L’approdo al governo spagnolo dell’estrema destra erede del franchismo dopo quasi cinquant’anni dalla fine della dittatura sembra essere stato per il momento sventato in seguito al sorprendente esito delle elezioni di domenica. Il Partito Socialista (PSOE) e gli alleati della piattaforma di sinistra Sumar hanno infatti superaro le aspettative della vigilia recuperando terreno fino a impedire quasi certamente la formazione dell’esecutivo di coalizione che avrebbe dovuto essere composto dal Partito Popolare (PP) e dalla formazione neo-fascista Vox. Il risultato è una nuova camera bassa del parlamento spagnolo senza una maggioranza logica ipotizzabile, ma con i socialisti del premier uscente, Pedro Sánchez, teoricamente in grado di mettere assieme i seggi necessari per un nuovo mandato alla guida del paese.

 

Il fattore forse decisivo nello scardinare gli equilibri, che solo fino a pochissimo tempo fa sembravano essere spostati in maniera netta a favore della destra, è stata la relativa mobilitazione di una fascia di elettori riconducibili alla sinistra per impedire appunto la formazione di un governo con la partecipazione di Vox. Una conclusione simile la suggerisce il sensibile aumento dell’affluenza, salita dal 66% del 2019 al 70% del fine settimana, vale a dire la più alta degli ultimi quindici anni.

Era stato lo stesso premier Sánchez a forzare un voto anticipato dopo la netta sconfitta dei partiti di governo nelle elezioni regionali e municipali dello scorso maggio. A beneficiare della débacle era stata appunto la destra e Sánchez si era mosso tempestivamente per cedere l’iniziativa politica al PP e a Vox in previsione dell’inasprirsi delle tensioni sociali provocate dalla guerra russo-ucraina e dalla crisi economica che ne è derivata.

I risultati hanno invece rimescolato le carte, anche se la tenuta del PSOE non è dovuta alla popolarità del partito o del governo uscente. A lungo, il PP e il suo leader, Alberto Núñez Feijóo, avevano confidato in una vittoria a valanga che consentisse la formazione di un governo senza nessun altro partner. Alla fine, il principale partito conservatore spagnolo non è stato in grado nemmeno di raggiungere la maggioranza assoluta con l’appoggio di Vox, con cui governa già in varie regioni del paese iberico. Il PP ha ottenuto in effetti tre milioni di voti in più (33%) rispetto al 2019, passando da 89 a 136 seggi, ma, nonostante l’annunciato sfondamento a livello nazionale, Vox ne ha persi 800 mila, sia pure restando il terzo partito spagnolo con il 12,4% delle preferenze (33 seggi).

I numeri del PP sono inoltre in gran parte la conseguenza dello spostamento dei consensi all’interno dell’elettorato di destra. Oltre a recuperare voti da Vox, i popolari hanno approfittato della sparizione del partito di centro-destra Ciudadanos, già in netto calo quattro anni fa ma comunque in grado di conservare una decina di seggi. Sul fronte opposto, i socialisti hanno registrato un guadagno di novecentomila voti (31,7%) aggiudicandosi 122 seggi (+2). Un incremento favorito a sua volta dalla flessione dei partiti regionali (catalani e baschi) e degli alleati di Sumar (31 seggi; 12,3%). Questa piattaforma elettorale include 15 formazioni di sinistra e centro-sinistra ed è guidata dal principale partner di governo del PSOE, Podemos, e dalla sua leader, la vice-premier Yolanda Díaz. Se paragonata alla prestazione del 2019 di Unidas-Podemos, la perdita è stata di circa mezzo milione di voti.

Le prospettive del PP e di Vox non sono ora incoraggianti. È molto probabile che nessun altro partito entrato in parlamento accetterà di far parte di un esecutivo con l’estrema destra. I partiti tra cui pescare seggi per arrivare alla soglia della maggioranza assoluta (176) sono tutti su base regionale e Vox ha un’agenda centralista e irriducibilmente contraria a qualsiasi genere di autonomia. Le uniche formazioni possibiliste sono un piccolo partito della regione settentrionale della Navarra (UPM) e Coalición Canaria, che già governa con il PP nelle omonime isole. I loro seggi non sarebbero comunque sufficienti. I nazionalisti baschi del PNV hanno sempre valutato la possibilità di accordi con il PP, ma i suoi leader sembrano decisi a non appoggiare un governo centrale che includa Vox.

In Spagna, un governo ottiene la fiducia al primo voto in aula con la maggioranza assoluta della camera bassa (176) o, in seconda battuta, con una maggioranza semplice. Una o più astensioni tattiche potrebbero perciò risultare determinanti. Visto che il PSOE e gli altri partiti che appoggiano l’attuale governo Sánchez hanno ottenuto più seggi (172) rispetto a PP e Vox (170), il candidato del centro-destra Núñez Feijóo necessiterebbe dell’improbabile astensione di una o più di queste formazioni.

La nascita di un nuovo governo di centro-sinistra appare quindi per il momento più probabile, anche se non mancano gli ostacoli. Il primo è rappresentato dalle scelte che farà quello che la stampa spagnola e internazionale ha già definito come l’ago della bilancia, cioè il partito indipendentista catalano Junts dell’ex premier regionale Carles Puigdemont, sotto processo per ribellione con l’accusa di avere organizzato il referendum secessionista nell’ottobre del 2017.

Dando per scontato il voto a favore dei partiti nazionalisti regionali che compongono la coalizione uscente, al PSOE e Sumar basterebbe l’astensione di Junts. Anche questa ipotesi è però problematica. Junts ha votato quasi sempre con l’opposizione di centro-destra negli ultimi quattro anni, soprattutto sulle questioni più importante dell’agenda governativa. Per dare il via libera a un nuovo gabinetto Sánchez, dovranno esserci concessioni significative, ma eventuali promesse che prospettino un percorso verso l’indipendenza della Catalogna scatenerebbero una nuova gravissima crisi politica in Spagna.

Sul risultato complessivamente deludente della destra spagnola hanno influito vari fattori. Dell’impegno dell’elettorato progressista per impedire l’ascesa a Madrid dell’estrema destra si è già accennato e i fatti del fine settimana confermano, in Spagna come altrove, che l’appeal delle formazioni come Vox ha dei limiti fisiologici e, soprattutto, ha a che fare più con il voto di protesta nei confronti di un sistema politico ultra-screditato che con la popolarità dell’agenda neo-fascista.

Per quanto riguarda invece il PP, va ricordato che questo partito negli ultimi anni è passato attraverso una serie di scandali per corruzione che ne hanno macchiato irrimediabilmente l’immagine agli occhi degli elettori non riconducibili alla sua base tradizionale di appoggio. La scelta del leader e candidato primo ministro era apparsa poi non esattamente vincente. Alberto Núñez Feijóo, ex premier della regione galiziana, non solo è stato protagonista di vari scivoloni in campagna elettorale, ma ha anche precedenti inquietanti, essendo stato accostato nel recente passato al noto narcotrafficante galiziano Marcial Dorado.

Svariati sondaggi nei giorni precedenti il voto avevano in ogni caso rilevato una variazione degli equilibri elettorali delle settimane precedenti. Il divieto di pubblicarne gli esiti a ridosso delle elezioni non aveva messo in luce questa dinamica, ma la notizia è circolata dopo la chiusura delle urne, quando è apparso subito evidente il mancato raggiungimento della maggioranza assoluta da parte di PP e Vox. Il tentativo di questi ultimi partiti di vincere le elezioni doveva passare attraverso la denuncia ideologica del cosiddetto “Sanchismo”, cioè di quelle politiche (vagamente) progressiste promosse da un governo che, per contro, sul piano economico e della politica estera si è distinto tutt’al più solo in minima parte dalla destra.

Questa strategia è evidentemente fallita, facendo riemergere la frammentazione del sistema politico spagnolo, fino a pochi anni fa basato sul dualismo PP-PSOE. Le precedenti elezioni avevano d’altra parte già evidenziato questo fenomeno, sintomo del crescente discredito dei partiti tradizionali e della mancanza di un’alternativa credibile. La Spagna era passata attraverso due elezioni generali in appena sei mesi tra il 2015 e il 2016. In seguito ci sarebbe stato un lungo stallo fino alla decisione dei socialisti di astenersi in parlamento per consentire l’installazione di un governo di minoranza del Partito Popolare. Altre due elezioni si sono infine tenute nel 2019, quando il PSOE, Podemos e altri partiti regionali hanno dato vita al primo governo di coalizione spagnolo post-franchista.

Il nuovo parlamento uscito dal voto di domenica verrà convocato il 17 agosto prossimo. Prima e dopo quella data andranno in scena trattative per cercare una soluzione alla luce dei risultati inconcludenti e per evitare un nuovo voto anticipato nei prossimi mesi. Se anche Pedro Sánchez dovesse riuscire a dar vita a un altro esecutivo, le ragioni per festeggiare sarebbero poche, oltre al rinvio dell’appuntamento con il governo dell’estrema destra di Vox. La sconfitta delle forze “regressive”, come le ha definite lo stesso premier uscente domenica sera, non comporterà infatti cambiamenti di rotta riguardo la questione più esplosiva dell’ultimo anno e mezzo, ovvero la guerra in Ucraina.

Il governo PSOE-Podemos ha sposato in pieno la disastrosa campagna anti-russa della NATO, com’è apparso nuovamente chiaro dalla recente visita a Kiev del premier spagnolo. In Ucraina, Sánchez ha ribadito il pieno appoggio al regime di Zelensky, mentre nel summit NATO di due settimane fa a Vilnius aveva promesso il dispiegamento di 700 militari spagnoli in Slovacchia e di altri 250 in Romania nel quadro delle manovre ultra-provocatorie di accerchiamento della Russia che rischiano di far precipitare l’intera Europa in un conflitto rovinoso.

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