L’assassinio del presidente haitiano di fatto, Jovenel Moïse, rischia di diventare un nuovo acceleratore della prolungata crisi politica e sociale che sta attraversando l’isola caraibica. I mandanti dell’operazione restano ancora sconosciuti, ma, nonostante lo strapotere delle gang criminali, è difficile pensare a un’iniziativa non collegata a elementi di potere, forse anche all’interno dello stesso stato haitiano. In attesa di maggiori elementi relativi ai fatti di mercoledì notte, il più povero dei paesi dell’emisfero occidentale è piombato in un pesantissimo stato di emergenza, con le fazioni della classe dirigente in aperto conflitto per assicurarsi il controllo del potere in vista di una controversa consultazione elettorale, fortemente voluta dallo stesso Moïse e appoggiata dal governo americano.

 

La polizia di Haiti ha fatto sapere giovedì di avere arrestato sei sospettati, mentre altri quattro sarebbero morti negli scontri a fuoco che avevano caratterizzato la giornata di mercoledì. Uno dei fermati sarebbe un cittadino americano di origini haitiane, identificato col nome di James Solages. Almeno anche un altro sotto custodia sarebbe un haitiano-americano. Il cervello dell’operazione è invece ancora ricercato dalla polizia. La notizia è stata data alla stampa dal capo della polizia, Léon Charles, anche se non sono state fornite informazioni circa le prove a loro carico. Com’è noto, gli appartenenti al commando che si è introdotto nell’abitazione di Moïse nel quartiere benestante di Pétionville a Port-au-Prince sono stati sentiti parlare inglese e spagnolo e si sono identificati falsamente come agenti dell’agenzia antidroga americana (DEA).

La prima e più evidente considerazione riguarda il modus operandi degli assassini e il contesto del blitz. Il lavoro sembra avere richiesto un livello non indifferente di preparazione. Alcuni testimoni hanno sostenuto addirittura di avere visto dei droni sorvolare la zona dove risiedeva Moïse, mentre altri hanno sentito esplosioni di granate. L’area ospita per lo più ville recintate e la strada principale che la collega al resto della città è solitamente pattugliata da forze di sicurezza. Mercoledì, invece, dopo che l’attacco è stato portato a termine senza impedimenti, sono passate molte ore prima dell’intervento della polizia, durante le quali giornalisti e persone comuni hanno avuto libero accesso all’area teatro dei fatti.

Il defunto presidente Moïse si spostava inoltre con una scorta massiccia e a guardia della sua abitazione c’erano o avrebbero dovuto esserci regolarmente un centinaio di agenti. Moïse aveva tuttavia denunciato in più occasioni minacce alla sua persona e circolavano voci allarmate sull’insufficienza delle misure di protezione del presidente. Anche per i livelli di criminalità e violenza di Haiti, in ogni caso, le circostanze dell’assassinio sollevano molti dubbi su possibili contatti ad alto livello, fuori o dentro il paese, degli esecutori materiali.

Le manovre politiche di Jovenel Moïse avevano da tempo generato tensioni e un vasto movimento di protesta contro le sue tendenze autoritarie. Il suo mandato presidenziale era scaduto il 7 febbraio scorso, ma era rimasto in carica sostenendo di avere diritto ad altri dodici mesi per via della disputa che aveva caratterizzato le elezioni, tenute tra il 2015 e il 2016. Il voto si era svolto una prima volta nell’ottobre del 2015, ma era stato poi annullato a causa di brogli macroscopici e alla fine ripetuto nel novembre dell’anno successivo.

Anche se la ripetizione delle elezioni era stata segnata ugualmente da irregolarità e da un’affluenza irrisoria, Moïse era stato dichiarato ancora una volta vincitore. A suo dire, il mandato era iniziato solo dopo la proclamazione seguita alla seconda consultazione, nel febbraio 2017, poiché nei mesi dopo il voto annullato era al potere un governo provvisorio. Riferendosi a quanto stabilito dalla Costituzione in caso di elezioni contese, la Corte Suprema e il Consiglio Superiore della Magistratura haitiane avevano però respinto questa interpretazione.

Dal febbraio di quest’anno, visto il rifiuto di Moïse a farsi da parte, erano esplose proteste oceaniche in tutta Haiti. Non solo, il presidente aveva anche sospeso il parlamento al termine della legislatura nel gennaio dello scorso anno e da allora aveva governato “per decreto”, creando una dittatura presidenziale di fatto. Arresti di oppositori, giudici e presunti complottisti hanno poi contribuito a infiammare la situazione nel paese, mentre altri provvedimenti autoritari sono rapidamente seguiti, come la creazione di una vera e propria agenzia di intelligence al servizio del presidente o un provvedimento sull’antiterrorismo che mette fuori legge le normali manifestazioni di protesta.

Qualche giorno prima della sua morte, Moïse aveva fissato per il 26 settembre prossimo un referendum costituzionale con ogni probabilità illegale e originariamente previsto per la fine di giugno. Secondo la Costituzione haitiana, le modifiche alla carta sono competenza del parlamento, ma Moïse aveva indetto ugualmente un referendum, poiché l’assemblea legislativa risulta sospesa dall’inizio del 2020. Con questa consultazione, da tenere assieme alle elezioni presidenziali e legislative, Moïse intendeva rafforzare la carica di presidente, portando a due il numero massimo di mandati consecutivi, eliminando la carica di primo ministro e passando a un parlamento unicamerale.

Il senso della riforma proposta, peraltro non ancora pubblicata nella lingua creola parlata dalla grande maggioranza degli abitanti di Haiti, era appunto di smantellare le garanzie istituite dalla Costituzione approvata nel 1987 al termine della sanguinosa dittatura della famiglia Duvalier. Le origini politiche di Moïse, ex imprenditore nel settore dell’export delle banane, si rifanno precisamente agli ambienti dell’ex regime haitiano. La sua carriera politica era decollata grazie all’ex presidente e suo predecessore, nonché protetto della famiglia Clinton, Michel Martelly, notoriamente legato ai Duvalier e ai famigerati squadroni della morte dei tempi del regime (“Tonton Macoutes”).

Lo scontro politico e l’esplosivo clima sociale, alimentato anche dalla cronica crisi economica e dalla povertà dilagante, hanno fatto aumentare drammaticamente i livelli di criminalità. In particolare si è registrato il proliferare di bande spesso collegate a uomini di potere o a ricchi imprenditori haitiani, che le utilizzano come strumento di controllo sociale. Lo stesso Moïse sembrava esserne implicato, come ha dimostrato un rapporto pubblicato ad aprile dall’università di Harvard. Lo studio aveva rivelato come tre massacri condotti da gang criminali tra il 2018 e il 2020 in altrettanti quartieri poveri di Port-au-Prince – La Saline, Bel-Air e Cité Soleil – fossero stati “pianificati o favoriti con armi, denaro e veicoli” da membri di primo piano dell’amministrazione del presidente Moïse. Complessivamente, nelle tre stragi furono uccisi almeno 240 civili.

In questi ambienti criminali potrebbero essere forse individuati anche i responsabili dell’assassinio del presidente. Alcuni commentatori hanno ricordato che più di un’iniziativa di legge di Moïse aveva creato malumori in quelle fazioni dell’oligarchia haitiana ostile al presidente, come ad esempio nel business dell’elettricità. Anche dentro al suo partito (“Tèt Kale”) erano emerse resistenze alle riforme costituzionali, così come tra quei membri del parlamento che potrebbero perdere i loro seggi in seguito all’unificazione di Camera e Senato.

A livello generale, è innegabile che la figura di Jovenel Moïse fosse diventata tossica agli occhi di molti ad Haiti e all’estero, soprattutto tra quei governi che tradizionalmente esercitano una forte influenza sull’isola, a cominciare da quello di Washington. La sua capacità di tenere sotto controllo una popolazione oppressa e ultra-sfruttata sembrava essere sul punto di dissolversi assieme alla credibilità di un metodo di governo sempre più autoritario. Il referendum costituzionale e le elezioni presidenziali erano considerate una tappa decisiva per riportare la calma ad Haiti, sia pure con un colpo di mano autoritario, ma la tenuta dell’amministrazione Moïse appariva ormai sempre più in dubbio.

Il futuro anche immediato di Haiti resta ora incertissimo. Gli Stati Uniti hanno già offerto la loro assistenza, ma, alla luce dei precedenti storici, la proposta suona come una seria minaccia per la popolazione haitiana. Lo stesso quadro politico e istituzionale, che dovrebbe garantire una qualche continuità, risulta estremamente confuso e la precarietà della situazione è accentuata dallo stato di emergenza che assegna quasi pieni poteri alle forze di sicurezza.

Il primo ministro, Claude Joseph, si è auto-assegnato in fretta il ruolo di guida del paese dopo il decesso di Moïse, ma la mossa non appare del tutto legittima ed è già oggetto di una dura contesa. Secondo la Costituzione haitiana, in caso di morte o incapacità del capo dello stato, è il presidente della Corte Suprema a farne le veci. Quest’ultimo è però deceduto per COVID nel mese di giugno. A scegliere il nuovo presidente dovrebbe essere poi l’Assemblea Nazionale, ma il mandato della camera bassa è appunto scaduto da un anno e mezzo, così come quello dei due terzi dei membri del Senato.

Questa situazione eccezionale ha spinto Joseph a prendere l’iniziativa, ma anche la sua posizione risulta molto dubbia. Un paio di giorni prima di morire, Moïse aveva nominato un nuovo capo del governo, il suo fedelissimo Ariel Henry, ma quest’ultimo non aveva ancora prestato giuramento e non è perciò ancora ufficialmente in carica. Per Joseph, ciò legittimerebbe le sue azioni, mentre Henry ha contestato apertamente questa interpretazione.

Serissimo resta infine il rischio di nuove ingerenze esterne per stabilizzare la situazione di Haiti. Un editoriale del Washington Post ha tempestivamente promosso mercoledì un intervento che dovrebbe coinvolgere paesi e organizzazioni con la maggiore influenza, come USA, Francia, Canada e OSA (Organizzazione degli Stati Americani), in modo da evitare un tracollo di ciò che resta delle istituzioni dell’isola.

Il ricordo tra gli haitiani del più recente evento di questo genere, ovvero la missione ONU (“MINUSTAH”) sotto il comando brasiliano, è drammaticamente segnato da operazioni violente e da una rovinosa epidemia di colera. Lo stesso dicasi per la presenza militare americana, oltretutto legata anche all’ultimo presidente assassinato ad Haiti prima di Moïse. Nel 1915, la brutale uccisione dell’allora presidente Jean Vilbrun Guillaume Sam fu seguita dall’invasione degli Stati Uniti, che avrebbero occupato il paese addirittura fino al 1934.

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