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di Michele Paris
Mentre in patria continuano ad animare un movimento conservatore che si oppone strenuamente ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, le potenti chiese evangeliche americane da qualche tempo hanno esportato più o meno surrettiziamente le loro battaglie oscurantiste nel continente africano. Ovviamente, con risultati a dir poco disastrosi per il rispetto dei diritti umani. A far scoppiare il caso dell’influenza nefasta di alcuni fanatici religiosi d’oltreoceano in Africa, è stata una legge fortemente discriminatoria nei confronti dei gay in discussione al Parlamento ugandese.
In questo paese, come in altri del continente, la classe politica sta infatti cavalcando una pericolosa corrente omofobica, che ormai in molti collegano all’esplosione del cristianesimo evangelico fondamentalista di stampo americano in Africa. Tra le conseguenze peggiori ci sarebbero appunto alcune leggi approvate, o ancora in fase di studio, estremamente severe sull’orientamento sessuale dei cittadini.
A dare lo slancio ad un clima di intolleranza diffusa nei confronti degli omosessuali in Uganda pare sia stato un convegno tenuto nella capitale, Kampala, lo scorso mese di marzo, nel quale ci si proponeva di “esporre la verità nascosta dietro l’omosessualità e le reali intenzioni degli omosessuali”. Protagonisti assoluti del seminario sono stati tre cittadini americani, esponenti di spicco del movimento evangelico: Scott Lively, attivista anti-gay e presidente dell’associazione cristiana conservatrice “Defend the Family International”, Don Schmierer e Caleb Lee Brundidge; questi ultimi autoproclamatisi “guaritori dall’omosessualità”.
L’organizzatore di questo incontro, l’ex elettricista ugandese diventato pastore Stephen Langa, ha successivamente promosso una raccolta di firme tra genitori preoccupati dell’opera di reclutamento secondo loro in corso nelle scuole del paese da parte di gay e lesbiche. Tale petizione è stata poi presentata al parlamento e pochi mesi più tardi si è trasformata nella legge attualmente in discussione e che potrebbe entrare in vigore in Uganda entro la fine dell’anno (“Anti-Homosexuality Bill”).
Mentre l’omosessualità in Uganda è già reato, il nuovo testo prevede pene fino all’ergastolo e, nel caso l’accusato abbia precedenti penali, sia malato di AIDS o la sua “vittima” risulti inferiore ai 18 anni, addirittura la pena di morte. Inoltre, ogni cittadino a conoscenza di “attività omosessuali” è tenuto ad informarne le autorità di polizia, pena il carcere fino a tre anni. Per i cittadini ugandesi residenti all’estero che si macchiassero di questo reato sarebbe poi richiesta l’estradizione. Bersaglio della legge non sono solo gli omosessuali, ma anche gruppi e associazioni che si battono per i diritti LGBT, i cui membri rischieranno pene detentive fino a sette anni.
Se il provvedimento all’analisi in Uganda rischia di rappresentare un pericoloso precedente per l’Africa, altri due paesi vicini si sono già incamminati su questa strada. A inizio anno, infatti, il Burundi ha adottato una legge che prevede fino a due anni di carcere per chi viene accusato di avere relazioni omosessuali. In Ruanda, invece, la pena potrebbe salire fino a dieci anni per chiunque “pratichi o incoraggi altre persone ad avere relazioni o qualsiasi pratica omosessuale” se una legge simile a quella ugandese allo studio del parlamento verrà approvata.
La crescente penetrazione in Africa di un Evangelismo mutuato da quello americano più conservatore è riconducibile in gran parte, come già anticipato, ai legami di molte importanti personalità di mega-chiese statunitensi con leader politici e religiosi locali. Uno di questi è il potentissimo e popolarissimo fondatore della chiesa evangelica californiana, Saddleback Church, il pastore Rick Warren.
Quest’ultimo, nel corso della campagna elettorale per le presidenziali del 2008, aveva addirittura ospitato i candidati Obama e McCain per una discussione pubblica trasmessa in diretta TV. Lo scorso gennaio era stato poi al centro di polemiche, innescate soprattutto dalla comunità gay americana, dopo essere stato scelto per recitare la tradizionale “invocazione” nel corso della cerimonia inaugurale del presidente Obama a Washington.
Da sempre contrario all’allargamento dei diritti degli omosessuali negli USA, Warren vanta forti legami con i vertici politici di Uganda e Ruanda, dove il messaggio fondamentalista della sua chiesa ha una fortissima eco. Warren è infatti amico personale dei presidenti dei due paesi, l’ugandese Yoweri Museveni (e la moglie Janet, che in varie occasioni ha tenuto discorsi presso la Saddleback Church) e il ruandese Paul Kagame. Secondo un giornale ugandese, nel corso di una sua visita a Kampala l’anno scorso Warren avrebbe fornito tutto il suo sostegno ai vescovi anglicani del paese schierati contro i gay, dichiarando apertamente che “l’omosessualità non può essere considerata un modo di vita naturale e perciò da essa non può derivare alcun diritto”.
Molto strette sono poi anche le sue relazioni con il principale attivista anti-gay in Uganda, il pastore pentecostale educato in America, Martin Ssempa. Acceso sostenitore della legislazione omofobica in fase di approvazione e anch’egli più volte ospitato nelle vesti di predicatore da Warren in California, Ssempa ha lavorato per il programma statunitense istituito dall’ex presidente Bush per la lotta all’AIDS (PEPFAR) e basato principalmente sull’astinenza. Nel paese africano, Ssempa si è contraddistinto per svariate manifestazioni contro gli omosessuali e per la pubblicazione di elenchi di gay e lesbiche corredati da fotografie e informazioni personali.
La demagogia omofobica che si sta diffondendo tra le chiese evangeliche in Africa, pur risentendo dell’ideologia di estrema destra di alcuni gruppi religiosi cristiani americani, riflette allo stesso tempo tutte le resistenze opposte dal continente alle influenze occidentali, di cui l’omosessualità sembra apparire appunto come una delle più deleterie. Per i pastori evangelici africani poi, la retorica contro i gay è uno strumento fondamentale per combattere il puritanesimo di un Islam con cui appaiono in aperta competizione per la conquista delle anime.
Per i leader evangelici statunitensi, di riflesso, l’ascendente delle loro chiese in Africa consente di estendere il loro potere e la loro influenza, ma anche di ampliare i propri interessi economici, in quello che numericamente sta diventando il continente più importante per la fede cristiana. In paesi dove la maggior parte della popolazione vive in condizioni di estrema miseria e dove sono in atto rapidi cambiamenti sociali, spesso percepiti come imposti dall’occidente, il messaggio integralista delle chiese riformate americane, intriso di puritanesimo e intransigenza, finisce così per trovare un terreno molto fertile. Con effetti però sempre più drammatici nei confronti di qualsiasi comportamento ritenuto “deviante”.
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di Alessandro Iacuelli
La vicenda assume i contorni di un giallo. Il corpo senza vita del fisico nucleare Antonio Ferrigno, 54 nni, è stato ritrovato il giorno di Natale nella sua abitazione di Rijswijk, in Olanda, da suo figlio e poi da altri familiari accorsi. Lo scienziato aveva smesso di dare notizie di sé dalla vigilia di Natale, non si sa al momento se fosse già morto o meno, a causa del massimo riserbo da parte dell'autorità giudiziaria olandese.
L'esame autoptico ha rivelato che la morte non è dovuta a cause naturali. Il silenzio stampa della polizia olandese sulle indagini è dovuto anche al delicato lavoro che Ferrigno svolgeva nei Paesi Bassi: era infatti capo esaminatore dell'ufficio internazionale brevetti dell'Aia. In pratica, ogni nuova richiesta di brevetto veniva vagliata dal suo ufficio.
Scompare così, avvolto in un alone di mistero, in piene feste natalizie, un fisico noto a livello internazionale con un curriculum di tutto rispetto: per capire bene per quali motivi l'uomo possa essere morto, visto che c'è il serio sospetto che non si tratti di una morte naturale, occorre prima comprendere chi era Antonio Ferrigno.
Originario di Cava de' Tirreni, una laurea con lode all'Università di Salerno, un dottorato di ricerca a Napoli, alcuni anni come ricercatore all'Università di Berlino. Un numero elevatissimo di pubblicazioni scientifiche in tutto il mondo ed un'attività di ricerca indirizzata verso il miglioramento di alcuni aspetti della Teoria della Relatività Generale. Poi, il trasferimento in Olanda, quando vince un importante concorso presso l'Ufficio Internazionale Brevetti, in rappresentanza del nostro Paese. Forse l'uomo giusto al posto giusto: Ferrigno, oltre ad essere uno scienziato ed un esperto di alta tecnologia, era anche un esperto conoscitore delle lingue: inglese, francese, tedesco, oltre all'olandese e alla lingua madre italiana. La sua carriera all'Aja è stata un'ascesa inarrestabile, fino a diventare il capo esaminatore delle nuove richieste di brevetto.
E' forse in questa direzione, se non si è trattato di cause naturali, che si potrebbe trovare il "movente" della sua morte: Ferrigno era responsabile dei brevetti relativi ai nuovi ritrovati su scala mondiale in materia di pacemaker.
Antonio Ferrigno, nonostante gli impegni professionali, trovava il tempo per dedicarsi ad un'intensa attività sociale e civile in Olanda: era dirigente e tesoriere della sede Com.It.Es dei Paesi Bassi, il comitato degli italiani residenti all'estero, uno degli organismi rappresentativi della collettività italiana, previsti dalla legge sugli italiani all'estero. I Com.It.Es., infatti, contribuiscono ad individuare le esigenze di sviluppo sociale, culturale e civile della comunità di riferimento e cooperano con l'Autorità consolare nella tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini italiani.
Nel 2001, le sue ricerche, mai fermatesi, nel campo della Relatività Generale, sembrano arrivare ad uno sbocco, con la pubblicazione sulla prestigiosa rivista americana "Galilean Electrodynamics", di un suo articolo reputato molto importante, e che lo porta alla definitiva notorietà in campo scientifico.
Il pomeriggio di Natale, il figlio teenager allarmato perché non lo sentiva, si è recato a casa sua, nella Burgermeester Elsenlaan a Rijswijk. Il ragazzo ha trovato il padre morto, con le mani legate e in una pozza di sangue, "in condizioni disumane" come ha riferito poi la figlia più grande. Nell'elegante appartamento la polizia non ha trovato alcuna traccia di scasso. Secondo i primi rilievi autoptici, l'uomo era deceduto da qualche giorno. La stessa sera del 25 dicembre, la salma è stata trasportata all'ufficio di medicina legale.
La Polizia sta indagando sulle circostanze del delitto, ma è chiusa nel più stretto riserbo e non si sbilancia su alcuna ipotesi. Di sicuro si sa che come fisico nucleare, esaminatore di richieste di brevetto all'Ufficio Internazionale, potrebbe non essere stato ricattabile. Forse il delitto si potrebbe ricondurre alla sfera personale. Un amico della vittima riferisce anche che ultimamente Ferrigno aveva ricevuto minacce e aggressioni telefoniche.
Il presidente del Com.It.Es in Olanda racconta: "Da quando Antonio è entrato a far parte del Com.It.Es, ho avuto un vero collaboratore, totalmente disponibile, instancabile ed efficace. Era tecnicamente preparato, ma era anche molto vicino alla comunità. Nelle riunioni più accese era lui che arrivava a mitigare gli animi, dicendo in modo rassicurante “ma cosa possiamo fare per la nostra gente?” Per questo era stato proprio Ferrigno il motore propulsore per organizzare la Giornata Italiana nel Limburgo, per avvicinare i membri della nostra comunità e capire i loro problemi".
Antonio Ferrigno sarà tumulato in Italia nella sua città natale, a Cava dei Tirreni, dove avranno luogo i funerali, secondo un desiderio che aveva espresso precedentemente. Ora, si attende la verità sulle circostanze e sul movente della sua morte.
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di Eugenio Roscini Vitali
Nel 2003, alle domande dei giornalisti sui danni collaterali in Afghanistan ed Iraq, il comandante delle truppe d’invasione, il Generale Tommy Ray Franks, rispondeva: “noi non contiamo i morti”. Alla fine del novembre scorso, fonti governative irachene annunciavano che, a sei anni e mezzo dall’inizio dell’occupazione, gli 88 civili rimasti uccisi negli ultimi trenta giorni rappresentavano un record positivo, il minimo storico mai raggiunto dall’inizio dell’operazione “Iraqi Freedom”. La mattina dell’8 dicembre 2009, otto giorni dopo il confortante annuncio del contestato governo al-Maliki e a poche ore dalla notizia di nuove elezioni, fissate dal Parlamento per 7 marzo 2010, una serie di potenti deflagrazioni, avvenute nell’arco di pochi minuti, colpivano varie zone di Baghdad causando la morte di 127 persone ed il ferimento di almeno 450 civili.
Un bilancio di sangue causato da cinque autobombe fatte esplodere nel centro della capitale e che verrà accompagnato dai quattro attentati del 15 dicembre, tre nei pressi della Zona verde della capitale ed uno nella città di Mossul, nei quali perderanno la vita cinque persone e altre 14 rimarranno ferite. Si è aperta così la strada verso la transizione democratica, una strada fatta anche di numeri, vittime su cui si misura il successo o il fallimento della colossale operazione messa in piedi dall’amministrazione Bush nel 2003, una guerra che secondo il presidente americano avrebbe dovuto rendere quel paese una nazione libera e democratica, un modello per tutto il Medio Oriente, “un esempio di nazione vitale, pacifica e capace di auto governarsi”.
Per intensità gli attacchi dell’8 dicembre sono stati simili a quelli avvenuti il 25 ottobre scorso contro il Ministero della Giustizia e il Governatorato di Baghdad, in cui erano morte 155 persone, e a quelli del 19 agosto in cui avevano perso la vita 95 iracheni. Prima di allora altri quindici grandi attentati con centinaia di vittime.
Dall’8 dicembre l’idea di Baghdad come una città sicura inizia ad offuscarsi e dopo il panico dei primi momenti iniziano ad emergere i soliti dubbi, interrogativi su questioni che come al solito rimarranno irrisolte. Il primo riguarda sicuramente il numero delle vittime, anche in questo caso diverso da quello diramato dagli organi di governo: 77 secondo le autorità, 127 per i media iracheni indipendenti; una replica di quanto avvenuto due giorni prima con le vittime della scuola elementare di Sadr City, notizia liquidata dai telegiornali vicini al governo con un servizio di circa quaranta secondi. Numeri ufficiali sui quali si gioca la credibilità di un establishment che cerca di trascinare il paese fuori dal pantano della guerra civile e per farlo continua a sostenere che negli ultimi 18 mesi gli attentati in Iraq sono fortemente diminuiti.
In ottobre le autorità di Baghdad hanno diffuso una notizia secondo la quale tra il 2004 ed il 2008 i morti causati dalle violenze sarebbero stati 85 mila. Prendendo in esame l’intero conflitto, l’Iraq Body Count, il progetto sulla sicurezza che dal 2003 registra le vittime della guerra irachena, parla di 94.705 -103.336 morti; nell’ottobre 2006, Lancet aveva pubblicato numeri numero totalmente diversi: 655 mila iracheni rimasti uccisi a causa degli effetti dell’invasione.
Anche se molti analisti ritengono che a partire dal 2008 l’Iraq è diventato un paese sicuramente più sicuro e che questo è dovuto principalmente alla consolidata distribuzione settaria avvenuta in seguito ai violenti scontri registrati tra il 2005 e il 2007, c’è comunque chi si interroga ancora sugli effetti della guerra scatenata dall’amministrazione Bush contro il regime di Saddam Hussein. Dubbi che riaffiorano soprattutto ora che dall’altra parte del mondo si comincia a puntare il dito contro chi continua a giustificare le finalità di quel conflitto. Tony Blair, che nel 2010 sarà chiamato a rispondere della decisione di invadere l’Iraq, continua infatti ad affermare che deporre il dittatore iracheno sarebbe stato comunque “giusto”, anche di fronte alla certezza che non esisteva alcun arma di distruzione di massa. A convincere Blair della necessità di schierarsi al fianco di George W.Bush sarebbe stata la “consapevolezza” che il leader iracheno “rappresentava una minaccia per tutta la regione”.
Sta di fatto che a sei anni e mezzo di distanza dall’invasione e a pochi mesi dal ritorno a casa di tutti i militari americani, l’Iraq deve ancora fare i conti con la sicurezza, un’emergenza che con il passare del tempo diventerà sempre più un affare iracheno, un affare che può essere riassunto nelle parole di Abbas al Bayati, membro della Commissione Difesa del Parlamento iracheno: “la popolazione ha bisogno di risposte convincenti dai comandanti della sicurezza” perché “se la sicurezza verrà meno, crollerà tutto”.
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di Michele Paris
La recente inaugurazione di un gasdotto che collegherà la Cina occidentale con il Turkmenistan è solo uno degli ultimi sviluppi dell’accesa disputa in corso tra le varie potenze mondiali per il controllo delle risorse naturali in Asia centrale. Il nuovo impianto, lungo oltre 1.800 km, entrerà a regime tra il 2012 e il 2013 e trasporterà annualmente 40 milioni di metri cubi di gas naturale - vale a dire circa la metà dell’attuale consumo totale cinese - attraverso il Kazakistan e l’Uzbekistan fino alla provincia dello Xinjiang, da dove verrà poi distribuito in altre 14 province dello sconfinato paese.
L’importanza strategica dell’accordo di fornitura è stata sottolineata dalla presenza alla cerimonia inaugurale presso il sito di Samandepe del presidente cinese, Hu Jintao. Secondo uno schema consolidato in altri paesi ricchi di risorse naturali, Pechino contraccambierà la possibilità di accedere alle riserve energetiche turkmene con la costruzione d’infrastrutture e la concessione di prestiti a tasso agevolato alle repubbliche centro-asiatiche. Con tutta l’intenzione, da parte della Cina, di estendere la propria influenza in un’area cruciale del pianeta, caratterizzata dalla presenza d’ingenti quantità di petrolio e gas naturale.
Fino al suo crollo nel 1991, era stata l’Unione Sovietica ad aver mantenuto in Asia centrale un dominio assoluto tramite una fitta rete di “pipeline”. Negli ultimi anni, tuttavia, Mosca ha visto crescere una seria minaccia al proprio monopolio sia da parte dell’Europa e degli Stati Uniti che dalla Cina. La costruzione pianificata da tempo del gasdotto “Nabucco” dovrebbe infatti rifornire i paesi europei passando attraverso l’Azerbaijan, la Georgia e la Turchia, riducendo la dipendenza proprio dalle forniture russe. La Cina, da parte sua, sta invece puntando sempre più sulle riserve di quest’area, nel tentativo di diversificare le forniture dall’Africa e dal Medio Oriente, costantemente esposte alla minaccia navale americana nell’Oceano Indiano.
Nonostante l’aggressiva mossa di Pechino in Turkmenistan s’inserisca precisamente in una disputa energetica tra quest’ultimo paese e la Russia, Mosca in realtà non sembra preoccuparsi più di tanto della Cina. La realizzazione del nuovo gasdotto sino-turkmeno, oltre a non avere effetti diretti sul principale mercato del gas russo - quello occidentale - produce d’altra parte un effetto gradito alla Russia: impedire l’accesso dell’Europa alle riserve del Turkmenistan. Infatti, secondo i piani dell’UE, i giacimenti di questo paese avrebbero dovuto contribuire in maniera decisiva ad alimentare il progetto “Nabucco”. Una prospettiva con ogni probabilità naufragata in seguito all’accordo appena stipulato con Pechino.
A mettere in difficoltà il progetto “Nabucco” d’altronde vi è anche, com’è noto, il cosiddetto South Stream, il gasdotto annunciato nel 2007 che consentirebbe a Mosca di mantenere il monopolio delle forniture di gas all’Europa, passando attraverso il Mar Nero e la Bulgaria. Allo stesso modo, gli altri paesi dell’Asia centrale che dovrebbero mettere a disposizione le proprie riserve di gas naturale per il piano alternativo europeo - in primo luogo l’Azerbaijan - continuano a mostrare perplessità e a stare molto attenti a non guastare i rapporti con la Russia.
Per Russia e Cina, in ogni caso, la minaccia maggiore in Asia centrale rimane quella statunitense, soprattutto dopo la recente decisione di inviare nuove truppe in Afghanistan in vista di una presenza che si protrarrà ancora per molti anni. Proprio per contrastare l’influenza di Washington, nel 2001 fu fondata l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO), della quale fanno parte, oltre a Russia e Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, mentre India, Iran, Mongolia e Pakistan per ora vi partecipano come “osservatori”.
Tramite l’SCO, negli ultimi anni i due membri più potenti hanno spinto più di una repubblica centro-asiatica a chiudere basi militari americane presenti sui loro territori. Le esercitazioni militari congiunte russo-cinesi sono servite inoltre a mandare un messaggio molto chiaro, cioè che nell’area non verranno permesse nuove “rivoluzioni colorate”, sul modello di quella georgiana del 2003 o in Kirghizistan nel 2005, sponsorizzate dagli Stati Uniti per promuovere i propri interessi nelle ex repubbliche sovietiche.
Per comprendere la centralità del petrolio e del gas naturale nei rapporti di forza tra le potenze del pianeta in Asia centrale e, soprattutto, la crescita costante dell’influenza di Pechino in quest’area, sarebbe stato sufficiente ascoltare le parole dei leader presenti alla cerimonia d’inaugurazione del nuovo gasdotto che collegherà Cina e Turkmenistan.
Il presidente di quest’ultimo paese, Gurbanguly Berdimuhamedow, ha infatti esplicitamente assegnato un grande valore “non solo commerciale al gasdotto, ma anche politico”; mentre il presidente uzbeko Islam Karimov ha elogiato la Cina per la sua politica improntata alla “saggezza e alla lungimiranza” e per il ruolo ormai assunto di “garante della sicurezza globale”.
Una evidente prova di forza, dunque, quella cinese in Asia centrale nella battaglia per il controllo delle forniture energetiche che però, assieme alle altre questioni che contrassegnano questa porzione di continente, promette di intensificare le tensioni già esistenti. Con il rischio concreto di generare ulteriore instabilità e nuovi conflitti negli anni a venire.
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di mazzetta
Il passaggio dall'amministrazione Bush a quella Obama non ha cambiato molto per Israele, almeno in apparenza. La richiesta dell'amministrazione americana per il congelamento degli insediamenti ha dato fastidio, ma non è stata un'offesa irreparabile e neppure un presa di posizione capace di far cambiare direzione al governo più di destra che abbia mai avuto Israele. Con Bush, Israele ha avuto carta bianca: ha potuto bombardare il Libano, devastare Gaza e proseguire nell'opera di colonizzazione della West Bank, (un'operazione che ha avuto impulso proprio in coincidenza con l'avvento di George W. alla Casa Bianca) che ha fatto sì che i coloni - che prima di allora in Palestina erano poche migliaia, oggi siano diventati mezzo milione.
Anche il muro dell'apartheid e la divisione della West Bank sono novità del terzo millennio, intraprese con la tacita complicità dei neo-conservatori americani; non per caso il muro è stato cominciato nel giugno del 2002. Con i bombardamenti di Libano e Gaza Israele ha provocato una strage fatta di oltre duemila vittime e migliaia di feriti, oltre alle distruzioni materiali.
L'operazione di Gaza è stata particolarmente crudele, nei modi come nelle motivazioni che hanno spinto il governo di Tel Aviv all'azione. Si è trattato di una strage “elettorale”, così è stata letta anche in Israele, decisa da un premier, Olmert, ormai rovinato da accuse penali e da Livni, ministro degli esteri, che cercava nella guerra quel consenso che doveva sostenerla alle elezioni ormai imminenti. L'operazione ha goduto comunque di larghi consensi nel paese: tutti sapevano che dopo il termine del mandato di Bush azioni del genere avrebbero avuto un costo politico molto più alto e tutta la popolazione condivideva l'idea di essere “minacciata” dai detenuti a Gaza.
Bombardare l'umanità reclusa di Gaza è stato un crimine di guerra, tanto evidente che non c'era bisogno della conferma della commissione ONU guidata da Goldstone; ed è per questo che Israele rifiuta sia le conclusioni della commissione che le richieste di ulteriori indagini ed inchieste sull'operazione “Piombo Fuso”. La politica di segregazione è continuata anche dopo l'operazione militare, Israele non ha permesso l'ingresso ai materiali da costruzione e Gaza rimane un cumulo di rovine abitata per la metà da minorenni, senza accesso i servizi essenziali.
Da Gaza si doveva stanare Hamas, che aveva resistito al tentativo di golpe ordito da Fatah con il consenso e l'aiuto di Israele, Usa, Egitto e Giordania che avevano armato il “terrorista” Dahlan e infiltrato armi e uomini a Gaza. I golpisti furono ridotti alla fuga dagli uomini di Hamas (che aveva vinto le elezioni) e l'operazione Piombo Fusa è fallita miseramente, spianando la via da una parte al rafforzamento di Hamas e dall'altra alla sconfitta di Livni e all'affermazione di un governo israeliano che dipende per la sua sopravvivenza dall'estrema destra e dai fanatici religiosi.
Governo che irride le richieste di Obama, ben sapendo che l'americano ha problemi più incombenti e, con l'aiuto dell'Egitto, procede nel murare il confine occidentale di Gaza, costruendo un altro muro che corre trenta metri in profondità, a impedire la costruzione dei tunnel con i quali si rifornisce Gaza sotto assedio. Il nuovo governo israeliano è pieno di gente che pensa che buona parte dei Territori Occupati debba essere conquistata con la forza e sostiene con veemenza la colonizzazione; non vuole sentire parlare di accordi i pace, ma solo di concessioni israeliane e molto limitate.
Figlio di questo clima è l'ultimo “piano” proposto da Olmert ad Abbas, presidente illegittimo della West Bank. Israele manterrebbe buona parte delle colonie, offrendo in cambio un po' di terra vicina a Gaza e altra nel deserto del Negev, oltre a un “collegamento” tra Gaza e West Bank sotto sovranità israeliana, su Gerusalemme Est nemmeno una parola. Poi, se i palestinesi rifiutano la generosa offerta di terra desertica, si potrà sempre dire che “non vogliono la pace”.
Con la fine dell'amministrazione Bush, ma soprattutto dopo il clamoroso fallimento delle sue politiche e delle sue guerre, ha però ripreso fiato la voce dell'Unione Europea e, in questi giorni, si è fatta sentire per la prima volta la voce del suo primo ministro degli Esteri, quella Ashton fresca di nomina che avrebbe vinto in volata sul nostro D'alema. La prima uscita della signora ha fatto ribollire metà Israele e dato fuoco alle polveri della propaganda contro il ministro europeo.
Lady Ashton ha parlato senza troppe mediazioni diplomatiche, affermando che l'Europa chiede con forza il rispetto dei diritti umani e delle leggi che regolano la responsabilità delle potenze occupanti in Palestina. Ha chiesto la liberazione immediata di Gaza e stigmatizzato il blocco della striscia, così come la politica di colonizzazione. Dopo anni di silenzio il primo ministro degli Esteri europeo ha detto in pratica che la posizione della UE è ancora quella di dieci anni fa: due stati, con una Gerusalemme capitale divisa e confini non diversi da quelli riconosciuti dall'ONU.
Tanto è bastato perché la propaganda israeliana vomitasse di tutto su Lady Ashton, accusandola di essere, riassumendo, un'aristocratica razzista e antisemita. Peccato che Lady Ashton non sia affatto nobile e che la nomina a Lady l'abbia conquistata dopo anni di attivismo e militanza nel partito laburista e in diverse organizzazioni ecologiste e in difesa dei diritti umani. Peccato soprattutto che la Ashton non abbia parlato a titolo personale, ma esprimendo la posizione ufficiale della UE. Ma i commentatori filo-israeliani - in Israele e all'estero - hanno preferito buttarla sul personale come al solito; anche le gentili richieste di Obama per il congelamento della colonizzazione sono state trattate come espressioni personali di una brutta persona spinta da motivazioni malvagie.
A margine, il ministro degli esteri della UE non ha mancato di censurare l'operato di Blair (Inviato Speciale per il Medioriente) e del Quartetto (USA, Russia, UE e ONU), che rispettivamente da mesi e da anni assecondano senza mordere qualsiasi iniziativa iniziativa israeliana. Un censura esplicita, con la Ashton che informa Blair (ex leader del suo stesso partito) che deve dimostrare di valere i soldi che la UE ha investito nella sua missione, con qualche successo più rilevante della semplice apparizione di pattuglie della polizia palestinese per le strade di Jenin. Una rumorosa mozione di sfiducia che segue la bocciatura della candidatura di Blair alla presidenza della UE ed è abbastanza evidente che per il principale “complice” europeo di Bush si siano chiuse molte porte: non gode più di alcuna fiducia all'estero e nemmeno in patria, nemmeno all'interno del suo stesso partito.
L'esordio del ministro degli Esteri europeo ha avuto però un effetto paradossale nel nostro paese, nel quale la politica interna è interessata a quella estera solo se utile in chiave nazionale o possibile essere fonte di tangenti. Adesso che c'è il ministro degli Esteri europeo nessuno è sembrato interessato ad esprimersi nel merito a favore o contro. Il rischio evidente è che sotto l'ombrello del super-ministro europeo, che volerà alto su temi planetari, ci sia la proliferazione d’iniziative nazionali - se non regionali - improntate al dilettantismo e figlie di occasioni estemporanee.
Stiamo parlando di iniziative come il triste caso della collaborazione tra l'assessore milanese Prosperini con il regime eritreo, ma anche più preoccupanti, come le aperture di Berlusconi ad autocrati come Gheddafi, Putin e Lukashenko o, ancora, la gestione “riservata” dei rapporti con le dittature delle ex-colonie da parte della Francia. Di sicuro, come già verificato in questo caso, le iniziative del ministro degli Esteri della UE scivoleranno nell'indifferenza al di fuori del dibattito politico. Qui, Lady Ashton non fa audience.