di Rosa Ana De Santis

Il governo Sarkozy si avvicina a formalizzare il divieto di indossare il burqa e il niqab (il velo che lascia scoperti i soli occhi) nei luoghi pubblici. La decisione del governo francese arriva dopo diversi mesi di lavoro della commissione incaricata di studiare il fenomeno e le possibili contromisure istituzionali. Le donne che vorranno continuare a tenere il volto coperto integralmente o quasi, non andranno incontro a sanzioni penali, ma, per ragioni di sicurezza e necessità di identificazione, potrebbero non usufruire di alcuni servi pubblici.

L’urgenza di legiferare su un fenomeno che non riguarda poi molte donne e non ha quindi ricadute sociali evidenti nasce apparentemente dall’allarme terrorismo e dal tormentone della sicurezza, ma in realtà vuole depositare un chiaro messaggio culturale, che non a caso viene proprio  dal cuore dell’Europa moderna. La terra dei lumi della ragione, della smentita storica e violenta a tutti i pregiudizi religiosi mortificanti della libertà e dignità personale, torna a difendere il baluardo morale e politico dello stato laico. Ma il velo è qualcosa di più.

E’ l’Islam nelle sue forme più ortodosse e più lontane dalla sensibilità occidentale. E’ la metafora concreta di uno scontro durissimo di culture. Le nostre donne denudate sui manifesti pubblicitari, la seduzione venduta a chili sul mercato e le loro, coperte e mortificate nella collettività e restituite pienamente alla loro identità solo tra gli affetti familiari. Non tutte queste donne mancano di consapevolezza, non tutte sono costrette. Per molte è una scelta libera e voluta. Quale libertà deve privilegiare uno Stato che non sia confessionale e che abbia scritto in Costituzione il rispetto della libertà individuale? C’è forse una libertà individuale che vale più di un'altra?

Ci aiutano a tradurre questa delicata decisione del governo francese le reazioni italiane. Calderoli che applaude al divieto di burqa perché, dice lui, le ragioni della sicurezza nazionale devono avere le priorità rispetto alle libertà individuali. Un discorso ragionevole se la Lega, il partito cui appartiene, non fosse la Lega che conosciamo e non avesse montato le più volgari e pericolose campagne xenofobe contro i musulmani. Il Partito Democratico, invece, si mostra critico e vede nella negazione pubblica del burqa una messa a rischio di valori culturali che ci sono estranei e che, solo per questa ragione, saremmo disponibili a limitare.

Letture parziali che devono le proprie debolezze argomentative a ciò che è rimasto ancora irrisolto del pensiero liberale degli stati moderni e che si fa sentire proprio quando usciamo fuori dal recinto di casa. La libertà è soltanto un metodo? Ne esistono tante oppure la libertà individuale è quella che sta scritta sulle carte costituzionali dell’Europa moderna? Siamo così bravi da voler far valere per tutti qualcosa che è nel nostro codice genetico o, piuttosto, ci sentiamo al culmine dello sviluppo umano, come pensava Hegel della sua storia della filosofia?

La verità lampante a tutti è che il burqa non è un abito tradizionale, è qualcosa di più. E’ davvero il segno tangibile di un sistema valoriale e di una precisa visione della donna e della sua funzione nel privato e nel pubblico. E’ altrettanto vero che il divieto esaspererà la contraddizione e non la curerà mai sul piano accademico. Andranno meglio le cose nella spicciola amministrazione del quotidiano. O almeno così sembrerà a molti. Quella donna senza burqa forse da casa non uscirà proprio più. Ma non è davvero della sua emancipazione che una legge di questo tipo vuole occuparsi? E la sua famiglia come si comporterà vedendosi privata di qualcosa che considera insopprimibile nel proprio sistema valoriale? Forse lo scontro sarà ancora più insabbiato e paludoso. Semplicemente scenderà dal capo delle donne.

Se di mezzo c’è la tutela dell’ordine pubblico e la sicurezza nazionale, se a rischio può essere la vita della collettività, forse una norma così può apparire giustificabie, anche se é difficile far cadere il sospetto che l'islamofobia non c'entri nulla. Ma qualsiasi progetto educativo rischia d’implodere non per l’efficacia, ma per un banale peccato di superbia. L’insoddisfazione che lascia il progetto di questa legge non è tanto dovuta alla tesi, peraltro discutibile, secondo la quale i cambiamenti culturali sono vincenti quando sono autonomi, ma perchè l’Occidente non fa niente di nobile quando le sue donne le spoglia in tv, le esibisce negli spot o sui cartelloni stradali come medicina ormonale; in una parola, le vende. Qualcuno dice, a difesa di questo decadimento dell’identità femminile, che tutto questo lo vogliono le donne. Che è solo una questione di libertà individuale. La stessa di chi vuole indossare il velo?

di Elena Ferrara

A Pyongyang la dirigenza coreana non tollera altro culto se non quello che ogni cittadino deve tributare all’ex presidente Kim II-sung e a suo figlio, l’attuale leader Kim Jong-il. E’ questa la tragica realtà geopolitica che domina la monarchia locale e che mostra sempre più - nei confronti delle vicende religiose - un silenzio enigmatico e inquieto. Intanto numerose e quotidiane sono le violazioni che si registrano nel campo della libertà religiosa, anche con numerosi casi di arresto e di deportazione.

La storia del Paese, comunque, ci ricorda anche altri momenti. E precisamente il tempo in cui la capitale era chiamata “la Gerusalemme dell’Est”. Quando a metà del ventesimo secolo, il 30% dei suoi abitanti erano cristiani, contro appena l’1% del resto del Paese. Le persecuzioni degli anni Cinquanta presero poi di mira in particolare i cristiani. Ed oggi a Pyongyang - riferiscono i diplomatici occidentali che si trovano nel paese - si possono trovare solo alcune chiese prive di difese istituzionali e diplomatiche.

Ovviamente la Costituzione autorizza la libertà di culto, ma in realtà opera con il filtro di federazioni cristiane ufficiali, controllate dal governo. Sono così riconosciuti 15 mila cristiani dichiarati, senza distinzione di confessioni (prima del 1949, i cattolici erano 55mila). Resta però da capire cosa si nasconda dietro queste cifre, che rivelano pur sempre uno stato di decomposizione accelerata. Ad esempio, la chiesa cattolica di Jangchung, quartiere est della capitale, non ha un parroco: negli anni Ottanta il Vaticano si sarebbe rifiutato di ordinare un candidato mandato a Roma dal governo coreano.

Situazione estremamente complessa anche quella che riguarda la chiesa ortodossa. I suoi sacerdoti - diplomati al Dipartimento di religione dell’universit? Kim II-sung, la più prestigiosa del Paese - erano stati mandati a Mosca in seminario per essere “istruiti” ed ammessi “all’esercizio spirituale”. Ma dopo quattro anni sono rientrati e la chiesa (dedicata alla “Trinità”) è restata vuota, pur se il rapporto fra il patriarcato moscovita e la piccola comunità ortodossa nordcoreana è stretto e risale a molto tempo fa. In proposito va ricordato che una missione spirituale russo-ortodossa si era stabilita in Corea nel luglio del 1897.

La benedizione della prima pietra della chiesa ortodossa di Pyongyang era poi avvenuta nell’aprile 2003 per mano dell'arcivescovo di Kaluga e Borovsk, Climent. Toccò poi al vescovo russo di Yegoryevsk, Marc, ordinare diaconi due studenti nordcoreani, Theodore Kim e John Ra, nel maggio del 2003. Quanto ai protestanti coreani c’è un loro tempio a Bongsu, che ogni settimana accoglie i fedeli, tra cui una decina di occidentali residenti a Pyongyang.

Di fatto questa manciata di chiese sotto controllo è una vetrina per consentire al governo di proclamare che la libertà di culto - pur se tra manovre incrociate e contraddittorie - viene rispettata, mentre in tutto il Paese, praticamente, si d? la caccia ai cristiani. La presenza di alcune strutture religiose, comunque, è anche fonte di introiti: perchè senza eccezioni consente di attrarre l’aiuto offerto da numerose organizzazioni confessionali straniere. Un afflusso di capitali non trascurabile per un Paese esangue, sottoposto alle sanzioni dell’Onu.

Il rapporto tra il governo del Nord e le chiese, intanto, si tinge spesso di giallo con situazioni incontrollabili. E’ quello, ad esempio, ampiamente ripreso dalla stampa sudcoreana, che ha riferito dell’esecuzione pubblica, presso la frontiera cinese, di una nordcoreana di 33 anni, accusata di distribuire Bibbie e di spionaggio per conto degli Stati Uniti.

di Mario Braconi

Sul Washington Post del 19 gennaio il freelance John Salomon e Carrie Johnson pubblicano un pezzo esplosivo: per diversi anni il Federal Bureau of Investigation ha deliberatamente violato le legge al fine di ottenere tabulati di conversazioni telefoniche cui non avrebbe potuto accedere. Il reportage è irrobustito da decine di documenti resi disponibili da una persona non appartenente all'Agenzia, che ne è entrata in possesso nel corso di un'indagine che verteva proprio sul corretto funzionamento delle procedure di autorizzazione o ratifica delle indagini sul traffico telefonico.

Prima dell'11 settembre, l'FBI poteva ottenere dalla società telefoniche i tabulati telefonici di interesse presentando un mandato del Gran Giurì, oppure, nelle indagini per terrorismo, una "lettera di sicurezza nazionale" (National Security Letter, o NSL). Con l'approvazione del Patriot Act (ottobre 2001), ovviamente, le garanzie dei cittadini si sono affievolite: le richieste potevano essere effettuate anche da funzionari di uffici locali e coprire fattispecie più varie; benché ottenere i tabulati fosse diventato più semplice per gli agenti, una richiesta poteva essere presa in considerazione solo dimostrando che essa era imprescindibile per il buon esito di un'inchiesta per terrorismo già aperta.

Ma ai funzionari FBI questo non piaceva, volevano le mani libere: ed è così che qualcuno di loro ha ideato una nuova fattispecie: "La lettera di autorizzazione per circostanze di improrogabile urgenza". Redigendo questo documento, un funzionario può dichiarare l'esistenza di una situazione di emergenza, guadagnandosi così immediato accesso ai tabulati telefonici, salva l'emissione di una NSL di ratifica a cose fatte: una vera e propria foglia di fico, assai utile a coprire migliaia di richieste discutibili, che peraltro continuavano a rimanere prive delle "lettere di sicurezza nazionale" anche dopo l'acquisizione dei tabulati da parte di FBI.

Nella primavera del 2005, l'agente speciale Bassem Youssef, responsabile dell'ufficio Analisi Comunicazioni, cominciò a ricevere contestazioni dalle compagnie telefoniche che lamentavano la mancanza della documentazione di supporto. Youssef, che l'FBI non considerava un impiegato modello (in passato aveva contestato all'Agenzia una mancata promozione legata alle sue origini etniche), cominciò a smuovere le acque per forzare i suoi superiori gerarchici a sanare una situazione che cominciava a diventare imbarazzante.

A fine dicembre del 2004 un avvocato dell'Ufficio Legale FBI, Patrice Kopitansky, gestì una richiesta che proveniva direttamente dall'allora vice Direttore esecutivo Gary Bald. L'unità Analisi Comunicazioni le chiese di predisporre una lettera di sicurezza nazionale per regolarizzare l'operazione; prima di poter procedere, Kopitansky aveva bisogno di sapere a quale indagine per terrorismo si riferisse la richiesta e per quale ragione quei numeri di telefono si fossero resi necessari. Non solo non si riusciva a capire se l'indagine esistesse veramente, ma un impiegato della Analisi Comunicazioni le scrisse candidamente che "la gran parte delle richieste viene dagli alti livelli gerarchici. Non sempre ricevo la documentazione o so a quali fatti quel determinato numero telefonico è legato, il che mi crea dei problemi quando cerco di ottenere una NSL."

Quindi, se ad esempio, un qualche alto papavero FBI avesse voluto controllare il traffico in entrata ed in uscita dal telefonino della sua amante, non avrebbe avuto difficoltà ad ottenere le informazioni che gli interessavano senza nemmeno disturbarsi a regolarizzare una richiesta di informazioni illegale. Dato che ad alcuni mesi dall'inizio della vicenda Kopitansky non ancora era in grado di emettere la NSL, a marzo del 2005 scrisse ai suoi superiori sollevando il problema. Nella mail che il Post pubblica, l'avvocato solleva un problema generale, specificando che, nei casi di richieste di "emergenza", le NSL venivano emesse solo occasionalmente e che spesso quelle che venivano chiamate "emergenze" tali non erano.

Ci sarebbe quasi da essere grati a Youssef e Kopitansky per aver scoperchiato la pentola. Se non fosse che il loro modo di risolvere la questione era a dir poco non cristallino: avevano pensato bene di aprire un certo numero di indagini preliminari (PI) generiche cui le richieste illegali avrebbero potuto essere "agganciate" per salvare le apparenze. Del resto in una delle email acquisite, la Kopitansky si esprime così: "Dobbiamo fare in modo di rispettare la lettera della legge senza per questo mettere a rischio la sicurezza nazionale". Ed effettivamente la soluzione prospettata sembra rispettosa più della forma che della sostanza della legge. Alla fine il Federal Bureau of Investigation seguì una strada diversa: l'emissione di una NSL massiva dotata del magico potere di sanare tutte le precedenti richieste tabulati irregolari.

Nel novembre del 2006, stando alla testimonianza di Kopitansky, Joseph Billy, Vicedirettore dell'Unità Anti-terrorismo FBI, firmò la NSL "tana libera tutti". Non deve essere stato particolarmente fiero della sua decisione, dato che, quando i legali si dimostrarono per così dire non entusiasti dell'iniziativa, egli negò di averla mai firmata. "Non ricordo di aver mai firmato niente di simile. Per quanto ne so le NSL sono emesse caso per caso", così scrisse al capo del legale Valerie Caproni.

Grazie  alle ingegnose architetture poste in essere per eludere la legge, sembra che il Federal Bureau of Investigation abbia raccolto illecitamente più di 2.000 record telefonici, tra cui quelli che si riferiscono a due giornalisti, uno di The New York Times e uno dello stesso Washington Post. Questo accadeva tra il 2002 e il 2006, anno in cui sulla vicenda cominciò ad indagare il Dipartimento di Giustizia.

E' utile, la ricostruzione dei fatti del Post: prima di tutto perché dimostra come negli Stati Uniti sia possibile imbattersi in un esempio di stampa libera in grado di raccontare senza peli sulla lingua tutte le nefandezze di cui si macchia il Potere. E poi perché le email e memo compromettenti di cui viene dato conto disegnano una situazione preoccupante, nella quale la disinvoltura con cui venivano violate le libertà civili degli americani andava di pari passo con l'autoreferenzialità tipica di tutte le burocrazie.

di Carlo Benedetti

Mosca. La distensione tra Est ed Ovest è di nuovo ad un bivio. Perchè se da Mosca parte l’annuncio che i negoziati Start (Strategic arms reduction treaty) con gli Usa sulla riduzione delle armi nucleari strategiche riprenderanno a febbraio, da Washington e da Varsavia arriva la conferma che la Polonia si appresta a dislocare missili americani Patriot nei pressi di Varsavia. In segno di risposta, il Cremlino manda a dire ai polacchi che la marina militare russa rafforzerà la sua flotta nel Baltico con “mezzi di superficie e sottomarini, impegnando nelle operazioni di pattugliamento anche formazioni aeree”. E’, come sempre, la tattica di un passo avanti e due indietro, con i negoziati che si fanno sempre più indecifrabili.

La situazione resta, quindi, complessa, pur se la trattativa “Start” sembra ora avviata sul binario giusto. Entrambe le parti hanno già annunciato di essere vicine al traguardo finale, ma che devono  essere  definiti alcuni  dettagli tecnici. E così l’incontro di febbraio dovrebbe essere quello definitivo portando a termine le linee generali di quel documento siglato il 31 luglio 1991 - cinque mesi prima del crollo dell'Unione sovietica, tra il presidente statunitense, George H. W. Bush, e Michail Gorbaciov - e che ha poi avuto tutta una serie di aggiornamenti. Significativi quelli avvenuti dopo l'elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti quando si incontrarono a Ginevra i responsabili della diplomazia di Washington e di Mosca, Hillary Clinton e Serghiei Lavrov. I due esponenti delle rispettive diplomazie si'impegnarono a un reset nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia e a concludere un nuovo trattato Start entro la fine dell'anno. Ma, malgrado passi in avanti molto importanti che avvicinarono le rispettive posizioni - come ha dichiarato lo stesso leader del Cremlino nelle settimane scorse - Mosca e Washington non sono riuscite a concludere un'intesa entro il dicembre del 2009.

Il processo, comunque, non si è bloccato perchè Russia e Stati Uniti hanno rafforzato i rapporti bilaterali, alla cui base poggiano i principi di fiducia, apertura e di disponibilità per favorire gli interessi reciproci. In questo senso si era espresso il presidente russo, Dmitri Medvedev, in un messaggio di auguri inviato al presidente statunitense: "Spero che nel nuovo anno continueremo il lavoro comune e il dialogo costruttivo a favore di uno sviluppo stabile e positivo dei rapporti bilaterali, del rafforzamento della stabilità strategica nel mondo e della ricerca di risposte ottimali alle sfide globali della nostra epoca".

Ma nonostante l'impegno profuso da Obama e da Medvedev, restano una serie di problemi non solo di natura tecnica ma anche politica. Mosca, infatti, non è pronta a creare uno scudo antimissilistico con gli Stati Uniti sulla base delle proposte americane. E c’è il ministro Lavrov che, in questo contesto, si affretta a dichiarare che "con gli Stati Uniti e con la Nato, in riferimento alla tematica di questo scudo, noi parliamo della necessità di cominciare tutto da zero, proponiamo una analisi comune per stabilire quali sono i rischi e le minacce della proliferazione missilistica e da dove arrivano queste minacce". "Noi non siamo pronti a credere sulla parola a tutto ciò che qualcuno ha già analizzato e inventato - aggiunge il capo della diplomazia del Cremlino -, su come far fronte a queste minacce... Ma quando veniamo invitati alla trattativa ci viene detto: questi sono i sistemi che noi vogliamo sviluppare e voi, intanto, dateci le vostre stazioni radar... Questo non è un approccio reale e noi non siamo pronti ad appoggiarlo...”.

Eppure Obama e Medvedev avevano concordato di compiere un'analisi congiunta dei rischi della proliferazione missilistica. Si era quasi al punto-chiave dell’intera situazione e restava sul tappeto la minaccia della installazione di missili statunitensi Patriot in Polonia. “Certo, è una questione che riguarda i rapporti bilaterali tra Varsavia e Washington – aveva detto in proposito il russo Lavrov - ma la Russia aspetta chiarimenti". E i “chiarimenti” sono arrivati. Ma nel senso che la  Polonia (che è membro della Nato) e gli Stati Uniti hanno firmato un accordo che apre la strada allo spiegamento dei Patriot americani sul territorio polacco.

In proposito c’è da registrare, a Mosca, un autorevole commento del direttore dell’Istituto di Valutazioni Strategiche, Serghej Oznobyscev. ”I missili Patriot - dice - rappresentano complessi missilistici antiaerei di buona qualità che vengono utilizzati dalle forze armate degli USA e dei loro alleati. Sono missili d'intercettazione aerea, quindi non costituiscono una diretta minaccia alla sicurezza della Russia. Ma il loro dispiegamento segna un passo che per le alte sfere politiche polacche rappresenta un simbolo di un nuovo scatenamento della tensione nei rapporti con la Russia. Siamo di fronte ad una  ben determinata sfida nei confronti di Mosca, nonché un segno del fatto che le fobìe antirusse - risalenti ai tempi della guerra fredda nell’Europa Centrale ed Orientale, in particolare, in Polonia - sono  vive come in passato. La cosa più triste in questo senso è che simili passi ci allontanano dallo sviluppo dei contatti politici costruttivi sul continente, dai rapporti reciprocamente vantaggiosi nel campo dell’economia, del commercio, della scienza e della tecnica. Simili passi impediscono il processo di diffusione di un’atmosfera di fiducia e di partenariato nel mondo”.
Un altro aspetto di questa nuova tensione viene evidenziato da Pavel Felghengauer, un autorevole esperto militare che scrive nel quotidiano “Novaja Gaseta”.

“Attualmente – scrive il commentatore che riferisce i punti di vista dei settori militari del Cremlino - la NATO intende elaborare un piano di difesa reale, innanzitutto nei Paesi del Baltico. Fin qui l’ampliamento dell’Alleanza aveva un carattere politico, assai formale. Ora ci saranno dei preparativi militari reali. Anzi la proposta della Russia di dare vita ad una nuova architettura dell’Europa sarà silurata dall’Occidente. Altrimenti si dovrebbe concordare con la Russia il dispiegamento di qualsiasi nuova struttura militare ai confini russi. Cosa che non vogliono i dirigenti della Polonia, Lettonia, Lituania, Estonia. Ecco perché dal punto di vista delle prospettive a lungo termine si delineano i contorni di una nuova contrapposizione tra Occidente e il nostro Paese”. Torna così ad affacciarsi su Mosca la psicosi dell’allarme e dell’assedio. E non è un buon segno.

 

di Carlo Benedetti

Mosca. E’ Serghej Tighipko (classe 1960, nato in Moldavia) la figura chiave del prossimo ballottaggio per la presidenza ucraina fissato per il 7 febbraio. E’ lui che si è attestato al terzo posto - dopo Janukovic e la Timoshenko - rivelando una grande capacità politica e manageriale. Si è quindi messo in lizza in posizione di grande rilievo raggiungendo la pole position nel campo dell’opinione pubblica ucraina. Ed ora si guarda a lui come al possibile futuro Primo Ministro del paese, perchè ha ricevuto proposte in merito dai due candidati che vanno al ballottaggio.

Il personaggio domina i media dell’Ucraina e della Russia e la definizione più diffusa lo etichetta come ago della bilancia. Astro nascente, quindi, ma che si è già affermato mettendo in campo molte delle sue doti. Prima fra tutte quella di essere un oligarca che ha percorso varie tappe di una lunga carriera, segnata da impegni direzionali in vari istituti bancari. Senza disdegnare, ovviamente, cariche politiche e di governo.

Ed ecco che sulla sua figura (un volto telegenico) s’impegnano i maggiori analisti dell’Est post-sovietico. A Mosca, il quotidiano russo Kommersant, lo definisce il “Putin ucraino”; non tanto per le sue posizioni filo russe, quanto per la fermezza, il suo pragmatismo e quello sguardo che sa essere glaciale. Per altri media si sarebbe di fronte ad un uomo che caratterizza le sue uscite pubbliche con un silenzio enigmatico e inquieto.

Intanto Tighipko (che cominciamo a conoscere grazie al bombardamento mediatico delle tv russe) cerca di accreditarsi con l’immagine di un leader imparziale (alle elezioni si è presentato come indipendente pur se ha ricevuto l’appoggio del Partito del Lavoro) che vuol solo gestire la quotidianità disegnando però per l’Ucraina - all’interno di una catastrofe geopolitica - un futuro di grande autonomia economica. E tutti sanno che è già stato all’interno della stanza dei bottoni rivelandosi come un bravo governatore della Banca Centrale e ministro dell’Economia nel ’97-’99.

Ma la stampa russa più accreditata non si sbilancia. Ne ricorda sia gli atteggiamenti filo-occidentali che quelle dichiarazioni tendenti ad annullare l’antagonismo con Mosca considerando questo tipo di politica un danno per l’economia nazionale. Nello stesso tempo molti osservatori sottolineano che nel passato si espresse a favore della privatizzazione delle pipelines ucraine e di una loro gestione congiunta tra Russia ed Europa.

E mentre si alternano giudizi e sottolineature anche lui prende la parola e, in lingua russa, manda a dire che “Onestamente non mi aspetto nulla né dalla Timoshenko né da Janukovic. Non hanno attuato alcuna riforma, non hanno elaborato alcuna strategia di sviluppo. Solo un riassetto del parlamento potrebbe far andare avanti il Paese”.

E alle parole di questa terza figura della scena ucraina (che potrebbe divenire il curatore della crisi fallimentare di Kiev) si aggiungono quelle del politologo russo Aleksandr Zipko il quale - auspicando l’elezione di Janukovic alla presidenza - aggiunge che se Tighipko arriverà alla poltrona di primo ministro vorrà dire che l’Ucraina, avviandosi sulla strada di un costruttivo armistizio, avrà raggiunto un alto grado di equilibrio, uscendo dalla palude della “rivoluzione arancione”.

 

 


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