L’implementazione del piano ideato da Stati Uniti e Canada per far fronte all’ennesima emergenza che sta vivendo Haiti continua a incontrare ostacoli, mentre le forze di sicurezza dell’isola caraibica stanno conducendo una serie di sanguinose operazioni contro le gang armate che controllano ampi settori del paese e, in particolare, della capitale Port-au-Prince. Le dimissioni forzate del primo ministro ad interim, Ariel Henry, avevano fatto intravedere all’inizio della settimana scorsa uno sblocco in tempi brevi della crisi, ma i disaccordi tra le forze indigene scelte da Washington e Ottawa per gestire un impopolare processo di “transizione” politica hanno rimesso tutto in discussione, inclusi i tempi del dispiegamento del nuovo contingente militare straniero con l’incarico ufficiale di stabilizzare una situazione ormai quasi fuori controllo.

 

Le vicende haitiane rappresentano l’emblema stesso del potenziale distruttivo dell’imperialismo nordamericano, che da oltre un secolo interviene a ripetizione in questo paese, perpetuando povertà, devastazione sociale, violenza e corruzione endemica. La crisi in corso è infatti il risultato della manipolazione degli eventi seguiti all’assassinio nel luglio 2021 dell’allora presidente, Jovenel Moïse. Per riempire il vuoto creato dalla morte di quest’ultimo, il governo americano, con l’appoggio dei principali alleati occidentali, aveva imposto e poi sostenuto Henry nella posizione di primo ministro nonostante l’assenza di qualsiasi forma di legittimazione legale e in contrapposizione al volere della stragrande maggioranza della popolazione e della società civile haitiana.

Già contro Moïse si erano verificate proteste e manifestazioni a causa del suo rifiuto ad abbandonare l’incarico di presidente e a indire nuove elezioni al termine del mandato. Stesso risultato ha avuto l’assunzione della carica di primo ministro ad interim di Henry, culminata negli ultimi mesi in un’esplosione di violenza e illegalità, con il progressivo intervento di bande armate in grado di mettere in ginocchio un paese già allo stremo e di sostituirsi in larga misura all’autorità dello stato.

Basandosi su una richiesta fatta formalmente da Henry nell’autunno del 2022, lo scorso ottobre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva approvato, con l’astensione di Russia e Cina, la creazione di una forza militare di intervento a Haiti. Gli USA e le altre potenze occidentali avevano però subito escluso l’ipotesi di inviare direttamente propri uomini. Il discredito di questi paesi agli occhi degli haitiani è d’altra parte difficile da sopravvalutare visti i precedenti, incluso quello della missione ONU di “stabilizzazione” MINUSTAH, conclusasi nel 2018.

A fare il lavoro sporco era stato scelto allora il Kenya, il cui presidente, William Ruto, a sua volta contro l’opinione pubblica del suo paese, si era fatto convincere a inviare un migliaio di ufficiali di polizia sull’isola caraibica, finanziati principalmente dagli Stati Uniti. Anche se l’Alta Corte del Kenya aveva giudicato incostituzionale l’impiego di poliziotti all’estero, Ruto aveva confermato l’impegno con Washington fino a che, alla fine di febbraio, si era incontrato a Nairobi con il premier ad interim di Haiti, Ariel Henry, per stabilire i dettagli dell’operazione formalmente ratificata dall’ONU.

Alcuni giorni dopo, la situazione ha preso tuttavia una piega imprevista. Henry, al rientro dalla sua trasferta, è stato vittima di una sorta di sequestro, quasi certamente orchestrato da Washington. Al suo volo era stato vietato l’atterraggio in Repubblica Dominicana, da dove avrebbe poi dovuto rientrare a Port-au-Prince. L’aereo è stato dirottato a Porto Rico e ad attendere Henry c’erano agenti americani che gli hanno reso note le nuove decisioni sul futuro politico di Haiti prese da Washington e Ottawa.

Per dare un’apparenza di legittimità alle manovre già in atto, lunedì scorso a Kingston, in Giamaica, è stata convocata una riunione della Comunità Caraibica (CARICOM), alla presenza del segretario di Stato USA, Antony Blinken. Il vertice, da cui era stato significativamente escluso lo stesso Henry, ha deliberato la creazione a Haiti di un organo non eletto denominato “Consiglio Presidenziale”, composto da nove membri, di cui due senza diritto di voto, incaricati di selezionare un nuovo primo ministro e un gabinetto provvisorio.

Questo organo include rappresentanti della politica, del business, della chiesta Cattolica e della società civile di Haiti e l’obiettivo finale è l’organizzazione di nuove elezioni. Il meccanismo studiato serve in sostanza a dare l’impressione di un processo inclusivo che raccolga ampi consensi nel paese, visto anche che nel “Consiglio” è stato deciso di inserire un rappresentante della piattaforma che nell’estate del 2021 aveva sottoscritto l’Accordo di Montana, un documento nel quale svariati movimenti popolari, partiti di opposizione e altri soggetti avevano invocato una soluzione domestica alla crisi, senza cioè ulteriori interventi dall’estero.

Ariel Henry, ad ogni modo, era apparso indeciso riguardo le dimissioni che i suoi sponsor nordamericani erano intenzionati a chiedergli. Secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stato un intervento diretto del primo ministro canadese, Justin Trudeau, a convincerlo a farsi da parte. Alla fine, Henry ha annunciato di essere pronto a dimettersi nel momento in cui si sarebbe insediato il nuovo “Consiglio presidenziale”.

A questo punto sono sorti però altri ostacoli. A metà della settimana scorsa alcuni elementi indicati per occupare posizioni nel “Consiglio Presidenziale” si sono dichiarati pubblicamente contrari alla “road map” dettata da USA e Canada nel vertice CARICOM. Viste le dimissioni di Henry e lo stallo nella formazione del nuovo organo di transizione, anche il presidente del Kenya ha annunciato la sospensione dell’invio dei mille agenti di polizia per la nuova operazione sotto l’egida dell’ONU, almeno fino a quando non ci sarà un nuovo interlocutore ufficiale per gestire la “missione”.

A Haiti, la situazione è nel frattempo ulteriormente peggiorata. Le bande criminali hanno messo a ferro e fuoco la capitale. Stazioni di polizia sono state assaltate e date alle fiamme. Dalle carceri haitiane sono evasi migliaia di prigionieri, mentre le attività commerciali e i servizi pubblici hanno cessato di fatto di funzionare. Decine di migliaia di haitiani sono stati poi costretti a lasciare le loro abitazioni a causa delle violenze e della distruzione causate dalle gang.

Il capo di una delle bande più potenti, l’ex ufficiale di polizia Jimmy “Barbeque” Cherizier, dopo essersi alleato con altre formazioni armate, ha approfittato del caos e del vuoto legale venutosi a creare per atteggiarsi a leader rivoluzionario impegnato a distruggere una classe politica ultra-corrotta e a riconsegnare il potere nelle mani del popolo. Cherizier è stato anche intervistato nei giorni scorsi da Al Jazeera, ai cui reporter ha ribadito l’intenzione di opporsi al piano CARICOM, per poi annunciare il passaggio alla seconda fase della lotta, ovvero il “rovesciamento dell’intero sistema”, dove “il cinque per cento delle persone controlla il 95 per cento della ricchezza del paese”.

Le gang haitiane hanno da tempo legami con esponenti di spicco della politica haitiana, come gli stessi Moïse e Henry, e con le élites economiche dell’isola. Gli spazi che stanno trovando oggi nel paese caraibico sono evidentemente un atto d’accusa gigantesco sia contro i leader indigeni sia contro le potenze straniere che tradizionalmente controllano e indirizzano a seconda dei loro interessi le vicende di Haiti. Le violenze in corso vengono in ogni caso sfruttate per introdurre un nuovo contingente militare estero, la cui legittimazione deriva appunto dall’apparente unità che dovrebbe esprimere il “Consiglio Presidenziale” in fase di formazione.

Gli scrupoli degli Stati Uniti e dei loro alleati non hanno com’è ovvio nulla a che vedere con la catastrofe umanitaria di Haiti, anche perché sono essi stessi i primi responsabili della tragedia di questo paese. Le ragioni che spingono Washington a intervenire con urgenza e per l’ennesima volta sono molteplici. Una di esse è il timore che il precipitare di una situazione già pesantissima causi una nuova ondata di profughi verso i confini americani. Le autorità statali della Florida, infatti, hanno già fatto sapere di essere pronte a mobilitare centinaia di agenti di sicurezza in previsione dell’arrivo di haitiani disperati in fuga dalle violenze nel loro paese.

Legato a questo rischio c’è poi quello della possibile destabilizzazione di tutta l’area caraibica, a cominciare dalla Repubblica Dominicana che condivide con Haiti l’isola di Hispaniola, tradizionalmente considerata, assieme al resto dell’America Latina, il “cortile di casa” di Washington. Il collasso definitivo dell’autorità dello stato a Haiti rappresenterebbe infine una nuova inaccettabile umiliazione per gli USA, assestando un altro colpo alla credibilità internazionale di un impero in rapido declino. Tanto più alla luce della crescente penetrazione cinese in Centro e Sudamerica, nonché in presenza di crisi, come quella ucraina e mediorientale, che già stanno creando serissimi problemi sia d’immagine sia di natura strategica agli Stati Uniti.

In attesa di sviluppi circa il piano di “transizione” politica, gli scontri tra le gang e le forze dell’ordine proseguono quotidianamente, con queste ultime che starebbero cercando di strappare alle prime il controllo del principale porto della capitale, chiuso alle normali attività ormai da oltre dieci giorni. Sul fronte umanitario, invece, nel fine settimana il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU ha diffuso alcuni dati che danno una qualche idea dell’emergenza. Il numero totale dei profughi interni causati dalla crisi ha toccato quota 360 mila, oltre 4 milioni di haitiani, su una popolazione di 11 milioni, vivono in una situazione di incertezza alimentare e 1,4 milioni sono “a un solo passo dalla carestia”.

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