Il faccia a faccia di Sochi dopo quasi un anno tra Putin ed Erdogan non ha come previsto risuscitato l’accordo del Mar Nero sul grano né, tantomeno, ha dato un qualche impulso al processo diplomatico per la sospensione delle ostilità in Ucraina. Queste aspettative appartenevano tuttavia soprattutto a governi e commentatori occidentali, mentre il senso del vertice di lunedì andava ricercato con ogni probabilità altrove. L’interesse principale risiedeva piuttosto nella verifica dello stato dei rapporti tra i due leader e i rispettivi paesi dopo le elezioni in Turchia del maggio scorso e il presunto riallineamento strategico di Erdogan verso occidente.

La destabilizzazione della Siria a causa delle mire strategiche americane ha scatenato negli ultimi giorni una serie di violentissimi scontri nelle province nord-orientali controllate dallo stesso contingente militare di occupazione illegale degli Stati Uniti e dai loro alleati locali. Quello che è iniziato come un regolamento di conti si è rapidamente trasformato in una battaglia tra le milizie curde e le formazioni armate delle varie tribù arabe della regione, teoricamente alleate sotto la supervisione di Washington. Nel fine settimana, una certa calma sembra essere stata ristabilita nell’area, ma le tensioni che minacciano di riesplodere rischiano di far crollare i piani USA per continuare a manovrare contro il governo di Damasco.

La giornalista britannica, Vanessa Beeley, ha proposto una cronologia dettagliata dei fatti di settimana scorsa sul suo blog ospitato dalla piattaforma Substack.

Thomas Sankara fu il leader africano più significativo di tutto un periodo. Nella sua qualità di presidente del Burkina Faso dal 4 agosto del 1983 al 15 ottobre del 1987, ebbe la capacità di coniugare le aspirazioni dei popoli africani a una vita a differente con la ferrea volontà di emanciparsi dal dominio imperialista e neocoloniale. Fu, come politico e come pensatore rivoluzionario, quello maggiormente in grado di tradurre in linguaggio africano gli obiettivi e le tematiche del movimento di liberazione che a varie riprese ha scosso l’intero pianeta fin dall’inizio del processo di decolonizzazione.

Siamo in molti ad auspicare da tempo che l’esempio storico del comandante Hugo Chavez possa radicarsi e moltiplicarsi in molte aree del pianeta, in particolare in Africa e in Medio Oriente. I recenti avvenimenti in Niger e Gabon sembrano cominciare, sia pure ancora timidamente e con vari aspetti da chiarire, a questo auspicio. Va al potere negli Stati appena citati come da più tempo in altri della cintura saheliana (Burkina Faso, Mali, Ciad) una nuova generazione di giovani militari di ideologia nazionalista e quindi tendenzialmente terzomondista e sorretti da un forte appoggio popolare.

Di tutti tali recenti episodi, caratterizzati in modo frettoloso e superficiale come colpi di Stato dalla stampa occidentale, quello del Gabon assume una sua rilevanza particolare.

Nel cuore della notte di mercoledì 30 agosto, poco dopo l’annuncio della vittoria elettorale del presidente in carica, Ali Bongo Ondimba (in carica dal 2009 e giunto così al terzo mandato, discendente della famiglia che comanda da più di mezzo secolo nel paese), è stato deposto e tratto in arresto da un gruppo di membri delle forze armate. Il gruppo degli insorti è composto da membri della Guardia Repubblicana, l’élite protettiva presidenziale, insieme a soldati dell’esercito regolare e agenti di polizia. Il fatto che il comando della guardia repubblicana, finora fedelissima a Bongo, ribaltasse la situazione, era piuttosto inaspettato. Ma quanto successo si spiega alla luce di una situazione economico-sociale che non cessa di deteriorarsi, di una corruzione rampante, e di un’esasperazione popolare.


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