L’amministrazione democratica americana starebbe studiando un piano per ristabilire una qualche forma di “governance” a Gaza dopo che le forze armate israeliane avranno terminato il massacro in corso di civili palestinesi. L’opzione che la Casa Bianca e il dipartimento di Stato giudicano come la migliore o, più precisamente, la meno peggio è l’assunzione delle responsabilità di governo nella striscia da parte dell’Autorità Palestinese (AP). Questa soluzione, per stessa ammissione di molti esponenti del governo USA, è tutt’altro che semplice e sembra al momento osteggiata anche dal primo ministro Netanyahu e dal suo gabinetto di fanatici sionisti. Il fatto che a Washington si continui a nutrire l’illusione di una via d’uscita alla crisi palestinese puntando sull’ultra-screditato organo guidato da Mahmoud Abbas (Abu Mazen) dimostra a sufficienza lo stato comatoso della diplomazia americana, assieme alle ragioni della rapida perdita di influenza degli Stati Uniti nella regione mediorientale.

 

Il dilemma post-bellico è stato trattato in questi giorni da un lungo articolo della testata on-line Politico, basato su interviste con anonimi funzionari e diplomatici dell’amministrazione Biden. Da metà ottobre sono in corso discussioni e vengono prodotti documenti di studio per gettare le basi di un meccanismo di stabilizzazione nella striscia. Il piano americano si dovrebbe sviluppare in varie fasi, tra cui il dispiegamento a Gaza di una “forza internazionale” in previsione appunto del ritorno – dopo le elezioni del 2006 vinte da Hamas e lo scontro con Fatah dell’anno successivo – dell’Autorità Palestinese con compiti di governo.

Le fonti americane di Politico ammettono che le preferenze della Casa Bianca e del dipartimento di Stato non corrispondono a quelle della popolazione palestinese. L’AP e Abbas, che governano nominalmente la Cisgiordania, sono giustamente disprezzati per la corruzione e il grado di inefficienza che li caratterizza, ma soprattutto per essere di fatto agenti di Israele e Stati Uniti nella repressione dei palestinesi. Questo concetto lo ha confermato ricorrendo a un eufemismo anche un funzionario del dipartimento di Stato USA, secondo il quale per l’Autorità ci sono “seri problemi di legittimità e competenza”.

A peggiorare la situazione per Washington c’è il fatto che i “problemi” a cui si fa riferimento derivano in gran parte proprio dalla collaborazione con Israele e Stati Uniti e dall’abbandono di fatto dei valori della “resistenza” e della lotta contro l’occupazione sionista da parte di Fatah, cioè il partito che domina l’Autorità Palestinese. Ciononostante, l’amministrazione Biden vorrebbe rilanciare questo organo di governo assegnandogli il controllo di Gaza sull’onda di una guerra genocida la cui responsabilità è condivisa equamente da Israele e Stati Uniti.

Visto che l’opposizione a questo piano da parte della popolazione palestinese sarebbe pressoché totale, la Casa Bianca cercherebbe di consolidare la posizione dell’AP con lo stesso mezzo utilizzato in questi anni in Cisgiordania, cioè la corruzione dei suoi leader. Politico spiega infatti che una parte centrale del progetto allo studio per la striscia è l’incremento di “aiuti relativi alla sicurezza” da parte del governo USA. L’altro strumento sarebbe la repressione, sotto forma di “consiglieri” americani in appoggio alle forze di sicurezza dell’Autorità.

Anche senza considerare il disgusto dei palestinesi per Abbas e l’AP, la lista degli ostacoli all’attuazione dell’improbabile piano americano è molto lunga. Non è chiaro ad esempio quale paese o istituzione sovranazionale sia disposta ad assumersi l’onere di inviare un contingente – presumibilmente militare – per “stabilizzare” la striscia al termine delle operazioni israeliane. Biden vorrebbe evidentemente scaricare la responsabilità su uno o più paesi arabi, ma nessuno di questi ultimi, già denunciati in queste settimane per la sterile opposizione alla violenza sionista, sembra essere interessato a svolgere il ruolo di collaborazionista in una nuova forma di occupazione.

Il problema principale, citato solo brevemente dall’articolo di Politico, è rappresentato tuttavia da Hamas. Il calcolo americano si basa sul successo di Israele nell’eliminazione di Hamas dalla striscia. Il raggiungimento di questo obiettivo è però altamente improbabile. Se anche l’organizzazione islamista dovesse essere alla fine indebolita al punto da non rappresentare più una minaccia per lo stato ebraico, i principi di resistenza e liberazione che Hamas incarna sono organici alla popolazione palestinese e la resistenza all’occupazione, così come all’eventuale ritorno dell’AP a Gaza, resterebbe un fattore che rende impossibile la stabilizzazione auspicata da Washington.

A ben vedere, il piano americano punta a riesumare la soluzione dei “due stati”, visto che i regimi arabi potrebbero essere convinti ad appoggiare il progetto USA solo agitando il miraggio dello stato palestinese. Nonostante quest’ultimo scenario servirebbe, com’è servito finora, a tenere a bada per quanto possibile i palestinesi per lasciare mano libera all’espansione degli insediamenti israeliani, il governo di Tel Aviv sarebbe difficilmente disposto ad avallare le manovre degli Stati Uniti.

Infatti, Politico parla di uno scontro frontale tra Biden e Netanyahu sul piano americano per Gaza. L’obiettivo dell’ultra-destra sionista è di liquidare definitivamente l’ipotesi dei “due stati” e di completare la pulizia etnica nella striscia. L’assegnazione all’Autorità Palestinese della responsabilità di governo a Gaza lascerebbe invece intatto, almeno a livello di ipotesi, l’opzione dello stato palestinese e, in ogni caso, finirebbe per alimentare ulteriormente l’opposizione contro un organo senza legittimità per il popolo palestinese.

Le variabili sono comunque molteplici. In primo luogo, non è per nulla chiaro quale sia il passo successivo di Netanyahu a Gaza quando dovranno cessare le manovre militari. Non è nemmeno certo che Netanyahu resterà alla guida del governo di Israele nel momento in cui si decideranno i giochi nella striscia. Biden e i democratici devono anche fare attenzione alle dinamiche elettorali sul fronte interno. L’avvicinarsi dell’inizio ufficiale della campagna elettorale per le presidenziali del 2024 fa in modo che ogni giorno di massacri a Gaza pesi negativamente sulle chances di vittoria dell’attuale presidente.

er il momento non ci sono indicazioni, quanto meno a livello pubblico, che la Casa Bianca intenda fare pressioni con mezzi convincenti su Netanyahu per una de-escalation a Gaza, ad esempio minacciando lo stop alla fornitura di armi. Il dominio dei “neo-con” sulla diplomazia USA e l’ipoteca che la lobby sionista detiene su buona parte della politica americana impediscono una presa di posizione energica contro i fanatici al potere a Tel Aviv, soprattutto con l’approssimarsi delle elezioni.

Per Netanyahu, ad ogni modo, non esistono per ora alternative alla prosecuzione della guerra. Un cessate il fuoco permanente comporterebbe la caduta del suo governo, come hanno già minacciato gli alleati ultra-radicali del premier. La fine dell’esecutivo di estrema destra, a sua volta, decreterebbe probabilmente anche la fine politica di Netanyahu e il rischio molto serio di una condanna nel processo per corruzione in cui è invischiato. Il massacro di donne e bambini a Gaza proseguirà quindi ancora per qualche tempo, in attesa che l’opposizione interna a Netanyahu prenda vigore e, soprattutto, che l’arco della “Resistenza” in Medio Oriente si mobiliti in maniera decisiva per imporre una soluzione al conflitto al di là dei termini auspicati dagli Stati Uniti e dal regime sionista.

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