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di Emanuela Pessina
Berlino. Un informatore misterioso ha messo a disposizione del Governo tedesco i nomi di 1500 grandi evasori fiscali: i dati, in realtà molto confidenziali, sono stati rubati agli istituti bancari svizzeri presso cui i “poveretti” in questione avrebbero depositato grosse quantità di denaro non dichiarato. Per questi nomi, l’informatore Mister X chiede 2,5 milioni di Euro e il Governo tedesco si è dichiarato disposto a pagarli. Contro l’evasione fiscale, l’imparziale Germania sembra veramente pronta a tutto: anche a mettere a repentaglio i rapporti con l’ex paradiso fiscale della vicina Svizzera.
L’informatore misterioso del Fiskus federale ha già dimostrato al governo di Angela Merkel di possedere materiale di straordinario interesse: a prova dell’attendibilità delle notizie in suo possesso, Mister X ha già svelato cinque dei nomi contenuti nel cd. Secondo quanto riporta il quotidiano berlinese Tagesspiegel, un’ispezione successiva ha rivelato, per ognuno dei nomi svelati, un debito fiscale di circa un milione di euro.
ll Ministro federale delle Finanze Wolfgang Schaeuble, da parte sua, ha autorizzato l'acquisto del discusso cd, spiegando che “non c’è alternativa”. Un caso simile, infatti, è già avvenuto nel 2008, quando le autorità tedesche si sono procurate, attraverso un’azione di “spionaggio fiscale”, un dvd con i dati di un migliaio di evasori tedeschi che avevano i loro conti nel piccolo Principato del Liechtenstein. Nei 200 processi che hanno seguito lo scandalo, ha ricordato Schaeuble, nessuna corte ha rifiutato di utilizzare i dati “spiati” come prova, legalizzandone così la portata.
La questione, tuttavia, non è piaciuta per niente alla Svizzera, che si è detta indignata e delusa dalla scelta del Governo tedesco. Le banche e i politici della Confederazione hanno accusato Berlino di macchiarsi di ricettazione e hanno rifiutato di offrire il loro appoggio ufficiale: appropriarsi di dati rubati è reato, indipendentemente dal fine e dall’uso che se ne voglia fare, e - in questo caso - viola la privacy dei clienti delle elitarie banche svizzere. “Nessuno Stato di diritto può intraprendere la strada della ricettazione”, ha detto a questo proposito il presidente del Partito liberale radicale svizzero (FDP) e consigliere nazionale Fulvio Pelli al maggiore quotidiano svizzero Blick, sottolineando la propria disapprovazione.
Come avverrà concretamente la compravendita dei dati trafugati non è ancora chiaro. Si sa che i dati sono stati offerti a un finanziere di Wuppertal (Ovest della Germania), altrettanto misterioso, e che il “riscatto” di 2,5 milioni di euro verrà pagato dal Governo federale insieme alle singole Land federali cui appartengono gli evasori. Uno Stato democratico, tuttavia, non si può permettere di oltrepassare neppure di un passo l’ambiguo confine tra legale e illegale: e l’acquisto di dati ottenuti illegalmente, benché riguardanti evasori fiscali, può risultare abbastanza controverso.
Anche se, in realtà, la proposta indecente del misterioso informatore non dovrebbe risultare così problematica: teoricamente, infatti, non ci sono più paradisi fiscali, e la Svizzera, in particolare, ha regolarizzato la sua posizione di recente.Nella primavera scorsa, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) aveva inserito la Svizzera nella "lista grigia" dei paradisi fiscali, provocando l’indignazione del presidente della Confederazione e ministro delle FinanzeHans-Rudolf Merz.
La situazione si è risolta a settembre, quando Berna ha firmato la dodicesima convenzione con un Paese (il Quatar) garantendo a quest’ultimo la cooperazione in materia fiscale.In questo modo, la Svizzera ha rispettato le esigenze del G20 e si è garantita l’irreprensibilità dal punto di vista fiscale. La Confederazione e la Germania, tra l’altro, sono attualmente in trattativa per un accordo bilaterale sulla doppia imposizione e, quindi, per una collaborazione fiscale.
Se è rimasto qualche scheletro nell’armadio, è ora tutto da vedere. Secondo il quotidiano Sueddeutsche Zeitung, la banca interessata è la Credit Suisse (CS), che però, da parte sua, smentisce categoricamente ogni fuga di notizie riservate. Certo è che i telefoni dei consulenti delle banche svizzere suonano in questi giorni all’impazzata: i grossi clienti tedeschi si preoccupano. E, intanto, il ministro Schaeuble, con un sorriso perverso, invita i presunti evasori ad autodenunciarsi. Meglio pagare in ritardo che pagare in ritardo con multa, avverte il Ministro. La guerra dei nervi è cominciata.
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di Elena Ferrara
Dagli Usa la Casa Bianca annuncia che il presidente Barack Obama incontrerà il 16 febbraio, negli Usa, il Dalai Lama: e subito - e non è che l’inizio - esplode la tensione tra Washington e Pechino. Hu Jintao lancia un monito: “Il nostro governo è risolutamente contrario a qualsiasi contatto tra il presidente degli Stati Uniti e il Dalai Lama con qualsiasi pretesto e in qualsiasi forma". E mentre i canali diplomatici entrano in fibrillazione, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Ma Zhaoxu - dalle colonne del China daily - ricorda che nell'incontro con Obama del novembre scorso Hu aveva ribadito "la rigida posizione della Cina contraria a qualsiasi incontro di esponenti e funzionari del Governo" con il leader tibetano.
"Esortiamo ora gli Stati Uniti - sottolinea il portavoce cinese - a comprendere in pieno la gravità della questione tibetana e ad affrontare in modo prudente e appropriato ciò che ne consegue, evitando di arrecare ulteriori danni alle relazioni sino-americane". Il riferimento è all'annunciata vendita di armamenti statunitensi a Taiwan e alla polemica su Google e la censura su Internet che ha già portato Washington e Pechino ai ferri corti.
La situazione generale dei rapporti - come scrive il Time Asia - resta quindi bloccata. E a dare man forte al presidente cinese arrivano anche i massimi organismi del partito comunista. Prese di posizione e “minacce” che assumono il carattere di una vera campagna antiamericana. Zhu Weiqun, responsabile del partito per le etnie e gli affari religiosi ribadisce, in una conferenza stampa, che il governo del paese si opporrà con forza a un eventuale incontro tra Obama e il Dalai Lama e sostiene che "i rapporti tra il Governo centrale e il Dalai Lama sono una questione interna alla Cina. Ci opponiamo - dichiara - a qualsiasi tentativo di una forza straniera di interferire con le questioni interne cinesi usando come pretesto" il leader tibetano.
Dall’America così risponde il portavoce della Casa Bianca: "Il Dalai Lama è un leader culturale e religioso rispettato in tutto il mondo e il presidente Obama si incontrerà con lui in questa veste e dev'essere chiaro che noi, pur considerando il Tibet parte della Cina, abbiamo serie preoccupazioni nel campo dei diritti umani sul trattamento riservato ai tibetani. Sollecitiamo, di conseguenza, il Governo cinese a proteggere le tradizioni religiose e culturali del Tibet. Riteniamo le nostre relazioni con la Cina abbastanza mature per cercare di lavorare insieme sulle questioni di interesse comune, come il clima, l'economia globale, la non-proliferazione, affrontando nello stesso tempo in modo franco i problemi dove non siamo d'accordo".
Parole e dichiarazioni a parte, il fatto è che ormai tutte le carte sono sul tavolo e i due giocatori non si risparmiano colpi. Sul tavolo delle contestazioni c’è ora anche l’inequità degli scambi con Pechino e la svalutazione artificiale della moneta cinese. “L’atteggiamento che dobbiamo adottare verso la Cina è di cercare di essere più decisi sul rispetto delle regole già esistenti”, dichiara il presidente ai deputati democratici a Washington. Obama - fa notare - ha aggiunto che gli squilibri nei tassi di cambio della valuta cinese “gonfiano in modo artificiale il prezzo dei nostri prodotti e abbassano in modo artificiale quello dei loro prodotti”. Ed è questa tutta benzina sul fuoco delle polemiche.
Intanto si accentuano i dissidi sugli scambi e sulle relazioni militari. Pechino risponde così alla decisione di Washington di vendere armamenti a Taiwan (per 6,4 miliardi di dollari) imponendo sanzioni alle aziende americane che riforniranno di armi l'isola. La decisione viene illustrata dal portavoce del ministero della Difesa di Pechino, Huang Xueping, il quale sottolinea che i passi di Washington, "oltre a violare i tre comunicati congiunti tra Cina e Stati Uniti, in particolare quello del 17 agosto del 1982 con cui Washington si impegnava a ridurre gradualmente la sua vendita di armi a Taiwan, sono in contrasto anche con i principi della dichiarazione congiunta" emessa durante la visita in Cina del presidente americano Barack Obama nel novembre scorso.
"La decisione degli Stati Uniti - attacca il portavoce - mette seriamente a rischio la sicurezza nazionale cinese e danneggia gli interessi vitali della Cina. Il piano americano creerà seri problemi alle relazioni tra i due Paesi e tra le loro Forze armate e danneggerà la situazione generale della cooperazione tra Stati Uniti e Cina, la pace e la stabilità negli Stretti di Taiwan". Pechino, quindi, ribadendo la gravità della situazione non manca di far rilevare l’entità degli “aiuti” americani a Taiwan. E rende noto che sulla base delle indicazioni date dalla Defense security cooperation agency del Pentagono - il pacchetto riguarda la vendita di 60 elicotteri Black Hawk UH-60 (del valore di 3,1 miliardi di dollari), di 114 missili intercettatori Patriot a capacità avanzata PAC-3 (2,81 miliardi), equipaggiamento per le comunicazioni dei cacciabombardieri F-16 di Tapei (340 milioni), due cacciamine classe Osprey (105 milioni) e 12 missili antinave Harpoon (37 milioni). E così anche il viaggio del Dalai Lama diviene merce di scambio sul piano delle relazioni intergovernative tra Pechino E Washington.
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di Carlo Benedetti
Mosca. In Ucraina il 7 febbraio si va al ballottagio per eleggere il nuovo presidente: si dovrà scegliere tra Viktor Janukovic (che nel primo turno del 18 gennaio ha toccato il 35% dei voti) e Julija Timoshenko (che si è attestata sul 25%). La situazione non è facile per nessuno dei due. Il pericolo maggiore è che si resti racchiusi nel ghetto di un passato segnato da quella “rivoluzione arancione” sponsorizzata dagli americani e da un personaggio come il megaspeculatore George Soros, che cerca di imporre le sue scelte - finanziarie ed ideologiche - sui territori dell’ex Unione Sovietica alimentando soprattutto uno scontro tra Kiev e Mosca.
Le due figure in ballo in questo ballottaggio, comunque, non vanno considerate come comparse nelle mani di burattinai che risiedono a Mosca o negli Usa. Janukovic ha un suo volto ben preciso. Si presenta come uomo forte, scattante e aggressivo. Vuole mantenere il Paese nel campo della completa autonomia - politica, economica e militare - senza nessuna concessione a quell’antirussismo che in Ucraina ha preso il posto dell’antisovietismo. E per portare avanti questa linea spinge l’acceleratore verso il futuro, senza però tagliare i ponti con la vecchia e forte struttura “sovietica” dell’intero Paese. E così le sue riserve si trovano in quelle fortezze operaie che confinano con la Russia.
Sul fronte opposto c’è la signora Timoshenko, una nazionalista “antirussa” quanto ad ideologia, ma “occidentalista” per quanto concerne l’economia. E’ impegnata nel mondo degli affari del gas e, quindi, legata a quelle oligarchie che, rivendicando il pieno controllo delle industrie, vorrebbero gestire le relazioni con l’ovest operando per costituire un loro vero e proprio governo parallelo capace di realizzare mostruose speculazioni.
Ed ecco che mentre a Kiev, nei corridoi del potere, si sente il rullo compressore d’un passato che non si da per vinto, avanzano le quotazioni di una terza forza che è però fuori dalle urne del prossimo ballottaggio. Ci riferiamo a Serghej Tighipko, che esprime interessi economici e sociali nonchè correnti di opinione. Si presenta sulla scena con un forte potere personale, ma con marcati tratti dispotici sino ad essere soprannominato un “Putin ucraino” carico di ambizioni. Saranno ora gli elettori a stabilire da che parte dovrà rivolgersi l’ago della bilancia politica.
Sin qui l’avventura ucraina, segnata da opzioni eminentemente politiche che, nell’area geografica del post-sovietismo, vengono interpretate e guardate con occhi particolari. Perchè è la prima volta che dal crollo dell’Urss, in un paese coinvolto nella dissoluzione del sistema, nascono vere alternative politiche. Nessuna processione degli sconfitti, nessuna sfida all’ultimo sangue. Anzi: c’è stata e c’è una corsa verso il consolidamento di progetti riformisti e verso la creazione di una “società civile”. Perchè nell’Ucraina di oggi, ad esempio, i partiti esistono e si fanno sentire. Muovono le piazze e si caratterizzano con precisi interventi a livello parlamentare. Editano giornali ed intervengono regolarmente nelle tribune televisive.
Non c’è - tanto per dirla tutta - quel peso del potere centrale che si sente a Mosca, dove il Cremlino dei due (Putin e Medvedev) detta l’ordine del giorno proibendo le diverse manifestazioni e le varie pulsioni. In Ucraina, tutto sommato, le travolgenti manifestazioni della “rivoluzione arancione” e gli scontri tra l’ala orientale e quella occidentale (Kharkov e Lvov tanto per fare i nomi delle città simbolo) non hanno bloccato il processo pluralista. E la situazione di questo momento sta a dimostrare che si è raggiunto un punto di non ritorno. Spetterà ora al nuovo voto stabilire i passi futuri del Paese.
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di Michele Paris
La gara di solidarietà scatenatasi tra le potenze mondiali all’indomani del rovinoso terremoto del 12 gennaio scorso ad Haiti, a stento nasconde una feroce competizione con in palio il controllo di un’area della terra ricca di risorse energetiche e minerarie. Lo spiegamento di 20 mila soldati americani e il controllo esercitato dagli USA sulle operazioni di soccorso, non è che la logica conseguenza dell’abituale interventismo di Washington nei confronti del paese più povero di tutta l’America Latina e prefigura un’occupazione che potrebbe presto procedere di pari passo con lo sfruttamento del petrolio caraibico.
L’anno successivo alla deposizione del presidente haitiano democraticamente eletto, Jean-Bertrand Aristide, orchestrata dall’amministrazione Bush nel 2004, l’Istituto di Geofisica dell’Università del Texas diede il via ad un ambizioso progetto per giungere ad una mappatura geologica del bacino caraibico. Da ultimarsi entro il 2011, la ricerca ha beneficiato dei generosi finanziamenti di alcune delle maggiori multinazionali petrolifere, tra cui Chevron, ExxonMobil e Shell. L’obiettivo principale dello studio non è altro che quello di stabilire una connessione tra la conformazione geologica dei Caraibi e la possibile presenza di idrocarburi in quantità consistenti.
Come descrive esaustivamente il giornalista e ricercatore tedesco-americano F. William Engdahl sul sito globalresearch.ca, il progetto dei geologi americani si baserebbe su una teoria che identifica le aree terrestri sismicamente più attive come quelle potenzialmente più ricche di petrolio e gas naturale. Ciò deriverebbe dall’intersezione delle placche tettoniche terrestri, il cui movimento è appunto all’origine dei terremoti. Le aree dove convergono diverse placche potrebbero essere caratterizzate, infatti, da movimenti verso la superficie di grandi quantità di petrolio o gas provenienti dal mantello terrestre.
Tale teoria - detta dell’origine abiotica del petrolio - è ancora poco diffusa nella comunità scientifica e sostiene che gli idrocarburi si formino in seguito a processi non biologici che avvengono proprio in profondità nel mantello terrestre. Il petrolio, perciò, non sarebbe un combustibile fossile prodotto da materia organica rimasta sepolta in assenza di ossigeno per milioni di anni (teoria biogenica). Di conseguenza, esso non sarebbe più da considerare una risorsa limitata, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero sul piano geopolitico e dei rapporti tra le potenze mondiali e i paesi produttori.
Haiti, e l’intera isola di Hispaniola che condivide con la Repubblica Dominicana, si trova precisamente all’incrocio delle placche tettoniche nordamericana, sudamericana e caraibica. Una zona dalla conformazione simile ad altre estremamente ricche di riserve petrolifere, come quella che in Medio Oriente va dal Mar Rosso al Golfo di Aden, oppure al largo delle coste della California. Tutto ciò, assieme a resoconti diffusi negli ultimi tre decenni dagli organi di stampa e dai vertici politici haitiani circa la presenza sull’isola di giacimenti inesplorati, sta contribuendo ad inasprire le rivalità tra i tre paesi che più si sono dati da fare nelle operazioni di soccorso: USA, Francia e Canada.
Poco meno di due anni fa, un giornalista haitiano aveva fatto riferimento in un suo articolo ad una importante nota informativa diramata nell’estate del 1979 da un funzionario governativo. In questo documento si citava il sondaggio di cinque pozzi di grandi dimensioni, da cui erano stati estratti dei campioni. Questi ultimi erano poi stati inviati presso un laboratorio di Monaco di Baviera che aveva confermato la presenza di tracce di petrolio. Nello stesso anno era stato inoltre condotto uno studio geologico in alcune aree dell’isola che aveva individuato undici pozzi ritenuti adatti ad un’esplorazione immediata.
Nonostante i risultati promettenti, i potenziali giacimenti di Haiti rimasero inesplorati e non attirarono l’attenzione delle compagnie petrolifere. Le speculazioni sarebbero riprese a circolare all’alba del nuovo secolo. Nel marzo del 2004, a pochi mesi dall’inizio del progetto dell’Università del Texas e subito dopo la rimozione di Aristide, in un altro giornale locale lo scrittore haitiano Georges Michel ricordava come al di sotto delle acque al largo di Hispaniola fossero presenti riserve di idrocarburi ancora intatte e come ciò fosse noto da quasi un secolo.
Recentemente poi, il Direttore del Dipartimento minerario del paese, Dieseul Anglade, ha segnalato la necessità di ampliare ed approfondire le ricerche che confermino la presenza di giacimenti petroliferi. Anglade ha rivelato alla stampa che le 11 perforazioni realizzate dalle compagnie straniere hanno permesso di scoprire “indizi importanti di depositi consistenti di idrocarburi”. Le perforazioni sono state effettuate da tre compagnie europee nelle zone di Plaine du cul-de-Sac, Artibonite, Plateau Central e nel golfo di Gonave. Diversi ricercatori francesi si sono detti certi dell’esistenza zinco e uranio 238 e 235, gli stessi che utilizzano i reattori nucleari per generare energia.
L’interesse crescente per il petrolio di Haiti fu ribadito successivamente in una intervista dell’estate del 2008 al direttore del Dipartimento dell’Energia, il quale rivelava la richiesta pervenuta al governo di concessioni per condurre esplorazioni sotterranee alla ricerca di petrolio da parte di quattro compagnie estere. A confermare gli appetiti nei confronti dei Haiti, soprattutto dopo il terremoto, c’è anche una dichiarazione rilasciata dal responsabile delle esplorazioni per la compagnia texana Zion Oil & Gas Inc., Stephen Pierce, a Bloomberg News lo scorso 26 gennaio, nella quale viene ipotizzato come il sisma avrebbe provocato la risalita del petrolio verso la superficie.
Quella che, secondo l’ex numero uno dell’ente per le raffinazioni dominicano (REFIDOMSA), equivale a una “cospirazione illegale per impossessarsi delle risorse del popolo di Haiti” appare dunque iniziata. La priorità di Haiti e delle ricchezze del sottosuolo caraibico per Washington, nonostante gli impegni già gravosi in altre aree del globo, è testimoniata non solo dall’invio di un foltissimo contingente militare, ma anche dall’impegno assunto in prima persona dagli ex presidenti Bill Clinton e George W. Bush.
Proprio il predecessore di Obama alla Casa Bianca aveva appoggiato la cacciata di un presidente, Aristide, appunto, che aveva tra l’altro prospettato chiaramente un piano d’investimenti in ambito petrolifero basato su capitali pubblici e privati, i cui proventi sarebbero andati in buona parte a beneficio dell’economia dell’isola. Dall’esilio di Aristide, Haiti è diventata invece un paese praticamente occupato, patrocinato dal cosiddetto inviato speciale dell’ONU Bill Clinton, assoggettato ai dettami del Fondo Monetario Internazionale e ora in fase di spartizione tra gli interessi americani, francesi e canadesi.
Il controllo di Haiti è diventato, d’altra parte, sempre più importante per gli Stati Uniti dopo la recente scoperta di un giacimento di petrolio molto consistente al largo di Cuba e alla luce dei progressi fatti segnare in America Latina da Russia e Cina. L’Avana ha infatti siglato un accordo di sfruttamento del nuovo pozzo sotterraneo con la spagnola Repsol, mentre nel corso di un viaggio in Sudamerica nel 2008, Medvedev si era assicurato la possibilità di accedere al nickel e al petrolio cubani. Allo stesso modo, nel novembre dello stesso anno, per la prima volta la Cina aveva annunciato ufficialmente la propria politica nei confronti dell’America Latina e dei paesi caraibici, gettando le basi per futuri accordi bilaterali e cooperazioni economiche.
Dietro la facciata umanitaria dell’intervento americano ad Haiti, insomma, sembra nascondersi ancora una volta il tentativo da parte di Washington di riaffermare il primato dei propri interessi strategici ed economici in un’area del pianeta in grande fermento. Non proprio un "nuovo corso".
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di Eugenio Roscini Vitali
Mentre Washington vende 6,4 miliardi di dollari di armi a Taipei e il direttore della CIA, Leon Panetta, vola in Medio Oriente per portare a termine una doppia missione “segreta” in Egitto e Israele ed organizzare un eventuale intervento militare americano nello Yemen, Mosca e Tripoli si preparano a trattare un affare da due miliardi di dollari. Si tratta di una vendita di armamenti che equivale, in pratica, a 10 dei 25 anni di risarcimento che l’Italia deve alla Libia, almeno secondo quanto stabilito dall'accordo di “Amicizia, partenariato e cooperazione” sottoscritto il 30 agosto 2008 a Bengasi da Berlusconi e Gheddafi.
La notizia, diffusa dal sito israeliano Debka, parla dell’acquisto di quanto di meglio possa offrire oggi l’industria bellica russa nel campo della difesa aerea: i sistemi missilistici terra aria di ultima generazione S-300 PMU-2 Favorit (SA-20B), sono gli stessi che il Cremlino deve consegnare all’Iran e che sono al centro di una difficile contesa diplomatica con Washington e Gerusalemme. Il contratto, stipulato nei giorni scorsi a Mosca durante un incontro tra il premier Vladimir Putin e il Generale Abu Bakr Younis Jaber, rappresentate libico del Comitato provvisorio per la Difesa, prevede la consegna entro la fine del 2010 di otto batterie missilistiche S-300 PMU-2 Favorit, 15 caccia multiruolo Sukhoi Su-35, 8 caccia bombardieri Sukhoi Su-30 MK2, 50 carri armati T-90 e l’aggiornamento dei 145 T-72 libici ancora in servizio.
La Libia sta uscendo da un lungo periodo d’isolamento e da anni di sanzioni che non sembrano però aver indebolito la sua economia e il suo desiderio di tornare a giocare un ruolo importante, non solo in Africa, ma anche nei rapporti tra Medio Oriente ed Occidente. Con Gheddafi al potere da quarant’anni, il rischio politico è praticamente inesistente; nell’ultimo quinquennio il Paese ha rafforzato i rapporti politici ed economici sia con i con gli Stati Uniti che con i principali paesi europei, in primis l’Italia, che dal 2008 è nuovamente il principale partner dello sviluppo infrastrutturale, sociale e culturale della Jiamahiria Libica.
Un processo di apertura internazionale che, anziché portare alla luce le numerose violazioni contro i diritti umani (denunciate tra l’altro dalle più rappresentative organizzazioni umanitarie) ha raccolto i vantaggi dovuti dall’abolizione delle sanzioni sul settore petrolifero. Nell’arco di pochi anni l’esportazione di greggio e gas naturale ha conosciuto una rapida espansione: basti pensare che nel 2000 il suo contributo alla formazione del PIL rappresentava il 39% contro il 68% del 2007, anno nel quale ha costituito il 98% delle esportazioni e il 90% delle entrate governative.
Sviluppato tra il 1995 e il 1997dalla Almaz Central Design Bureau, industria della difesa che ha disegnato gran parte dei missili russi, l’S-300 PMU-2 è stato concepito per competere con sistemi anti-balistici quali l’S300V (SA-12 Gladiator/Giant), costruito dall’Antey, altra importante industria bellica russa, e il Patriot PAC-2/3, prodotto dall’americana Raytheon. Il sistema modulare Favorit comprende una posto comando 83M6E2, che include un centro di comando e controllo 54K6E2 e un radar 64H62E di sorveglianza e ricerca; un radar 30H6E2 di illuminazione dell’obbiettivo e controllo di fuoco, un sistema di allarme e di acquisizione primaria 96L6E, un gruppo antenna 40B6M e fino a dodici lanciatori 5P85SE. Come sistema d’arma usa i missili 46N6E2, nei quali è stato integrato un algoritmo aggiornato della traiettoria incrementale di volo e d’impatto terminale ed è stata potenziata la capacità di contro-contromisure elettroniche (ECCM). Il sistema, che può gestire simultaneamente fino ad un massimo di 100 tracce, acquisisce obbiettivi in un range di 300 chilometri. Per gli aerei la distanza di ingaggio è di 200-300 chilometri, per i missili 5-40 chilometri; la quota va dai 30 ai 90 mila piedi.
Per Teheran procede ad una immediata attuazione degli accordi presi con la Federazione Russa nel marzo 2009, ed ottenere quindi gli S-300 PMU-2, rimane comunque un obbiettivo possibile: il passepartout si chiama Damasco, che con il Cremlino ha un contratto aperto per l’acquisizione di un numero non ben definito di batterie S-300. Il successivo trasferimento in Iran diventa quindi un dettaglio trascurabile, soprattutto perché a pagare il conto è sempre e comunque la Repubblica Islamica.
Nonostante le pressioni occidentali, la Russia non sembra comunque intenzionata ad interrompere la collaborazione militare con il Paese sciita. A dirlo è Anatoly Isaikin, direttore generale della Rosoboron export, società commerciale di proprietà dello Stato che fornisce armamenti a 70 Paesi, tra cui India, Algeria, Cina, Venezuela, Malaysia, Siria ed ora anche Libia.
In un’intervista pubblicata dall’agenzia di stampa ITAR-TASS, Isaikin ha dichiarato che la compagnia non vede alcun problema nella fornitura dei sistemi missilistici S-300: “Sono armi di difesa, non di attacco. Vorrei trasmettere questo pensiero agli organismi ufficiali, facendo per esempio ricorso alle ripetute dichiarazioni fatte dal Servizio Federale russo per la Cooperazione tecnica e militare e dal ministro degli Esteri, Sergei Lavrov”. Dichiarazioni che dimostrano quanto Mosca non abbia alcuna intenzione di recedere da un contratto del valore di svariate centinaia di milioni di dollari, ufficialmente sospeso solo a causa di sanzioni internazionali che possono comunque essere aggirate.