I bombardamenti indiscriminati di Israele sulla striscia di Gaza continuano a incontrare la più o meno aperta approvazione di quasi tutto lo spettro politico occidentale. Anche i partiti teoricamente di sinistra o centro-sinistra si sono uniti al coro dei sostenitori dello stato ebraico e del diritto all’auto-difesa, nonostante quest’ultimo sia come al solito diventato da subito un atto di “punizione collettiva”, ovvero un crimine di guerra codificato dal diritto internazionale. Questa dinamica risulta evidente soprattutto in Gran Bretagna, dove, a fronte di un ampio sostegno popolare per i palestinesi, la leadership attuale del Partito Laburista ha accelerato la svolta anti-democratica degli ultimi anni con una campagna ultra-repressiva diretta contro chiunque intenda esprimere una qualche forma di solidarietà agli abitanti di Gaza.

Prima taglia luce e acqua e impedisce l’ingresso di cibo e personale sanitario delle Nazioni Unite. Poi indica l’uscita a Sud di Gaza per i civili, salvo bombardarli appena si mettono in viaggio. La “unica democrazia del Medio Oriente” spara sui civili in fuga. Vuole lavare nel sangue l’onta militare subita e ignora il richiamo di tutti gli organismi internazionali che sostengono il diritto alla difesa ma non alla rappresaglia sui civili, contraria al diritto umanitario internazionale. Anche l’OMS attacca le decisioni di Israele sul trasferimento di 22 ospedali: semplicemente impossibile, moriranno tutti i pazienti. Israele disegna la sua etica e la sua virtù militare in un unico orrore.

Falso il racconto di bombe per colpire i terroristi: Hamas li aspetta nei bunker. Sono i civili palestinesi l’obiettivo vero dell’artiglieria e dell’aviazione ebraica. Per terrorizzare oggi e rubare le terre di chi va via domani, per proseguire l’espansione coloniale israeliana sui territori palestinesi. Quelli che usciranno da Gaza non vi rientreranno più. E’ un’operazione di sostituzione etnica, non di antiterrorismo. E’ questo il senso profondo della rappresaglia israeliana: uccidere e cacciare per poi meglio occupare. E non c’entra Hamas e il terrorismo: faceva lo stesso anche prima del 2006 quando governava Al Fatah (OLP) alla quale, pure, etichettava come terrorista.

Com’è possibile che un paese minacci pubblicamente di rendersi responsabile di crimini di guerra, talmente gravi da essere equiparati a un genocidio, e anzi li metta in atto davanti agli occhi di tutto il mondo senza subire la minima conseguenza o anche solo la condanna della “comunità internazionale”, parte della quale addirittura garantisce il proprio appoggio a questo stesso paese? La risposta è facile da individuare per chi sta seguendo i drammatici eventi mediorientali di questi giorni e ha a che fare con il fatto che il paese (regime) in questione si chiama Israele ed è protetto in tutto e per tutto dagli Stati Uniti perché, in primo luogo, assicura la promozione degli interessi americani in una delle regioni strategicamente più importanti del pianeta.

A meno di tredici mesi dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, Robert F. Kennedy jr. ha deciso di rompere ufficialmente con la tradizione famigliare e di abbandonare il Partito Democratico per partecipare alla corsa alla Casa Bianca da candidato indipendente. Figlio di Bobby Kennedy e nipote di JFK, l’avvocato e attivista appartenente a una delle dinastie politiche americane più note e influenti era entrato nella competizione lo scorso aprile, facendo segnare quasi subito livelli di gradimento di tutto rispetto nonostante l’ostilità dei media mainstream e del suo stesso partito. Da “indipendente”, Kennedy jr. potrebbe intercettare voti tra gli elettori democratici e repubblicani, anche se l’immediata riconoscibilità del nome e l’insistenza su un’agenda marcatamente “anti-sistema” non gli saranno con ogni probabilità sufficienti a rompere il monopolio dei due principali partiti che dominano la scena politica americana.

Al di là delle implicazioni strategiche e politiche, l’attacco senza precedenti lanciato contro lo stato sionista dalla resistenza palestinese a partire dalla nottata di venerdì rappresenta un atto di rivolta legittimo contro il regime di occupazione. Le ragioni che hanno portato alla sconvolgente esplosione di violenza in Medio Oriente sono universalmente note, mentre l’ultima provocazione di Israele risale solo ad alcuni giorni fa con la marcia di centinaia di coloni ebrei sul sito sacro ai musulmani della moschea di Al-Aqsa grazie alla protezione delle forze di polizia. Anche se è per il momento difficile prevedere se il conflitto che ne è seguito si allargherà a tutta la regione o resterà circoscritto e di breve durata, i riflessi che avrà sugli equilibri mediorientali si possono già da ora ipotizzare, a cominciare da quelli sul processo di “normalizzazione” in atto – quanto meno fino a pochi giorni fa – tra Israele e alcuni paesi arabi.


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