di Michele Paris

Da qualche settimana a questa parte, un’accesa disputa sta mettendo a dura prova i già logori rapporti tra il presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, e gli Stati Uniti. Quel poco di credibilità rimasta agli occhi delle potenze occupanti dopo le elezioni presidenziali dello scorso agosto caratterizzate da brogli diffusi, Karzai sembra averla persa rapidamente nell’ultimo periodo. Una inaspettata resistenza alle richieste occidentali e lo scontro prolungato sul controllo del processo elettorale, in vista del voto per il rinnovo del Parlamento afgano, stanno producendo un durissimo scontro con Washington, dove sembra si stia cominciando a pensare ad un futuro senza il presidente, ormai ex fantoccio della Casa Bianca.

Ad accendere gli animi tra Kabul e Washington, a febbraio, era stata la firma da parte di Karzai di un decreto che gli attribuiva maggiori poteri sulla commissione elettorale incaricata di valutare eventuali irregolarità nel voto. Una commissione che dopo le presidenziali dello scorso anno aveva annullato quasi un milione di schede a lui favorevoli in seguito a svariati reclami per presunte irregolarità. Con la nuova legge, il presidente afgano intendeva assicurarsi la facoltà di nominare tutti e cinque i membri della commissione. Una mossa che avrebbe privato l’ONU della possibilità di esercitare un qualsiasi controllo sulla correttezza delle procedure di voto.

In risposta all’iniziativa di Karzai, la Casa Bianca a marzo aveva allora cancellato bruscamente una visita a Washington del presidente afgano, il quale a sua volta aveva reagito invitando a Kabul il leader iraniano Mahmoud Ahmadinejad, protagonista di un discorso dagli accesi toni anti-americani. Ad allentare momentaneamente le tensioni era giunta infine una visita a sorpresa di Obama nella capitale afgana. Oltre alla ormai consueta richiesta di adoperarsi maggiormente per combattere la corruzione dilagante nel suo gabinetto, il presidente americano era riuscito ad ammorbidire in parte la posizione di Karzai sulla questione della commissione elettorale.

Quest’ultimo, ha così acconsentito a scegliere solo tre dei cinque membri, riservandosi il diritto di nominare gli altri due dietro segnalazione dei delegati delle Nazioni Unite nel paese. La disputa si è successivamente trasferita sul terreno interno, dal momento che la Camera bassa del Parlamento afgano ha unanimemente bocciato il decreto di Karzai. Con la Camera alta che si è però rifiutata di esprimersi, e la Commissione Elettorale Indipendente espressasi a favore, il colpo di mano del presidente sembra destinato comunque ad andare a buon fine.

Che i dissapori con gli USA non siano però limitati a questioni elettorali lo confermano le più recenti uscite di Karzai nei confronti della potenza occupante che lo aveva issato ai vertici del nuovo stato afgano dopo la deposizione del regime talebano. Secondo alcune ricostruzioni, Karzai avrebbe espresso in privato tutte le sue riserve nei confronti degli americani, accusandoli di puntare esclusivamente al dominio del paese e dell’intera regione centro-asiatica. A suo dire, sarebbe proprio Washington ad ostacolare gli sforzi fatti dal suo governo per stipulare accordi di pace con i talebani più disponibili al dialogo. Una strategia mirata a perpetuare il caos in Afghanistan, così da giustificare una permanenza prolungata delle truppe NATO nel paese.

Come non bastasse, Karzai ha lanciato pubblicamente altre pesanti critiche all’Occidente che hanno provocato la durissima reazione della Casa Bianca. Il presidente afgano ha accusato gli USA e l’ONU di voler istituire un governo-fantoccio e per raggiungere tale scopo avrebbero orchestrato diffuse irregolarità nel voto dello scorso agosto, così da impedirgli di conquistare un secondo mandato.

L’ira di Karzai si è concentrata in particolare sull’ex vice capo missione dell’ONU in Afghanistan, il diplomatico americano Peter W. Galbraith, e l’ex generale francese Philippe Morillon, numero uno della missione dell’UE incaricata di supervisionare le operazioni di voto. Se i soldati alleati nel paese, ha aggiunto Karzai, continueranno ad essere percepiti puramente come mercenari al servizio degli interessi delle potenze occidentali, allora il popolo afgano non potrà che considerarli come invasori, trasformando inevitabilmente gli insorti talebani in un “movimento nazionale di resistenza”.

Una prospettiva quest’ultima che appare peraltro già molto vicina alla realtà sul campo, come testimoniano ormai svariati resoconti anche della stampa “mainstream” d’oltreoceano. È stato lo stesso New York Times, ad esempio, qualche giorno fa a rivelare il reale rapporto di forze nel distretto di Marja, nella provincia meridionale di Helmand, obiettivo della più recente offensiva delle forze ISAF. Nonostante i proclami, le forze occidentali qui controllerebbero quasi esclusivamente le proprie basi, mentre i Talebani avrebbero in mano tutte le aree circostanti, mettendo in atto ritorsioni nei confronti di quanti hanno collaborato con gli occupanti stranieri e costringendo alla chiusura molti progetti di ricostruzione frettolosamente avviati.

L’inquietudine mostrata da Karzai e le conseguenti reazioni di Washington rivelano in definitiva la vera natura del conflitto scaturito come risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre. Una guerra mirata ad istallare un governo docile agli interessi americani, indirizzati principalmente al controllo di una regione dalle sconfinate riserve energetiche, minacciate dall’instabilità dei movimenti integralisti islamici e dalla concorrenza di Russia e Cina.

Le accuse lanciate dal presidente afgano ai padroni di Washington riflettono, da un lato, la crescente ostilità della popolazione locale nei confronti di un’occupazione quasi decennale che ha causato migliaia di vittime civili e, dall’altro, rivelano le angosce di un Karzai sempre più isolato a livello internazionale e smanioso di riconquistare una qualche credibilità sul fronte domestico, cercando di resistere alle pressioni esercitate dall’Occidente.

Per l’amministrazione Obama, in ogni caso, il rapporto con Karzai rappresenta un vero e proprio dilemma. Con un secondo mandato da presidente che scadrà tra più di quattro anni, prenderne le distanze in maniera netta significherebbe minare il sostegno alla strategia americana che prevede entro l’estate l’invio in Afghanistan di altri 30 mila soldati. La minaccia di ritirare il contingente alleato per spingere Karzai a più miti propositi, poi, non appare percorribile, poiché la difesa degli interessi americani in Asia centrale deve passare necessariamente attraverso un’occupazione militare dell’Afghanistan.

In una situazione che sembra senza uscita, da qualche ambiente diplomatico inizia allora a trapelare l’ipotesi di una possibile spallata nei confronti del governo di Karzai, con ogni probabilità da mettersi in atto ad opera di quell’Alleanza del Nord che nel 2001 giocò un ruolo chiave nella cacciata dei talebani. Il tutto con la tacita approvazione di Washington, nel solco di una pratica americana ampiamente consolidata nel tempo.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Arriva al potere nelle antiche "Valli del Paradiso" del Kirghizistan asiatico - sull'onda di un’ennesima rivoluzione locale - una donna. Si chiama Roza Isakovna Otunbayeva, ha 59 anni, ed è stata alla testa delle forze di opposizione (quelle nate al tempo della "Rivoluzione dei tulipani", cinque anni fa) dopo aver guidato il ministero degli Esteri ed essere stata un diplomatico di alto rango nella vecchia Unione Sovietica. Eccola ora a gestire una difficilissima transizione nell'intera regione (198.500 Kmq. con una popolazione  di quasi 5,5 milioni) mentre le strade della capitale Bishkek (Frunze, nel periodo sovietico) sono ancora dominate da folle che protestano attaccando i palazzi del potere. C'è ancora in atto una guerriglia urbana con scontri armati e con vittime restate sul campo. Si parla di oltre cento morti e di centinaia di feriti. Tutto questo mentre le forze fedeli al vecchio regime si stanno concentrando nel sud del paese ai confini con la Cina.

Intanto il vecchio presidente Kurmanbek Bakiev - che era stato eletto trionfalmente nel luglio 2005 con la promessa di sradicare la corruzione, di promuovere lo sviluppo economico e di democratizzare il Paese - ha lasciato la sede del governo diretto - con una mossa patetica - verso una destinazione ignota. Una fuga clamorosa per sfuggire alle ire delle folle inferocite che lo accusano di aver sperperato le ricchezze nazionali e di aver organizzato un sistema di potere mafioso e feudale.

La situazione - nonostante gli appelli alla calma del nuovo gruppo che ha preso il potere - rischia di degenerare ancor più. E si ha notizia che le truppe ancora fedeli al vecchio presidente Bakiev hanno aperto il fuoco contro i manifestanti fuori dalla presidenza e anche della sede dei servizi di sicurezza, il Gsnb (l'ex Kgb dell'epoca sovietica). Il paese, dal punto di vista economico, è allo stremo, nonostante gli aiuti ricevuti (a partire dal 2001) soprattutto dagli Usa, interessati al mantenimento di una loro base aerea militare (Manas) fondamentale per le operazioni nel confitto in Afghanistan.

Intanto arrivano da ogni parte del mondo le prime reazioni riferite ai fatti di Bishkek. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, rientrato da poco da un viaggio nelle aree asiatiche del sud, si dice scioccato per le decine di persone uccise nei disordini in corso nel Kirghizistan e fa  appello al dialogo e alla calma per evitare ulteriori spargimenti di sangue. Anche la Casa Bianca manifesta preoccupazione, con il portavoce della sicurezza nazionale, Mike Hammer, che manda a dire: "Seguiamo la situazione da vicino. Siamo preoccupati dalle notizie delle violenze e dei saccheggi e facciamo appello a tutte le parti perché evitino la violenza e esercitino moderazione".

E’ ovvio, in questo contesto, che anche Mosca è in allarme per quanto sta accadendo nella sua pur lontana periferia divenuta ora una polveriera in fiamme. Gli osservatori diplomatici puntano la loro attenzione soprattutto sulle questioni relative al petrolio. Per i russi, infatti, il Kirghizistan non è solo un "laboratorio politico" ma è anche un nodo strategico per quanto riguarda le questioni energetiche. E non c'è solo il petrolio, perché nel bilancio generale delle "ricchezze kirghise" figura anche l'uranio.

E' a Mailj Saj, una piccola città a sud del paese, che esiste una discarica radioattiva abbandonata sin dai tempi sovietici e dove i paesi socialisti dell'epoca depositavano i loro rifiuti. Il bacino che si è creato contiene scorie di piombo, di zinco, di stagno, di mercurio. E soprattutto di uranio anche arricchito. Mosca (che in Kirghizistan ha anche una sua importante base aerea) fa ora notare che tutta questa montagna di scorie potrebbe essere salvata ed utilizzata, impedendo, di conseguenza, che il tutto sprofondi ulteriormente provocando un disastro ecologico di proporzioni gigantesche. Per ora Mosca resta alla finestra attendendo che la situazione kirghisa rientri nella normalità. C'è solo una timida affermazione di Putin fatta nelle ultime ore: "Sembra che Bakiev come già fece Akaiev destituito nel 2005, si stia dando l'accetta sui piedi"…

Ma chi scrive in questo momento dalla capitale russa è obbligato a tornare a rileggere gli appunti e le note analitiche relative al Kirghizistan (che nei tempi sovietici era denominato Kirghisia) contenute nei faldoni del suo archivio. E così ritrova le note dedicate agli incontri con l'amica Roza Otunbayeva. Quando lei viveva a Mosca e la sua casa era un centro di vita sociale e culturale. Era stata portata, in quegli anni, nella capitale dal ministro russo Anatolij Adamiscin e posta alla direzione della filiale sovietica dell'Unesco. E già in quegli anni la "piccola Roza" rivelava le sue capacità politiche e diplomatiche, mantenendo rapporti con il mondo politico e culturale di ogni paese. Nella capitale, nel suo piccolo appartamento nei pressi della "Plosciad Kommuni", si parlava della vita politica della capitale Frunze e della sua carriera diplomatica.

Nata nel 1950 ad Osh si era laureata nel 1972 a Mosca in filosofia. Aveva poi insegnato sempre nella capitale sovietica. E nel 1981 era entrata nel Pcus. Nel 1992, in seguito alla nuova condizione d’indipendenza della sua repubblica, l'allora presidente Askar Akajev l'aveva nominata ministro degli Esteri, posizione che poi lasciò per diventare ambasciatore negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Rientrata in Kirghizistan nel 2004 fondò Ata-Zhurt (Madrepatria), un movimento filo-occidentale che chiedeva una maggiore democratizzazione e un più deciso avvicinamento all'Occidente.

Un anno dopo divenne uno dei protagonisti della “Rivoluzione dei tulipani” che rovesciò il regime del presidente Akajev. Al suo posto arrivò Kurmanbek Bakiev, fuggito ora in seguito alla insurrezione popolare. Con lui Roza divenne ministro degli Esteri nel governo provvisorio, ma non ottenne dal Parlamento la conferma nell'incarico. Dal dicembre 2007 ha poi guidato il Partito Socialdemocratico all'opposizione. Ed ora sembra raccogliere i frutti della sua attività.

di Carlo Benedetti

MOSCA. E' tensione tra Washington e Mosca per le invasioni di campo del Cremlino nel continente americano, ma è primavera sul piano generale in riferimento alla trattativa sulla riduzione delle armi offensive strategiche. La stagione distensiva - dopo un anno di negoziati tra le due parti - è alle porte. La data è l'8 aprile, a Praga, dove il russo Medvedev e l'americano Obama siglano il nuovo trattato Start-2 che riflette l’equilibrio degli interessi di entrambi i Paesi riaffermando, nello stesso tempo, la leadership dell’America e della Russia in favore della sicurezza nucleare e della non proliferazione globale. L'accordo nucleare di Praga - che dovrà essere ratificato dal Senato americano e dalla Duma russa - avrà una durata di dieci anni e potrà essere esteso successivamente per altri cinque anni.

Il nuovo Start prevede la riduzione, che dovrà avvenire entro i prossimi sette anni, delle testate montate su missili strategici a un numero inferiore a 1.550 per Paese. La riduzione prevista è equivalente al 30 per cento degli arsenali attualmente in funzione. I missili, da terra e da sottomarino, così come i bombardieri, saranno ridotti della metà, da 1.600 a 800. Sarà inoltre introdotto un nuovo regime d’ispezioni, in sostituzione di quello scaduto insieme allo Start-1 lo scorso 5 dicembre.

Successo, quindi, per le diplomazie dei due paesi. Pur se la scelta della capitale mitteleuropea per la firma del trattato può essere considerata come una sconfitta tattica di Mosca che aveva proposto per questo scopo Kiev, nell’intento di conferire maggiore autorità al nuovo governo di Viktor Janukovich in Ucraina. A sua volta Obama ha rilevato: “Lo Start è una pietra miliare. Abbiamo fatto un altro passo in avanti oltre il XX secolo; abbiamo garantito un futuro più sicuro per i nostri figli; abbiamo trasformato le parole in azione e abbiamo dimostrato l’importanza della leadership americana in fatto di sicurezza”.

Quanto ai dettagli della trattativa c'è da rilevare che ora, proprio nel momento in cui si avvia il vertice di Praga, si ha notizia che gli ispettori americani non saranno più basati in modo permanente presso l’impianto per la produzione di missili di Votkinsk, come era invece previsto dal precedente trattato, giudicato troppo invasivo da parte russa. E' stato questo uno dei punti più difficili da negoziare insieme alla richiesta di Mosca di inserire nel testo un riferimento alle armi di difesa antimissile (lo scudo spaziale).

Sui lavori di Praga pesa comunque un documento relativo alla nuova strategia nucleare americana per i prossimi cinque-dieci anni che dovrebbe  contenere delle limitazioni alle condizioni di impiego delle armi nucleari. Lo scrive il New York Times che alla vigilia della pubblicazione della “Nuclear Posture Review”, ha intervistato Obama nello studio Ovale della Casa Bianca. Assicurando di voler "mantenere tutti gli strumenti necessari per garantire che il popolo americano sia salvo e sicuro", Obama ha detto che rappresenteranno un'eccezione per le nuove strategie Usa "gli stati fuori norma come l'Iran o la Corea del Nord" che hanno violato o rinunciato al Tnp, il trattato di non proliferazione nucleare. Per la prima volta, sottolinea il quotidiano, gli Stati Uniti si impegnano esplicitamente a non usare armi nucleari contro paesi che non ne possiedono e che rispettano il Tnp, anche se attaccano gli Usa con armi biologiche o chimiche o lanciano dannosi cyberattacchi.

La presentazione della “Nuclear Posture Review” apre ora giorni intensi di "diplomazia nucleare" tesa a ridurre gli armamenti. Se tutto andrà come previsto, il nuovo patto anticiperà la conferenza sulla sicurezza nucleare, in programma a livello di capi di stato e di governo (Usa e Russia ovviamente compresi) a Washington il 12 e il 13 aprile. All'incontro sarà presente anche il primo ministro indiano Manmohan Sing, che porterà al tavolo della conferenza le "preoccupazioni" di Delhi relative alla possibile acquisizione di ordigni nucleari e del relativo materiale da parte di gruppi terroristici. Dal 2002, infatti, l'India sta pilotando una risoluzione delle Nazioni Unite per impedire ai terroristi di acquisire armi di distruzione di massa. Ora la parola passa al vertice di Washington il cui risultato è stato già negoziato nel corso degli ultimi sei mesi da "sherpa" provenienti da 44 paesi e rappresentanti dell'Unione europea e dell'AIEA. Inizia, forse, un periodo di meditata collaborazione alla ricerca di nuovi equilibri a livello mondiale.


 

di Luca Mazzucato

New York. Sullo schermo in bianco e nero si vedono i colpi sparati dall'elicottero che colpiscono ripetutamente un gruppo di persone sul marciapiede e dentro un furgoncino. Non è la playstation ma il video di una strage di civili compiuta dall'esercito americano a Baghdad, che una talpa ha fatto trapelare dall'archivio della CIA sul sito Wikileaks.org. Nella traccia audio si sentono i commenti dei soldati americani che pregano il proprio comandante di lasciarli sparare e poi si congratulano per la carneficina compiuta.

Il filmato di un quarto d'ora è stato filmato a bordo di un l'elicottero Apache dell'esercito americano, impegnato in una missione in un quartiere densamente popolato di Baghdad. Siamo nel 2007, nel pieno dell'escalation americana fortemente voluta da David Petraeus. I soldati scambiano per una cellula di militanti un gruppo di persone ferme di fronte al cancello di un'abitazione. La macchina fotografica del giornalista della Reuters viene scambiata per un lanciarazzi anticarro e i soldati chiedono subito l'autorizzazione a sparare. Entro pochi secondi, le raffiche dall'elicottero fanno terra bruciata.

Nel sorvolo successivo, un solo uomo gravemente ferito cerca di rialzarsi con estrema lentezza, mentre nell'audio i soldati americani fanno gli scongiuri sperando che il moribondo abbia un oggetto in mano. Che giustificherebbe una seconda raffica per finire il militante armato. Ma proprio in quel momento il colpo di scena, un furgoncino compare sulla scena. Si ferma sul luogo della strage, davanti al cancello divelto in mezzo ai corpi squartati.

I soldati sull'elicottero, fremendo con il dito sul grilletto, non hanno dubbi che si tratti di terroristi venuta a recuperare i feriti e, soprattutto, le armi. Mentre il conducente si carica in spalla l'unico sopravvissuto per farlo salire sul retro del furgone, i soldati nell'audio scalpitano in attesa di ottenere l'autorizzazione all'attacco, che arriva puntuale. Una nuova raffica si abbatte sull'obiettivo, crivellando la fiancata del furgone e scaraventandolo in aria per la forza dell'impatto.

Pochi minuti dopo arrivano i rinforzi al suolo, un carroarmato e numerosi soldati americani. Si sentono i soldati ridere in coro quando un carroarmato sopraggiunto fa scempio dei cadaveri. E quando i soldati al suolo comunicano che due bambini sono stati feriti gravemente all'interno del furgone, chi ha sparato commenta allegramente che “è colpa loro se portano i figli alla battaglia.”

Presto viene infatti scoperta l'atroce verità. Il primo gruppo di persone era composto dal giornalista Reuters e dal suo autista (Namir Noor-Eldeen e Saeed Chmagh) e da alcuni residenti. Tutti morti. Alla guida del furgoncino che arriva dopo la prima strage si trova un buon samaritano, un padre di famiglia che, passando di lì per caso, si è fermato per soccorrere i feriti. Mentre porta i figli piccoli a scuola. Restano gravemente mutilati nell'attacco americano anche i due figli, seduti sul sedile di fianco al conducente e chiaramente visibili nel video dall'elicottero.

Il Pentagono afferma subito di aver colpito una cellula di terroristi. Uno degli uomini abbattuti aveva in mano una pistola, ma questa è la norma, anzichenò, nel centro di Baghdad. L'agenzia Reuters chiede subito di visionare una copia del video, visto che due degli uomini uccisi sono un fotografo dell'agenzia e il suo autista, ma il Pentagono nega risolutamente e il caso rimane una delle tanti stragi di civili innocenti che non verrà investigata.

Fino all'altro ieri, quando il video delle undici vittime compare sul sito Wikileaks.org e in poche ore entra nel giro delle news. Il sito americano è specializzato nella pubblicazione documenti segreti che possono arrecare danno ai cosiddetti “poteri forti.” L'editore del sito invita gli utenti a far trapelare informazioni coperte da segreto per rendere luce su comportamenti scorretti da parte del governo o di grosse corporations. Ad esempio, Wikileaks ha pubblicato recentemente un documento top secret della CIA, in cui l'agenzia descrive il sito stesso come un pericolo per la sicurezza nazionale ed elabora una strategia in grado di neutralizzarlo. Agenti della CIA avrebbero dovuto localizzare almeno una delle fonti del sito e in gergo “bruciarla,” ovvero rendere pubblico il suo nome ed esporla alle ritorsioni dei proprietari del documento. Come ha insegnato a fare Dick Cheney con l'affare Valery Plame. Ma in due anni questo gioco non è mai riuscito e alla CIA è stata servita una vendetta esemplare con la pubblicazione del piano non riuscito.

Uno degli aspetti più interessanti del video trapelato è la traccia audio, che ci testimonia la totale noncuranza dei soldati sull'elicottero nei confronti di chiunque compaia sul loro obiettivo. L'unico scopo è portare a casa il “punteggio pieno” nel videogame. Ma questo ricorda la pubblicità martellante dell'esercito sulle tv americane, alla disperata ricerca di nuove reclute. Lo spot, praticamente indistinguibile da quelli della concorrenza Nintendo o Sony, non è che un susseguirsi di schermate in computer graphics, in cui i valorosi soldati americani difendono i propri commilitoni sotto attacco in una terra inospitale. Per dirla con le parole del generale Stanley McChrystal, comandante in capo della missione in Afghanistan, riguardo alle vittime civili ai checkpoint: “Abbiamo sparato ad un numero incredibile di persone, ma... nessuno è mai risultato essere una minaccia.”

di Alessandro Iacuelli

E' tempo di grandi manovre nel Sud-Est asiatico, per l'amministrazione Obama. Soprattutto perchè la Corea del Nord, durante i due mandati del suo indimenticabile predecessore George W. Bush, è stata inclusa nell'elenco dei cosiddetti "stati canaglia", quindi tra i nuovi nemici. E proprio la Corea del Nord nei giorni scorsi ha annunciato alcune operazioni nel campo nucleare che non potevano non destare preoccupazione negli ambienti degli analisti di politica estera americani. Tanto per cominciare, dopo aver affermato l'anno scorso di voler arricchire dell'uranio per alimentare una centrale nucleare, in questi giorni l'agenzia di stampa di Stato di Pyongyang ha reso noto che "la Corea del Nord è tecnologicamente pronta per disporre di un reattore nucleare ad acqua leggera nel prossimo futuro".

Sembra una storia già vista. Arricchimento dell'uranio e messa a punto delle tecnologie per costruire un reattore assomigliano fin troppo al copione già visto in Iran negli ultimi anni. Secondo l'agenzia di Stato, il nuovo reattore dovrebbe essere operativo entro il 2020, senza tuttavia fornire alcuna data certa. La notizia giunge nel momento in cui i sei Paesi coinvolti nei negoziati multilaterali sul dossier nucleare nordcoreano stanno cercando di convincere Pyongyang a tornare al tavolo delle trattative. Soprattutto dopo che la Corea del Nord ha messo a punto una serie di missili dotati di una gittata tale da poter colpire sia la Corea del Sud sia il Giappone.

Se l'amministrazione Bush reagì al caso Iran con un pugno di ferro, costringendo Teheran a trattare presso l'AIEA (anche se senza mai rinunciare all'intenzione di realizzare impianti nucleari), il governo guidato da Barak Obama mostra una strategia completamente diversa, che potrebbe essere definita "di accerchiamento": nessuna pressione sotto la minaccia di sanzioni o di improbabili azioni militari, ma una serie di accordi con tutti o quasi i Paesi della regione asiatica, per "aiutarli" ad arrivare allo sviluppo di tecnologie nucleari prima dell'avversario. Una forma appena leggermente diversa di corsa agli armamenti e di deterrenza, che ricorda abbastanza da vicino l'epoca della guerra fredda. Una sfida diplomatica, volta a isolare e circondare la Corea del Nord.

Il primo passo è stato l'impegno per aiutare la Corea del Sud a sviluppare un nuovo software per la sicurezza delle proprie centrali nucleari. Impegno già ultimato con il raggiungimento pieno dell'obiettivo. L’ha annunciato il Korea Atomic Energy Research Institute, a capo della cordata di enti di ricerca che hanno ideato il programma. Secondo il comunicato, riportato dalle agenzie coreane, il software è stato progettato per predire tutte le fasi del ciclo di operazioni di controllo e manutenzione, che dura 18 mesi, di una centrale. Il sistema può osservare, in pratica calcolare in anticipo, come i neutroni nel reattore reagiranno e si comporteranno; per dirla in parole molto povere, durante la generazione di energia a ciclo continuo, ma può anche calcolare l'esatto posizionamento delle barre di combustibile all'interno del nucleo. "Questo software", si legge nel comunicato, "è l'emblema del nostro livello tecnologico nel campo della prosuzione nucleare".

Contemporaneamente, Stati Uniti e Vietnam hanno firmato un accordo che potrebbe aprire la strada alla cooperazione fra i due Paesi per il nucleare civile: l’hanno reso noto fonti diplomatiche americane. L'intesa riguarda la sicurezza nucleare e la non proliferazione e costituisce un prerequisito per la partecipazione ai progetti nucleari di Hanoi di imprese statunitensi. Il premier vietnamita, Nguyen Tan Dung, parteciperà alla conferenza sulla sicurezza nucleare fissata il mese prossimo a Washington. In pratica, l'accordo permette alle compagnie statunitensi di costruire centrali nel paese del Sud-Est asiatico, aprendo la strada a veri e propri accordi commerciali per le aziende americane in crisi.

Secondo il governo vietnamita la domanda di energia del Paese crescerà del 16 per cento all'anno fino al 2015. Il paese ha già accordi come quello siglato con gli Usa anche con diversi altri paesi, fra cui Cina, Argentina e Corea del Sud. Non solo: il Vietnam ha già in programma la costruzione di due centrali. Una delle due è già stata aggiudicata alla RUssia, per l'altra deve ancora essere fatto il bando di gara.

Per finire, gli Stati Uniti hanno raggiunto un accordo con l'India per il ritiro delle scorie nucleari derivanti da impianti nucleari civili. L’ha reso noto il Dipartimento di Stato USA. L'accordo, che è uno degli elementi essenziali dell'intesa sul nucleare firmata tra Usa e India nel 2008, prevede che l'India, dopo l'utilizzo del combustibile fornito dagli Stati Uniti, proceda al ritiro delle scorie. Anche in questo caso, verrà facilitata la partecipazione delle società Usa dell'energia nucleare civile ai progetti in India. Tutti Paesi emergenti di quella parte di Asia che scalpita alle porte dell'economia globale, e contemporaneamente, che non vedono l'ora di occidentalizzarsi. E, soprattutto, avversari storici della Corea del Nord e del suo regime.


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