è sempre stato complicato soprattutto a causa del Partito dei Lavoratori Curdo, il PKK: si tratta dell'ala estrema del movimento per l'indipendenza curda, accusata di azioni di terrorismo da diverse direzioni. Attivo dal 1984, il PKK combatte in maniera non sempre ortodossa contro un governo ufficialmente democratico ma concretamente monocolore ed è finito, fra l'altro, nelle liste "nere" dei terroristi per Europa, Turchia e USA.

Che il PKK sia un gruppo di matrice terroristica o meno, ciò non giustifica comunque l'atteggiamento del Governo nei confronti di tutti mezzi di comunicazione in lingua curda. Come, appunto, per l'Azadiya Welat, il quotidiano di Kursun, che vende in tutto 15 mila copie al giorno, una tiratura troppo ridotta anche solo per assicurargli un posto nelle edicole. Se Azadiya Welat significa in curdo "libertà della patria" e si assurge a canale d'espressione per eccellenza del popolo curdo in Turchia, il Governo lo legge come organo privilegiato di propaganda terroristica, limitandone in tutti i modi la libertà d'espressione.

Vedat Kursun è stato arrestato a gennaio del 2009 all'aeroporto di Istanbul, mentre cercava di fuggire in Europa: da allora siede in prigione in attesa di giudizio, sotto stretta sorveglianza, tanto che non gli è permesso neppure sedere a fianco dei suoi avvocati durante i processi a suo carico. La suprema corte di giustizia turca si è già espressa quattro volte sul suo caso, senza arrivare mai a una sentenza definitiva. Settimana scorsa, per l'ennesima volta, il processo è stato rinviato: la proposta è di una pena record di 525 anni, se ne riparlerà comunque il 6 maggio.

Ma la speranza di libertà, per Kursun, sembra essersi trasformata in un'illusione. Persino l'attuale caporedattore dell'Azadiya Welat, Eser Ungansiz, non è ottimista nei confronti del suo precedessore: "Kursun non uscirà mai", ha dichiarato al TAZ, spiegando che, per i giornalisti curdi, la situazione "non è mai stata così difficile come oggi". Ungansiz è il quinto dei caporedattori che si sono succeduti all'Azaiya negli ultimi tre anni. Da che il giornale è diventato quotidiano, nel 2006, la redazione è stata chiusa svariate volte, con l'accusa di "Pubblicità a favore di organizzazione illegale".

Come ad aggirare la violenta censura del Governo di Ankara, i caporedattori si sono succeduti per garantire una certa continuità al giornale. Tre su quattro (se si esclude l'attuale) sono ora sotto processo. Nel frattempo, in carcere, Kursun ha preso l'epatite: a ricordo perenne di una battaglia personale che, indipendentemente dall'ideale, è stata combattuta per la libertà di stampa.

 

di Giuseppe Zaccagni

Non c’è crisi per le armi. Si spara e si vende in uno scenario di eventi traumatici e i dati che arrivano da questo mercato della morte sono sempre più impressionanti. Da Stoccolma, l’Istituto internazionale per le ricerche sulla pace (Sipri) diffonde un rapporto in merito, nel quale si sottolina che la vendita di armi a livello globale è cresciuta del 22 per cento rispetto al periodo 2000-2004, mentre in America del Sud l'incremento è stato del 150 per cento. Nel Sud est asiatico la crescita del volume è "drammatica" e l'acquisto di aerei e navi da guerra nella regione "potrebbe mandare in fumo i decennali sforzi per la pace".

Rispetto al 2000, le importazioni – ed è questo un altro dato significativo - hanno registrato un'impennata del 722 per cento in Malaysia, del 146 per cento a Singapore, dell'84 per cento in Indonesia. Singapore è così il primo paese dell'Asean a essere annoverato nella classifica dei primi dieci importatori dalla fine della guerra in Vietnam, nel 1975.

Anche l'Europa si mette in grande evidenza con la Grecia che, pur attraversando una drammatica crisi economica, rimane saldamente tra i cinque maggiori importatori mondiali, in particolare per l'acquisto di 26 caccia F-16 dagli Stati Uniti e 25 aerei da combattimento Mirage dalla Francia: un contratto che pesa per il 38 per cento sul totale degli investimenti nel settore armamenti del governo di Atene.

Intanto proprio agli aerei da combattimento il Sipri dedica un capitolo specifico della sua indagine. Risulta che sono le “armi” che fanno la parte del leone sul mercato, rappresentando il 27 per cento sul volume totale mondiale. Un dato che, segnala l'Istituto internazionale, dimostra "una preoccupante corsa al riarmo" che non fa che aumentare in modo decisivo la competizione tra i Paesi.

Nel quinquennio in esame le nazioni "ricche di risorse naturali hanno acquistato una quantità considerevole di aerei da guerra a prezzi molto elevati". A livello regionale, restano in testa per volume di importazioni Asia e Oceania (41 per cento), seguite da Europa (24 per cento), Medio Oriente (17 per cento), America (11 per cento) e Africa (7 per cento). E i pronostici sono tutti in salita. Sul fronte dell'offerta, gli Stati Uniti restano padroni del settore con il 30 per cento delle esportazioni, la gran parte delle quali rivolte alla Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti e Israele.

Alle spalle degli Stati Uniti la Russia, con il 23 per cento del mercato mondiale, e un export rivolto in particolare all'Asia e all'Oceania (che assorbono da sole il 69 per cento dell'offerta russa), ma anche India (Mosca ha venduto a New Delhi 82 aerei Su-30) e Algeria (28 caccia Su-30). In particolare, nella recente visita in India del premier russo, Vladimir Putin, sono stati siglati accordi per nuove forniture militari per 1,5 miliardi di dollari e l'intesa per l'ammodernamento (2,3 miliardi di dollari) della portaerei “Admiral Gorshkov”, che sarà consegnata all'India nel 2013. Notevoli, quindi, i crescenti impegni fuori area.

La Russia fornisce l'89 per cento delle armi acquistate dalla Cina. Al terzo posto si piazza la Germania, che ha visto incrementare il proprio export del 100 per cento rispetto al 2000-2004, passando da una quota del 6 per cento sul mercato mondiale all'attuale 11 per cento. I carri armati tedeschi sono particolarmente apprezzati e nel periodo preso in esame Berlino ha piazzato 1.700 veicoli corazzati in 21 Paesi, la gran parte dei quali europei. Al quarto posto la Francia, con un incremento del 30 per cento, che vende soprattutto gli aerei Mirage ma anche la tecnologia utile per i sottomarini nucleari. In controtendenza, al quinto posto,  la Gran Bretagna che ha visto una flessione del 13 per cento nelle esportazioni, destinate in particolare a India e Arabia Saudita.

Tutto questo mentre ristagna il varo di un trattato internazionale sul commercio e sul traffico delle armi leggere. E questo nonostante che in questo settore si sia registrato - nel primo anno di presidenza di Barack Obama - un mutamento della politica statunitense. C’è in merito una analisi  pubblicata  dal Center for American Progress, istituto indipendente dai partiti. Nel documento si afferma che "con la presidenza Obama gli Stati Uniti hanno dimostrato la volontà di contribuire a elaborare un trattato sulle armi leggere". Lo scorso 30 ottobre, infatti, gli Stati Uniti si sono espressi a favore della risoluzione dell'Assemblea generale dell'Onu che fissa il 2012 come scadenza per l'adozione del Trattato sul commercio di armi (Att).

Nel documento si ricorda altresì che la diffusione delle armi leggere rappresenta una minaccia non solo per le società, ma anche per programmi di sviluppo e altre forme di assistenza agli Stati non in grado di controllare il territorio in modo efficace. La tesi di fondo dell'analisi dell'istituto statunitense è che ricreare le condizioni per uno sviluppo sostenibile in un ambiente dove le armi sono molto diffuse è un compito estremamente difficile, per assolvere il quale il governo di Washington potrebbe rivelarsi decisivo. Secondo il Center for American Progress, la nuova linea di Obama dovrà tradursi in impegni concreti sul piano sia della legislazione nazionale sia del negoziato internazionale.

"Controlli sulle esportazioni e valutazioni attente dei consumatori finali sono importanti”, si sostiene nell'analisi. Ma è altrettanto importante assicurarsi che le armi in eccedenza, obsolete e potenzialmente destabilizzanti, siano tolte dalla circolazione. Sono queste le armi spesso utilizzate nei conflitti brutali di Paesi come la Colombia, il Sudan, la Repubblica Democratica del Congo, lo Sri Lanka o la Somalia". L’equilibrio planetario è, quindi, in pericolo.

Secondo le stime del Center for American Progress, oggi nel mondo ci sono circa 875 milioni di armi leggere, appena un terzo delle quali nelle mani di forze dell'ordine o di sicurezza riconosciute da un punto di vista legale. L'istituto statunitense porta a esempio il caso della Somalia, che nonostante numerose conferenze di pace e aiuti per miliardi di dollari, resta da vent'anni ostaggio della guerra civile in un mare di turbolenze. In Africa- come evidenziano le analisi delle diplomazie mondiali - le guerre civili sono cominciate subito dopo l'indipendenza dai Paesi colonizzatori, ma hanno avuto una vera e propria esplosione dopo il 1989, quando si sono ridotte le truppe e di conseguenza anche gli arsenali alle frontiere dell'ex guerra fredda.

In proposito ricordiamo che sedici governi africani sottoscrissero dodici anni fa una moratoria su importazione, esportazione e produzione di armi leggere. Rispettare oggi un simile accordo è di fatto impossibile, indipendentemente dalla credibilità di quei governi, in assenza di strumenti di controllo internazionale per rintracciare le origini di ogni singola arma.

C’è anche da dir che negli ultimi anni, lo sviluppo dell'industria locale degli armamenti in alcuni Paesi, soprattutto in Sud Africa, ha complicato ancora di più la questione. Tuttavia, il grosso resta d'origine extra africana. Nel 2001, l'Onu aveva adottato un piano per fermarne il commercio illecito, quello poi sfociato appunto nell'Att. Peraltro, secondo tutte le indagini internazionali - basti citare quelle dell'International Peace Research Institute di Stoccolma - risulta che i principali produttori di armi (tutte, non solo quelle leggere) sono, Gemania, Stati Uniti, Russia, Francia e Cina. Paesi tutti che hanno responsabilità planetarie. Ed è chiaro che non è così. Di conseguenza, con questa impennata del mercato delle armi la geopolitica è destinata a subire mutamenti molto prfofondi. E tutti di segno negativo.


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