di Eugenio Roscini Vitali

Anche se mai abbastanza, del Darfur si parla ormai tutti i giorni. Si sa che il conflitto ha avuto ufficialmente inizio a Golo, distretto di Jebel Marra, il 26 febbraio del 2003; che la prima azione militare dei ribelli risale al 25 febbraio 2002, quando i primi militanti del Fronte di liberazione del Darfur (FLD) attaccarono con successo un presidio militare dell’esercito sudanese; che dopo l’incursione dei ribelli ad al-Fashir del 23 luglio 2003, il governo, umiliato da una sconfitta, da il via libera ad un’orda di massacri e reprime la rivolta con la violenza. Si sa che la guerra vede di fronte i gruppi etnici Fur, Zaghawa e Masalit, popolazione originarie del Darfur che si oppongono alla politica di islamizazione imposta dal governo sudanese e i Janjaweed, miliziani arabi appartenenti alle tribù nomadi dei Baggara, appoggiati ed armati dalle truppe di Khartoum. Che le prime rivolte, arginate dall’intervento dei Janjaweed, scoppiano tra il 1996 e il 1999 e vedono coinvolti i Masalit; che i Janjaweed, per le violenze rivolte sistematicamente contro i civili, sono stati accusati dalla comunità internazionale di crimini contro l’umanità. Che dopo oltre quattro anni di guerra le stime parlano di circa 400 mila vittime e più di 2 milioni di rifugiati. Si sa che i principali gruppi antigovernativi sono l'Esercito di Liberazione del Sudan (SLA) e il Movimento per la giustizia e l'uguaglianza (JEM). Ma chi ha dato vita alla lotta armata in Darfur? Chi è che ha ispirato la resistenza delle popolazioni non arabe del Sudan occidentale? Chi ha capito per primo che l’islamizzazione del Paese non avrebbe attenuato le tensioni e le disuguaglianze che per secoli avevano diviso le regioni del Nord dalla periferia? Chi ha saputo percepire che in Sudan si stava realizzando una micidiale combinazione di opportunismo politico e scontro etnico fra popolazioni arabe e africane? La risposta arriva da un articolo firmato da El-Tahir El-Faki, segretario generale del Consiglio direttivo del JEM, il quale racconta la vita di Daoud Boulad, il leggendario rivoluzionario che con la sua militanza e il suo sacrificio ha saputo galvanizzare e trasformare le coscienze delle popolazioni del Darfur. Nella sua anali, pubblicata dal quotidiano online Sudan Tribune, El-Faki parla di come Boulad abbia combattuto l’emarginazione e abbia guidato l’insurrezione contro la tirannia e la corruzione.

Daoud Boulad nasce in Darfur nei primi anni 50’. Dopo aver studiato il Corano e aver acquisito le nozioni fondamentali del saper leggere e scrivere, viene avviato alle scuole pubbliche. Come gran parte dei ragazzi della sua età, per continuare gli studi è costretto a lasciare i luoghi di origine e si trasferisce ad al-Fasher, capitale del Darfur settentrionale. Iscritto alla scuola statale, studia l’arabo, le materie scientifiche, la storia e la cultura islamica. Terminata l’istruzione secondaria, viene ammesso all’università di Khartoum e si unisce al “Movimento della fratellanza musulmana”, la massima organizzazione politico-religiosa dell’elite culturale sudanese.

Per chi non è di ceppo arabo, negli anni 70’ non è facile essere accettati nell’ateneo della capitale, ma Boulad, nonostante sia di origine Fur, riesce comunque nell’intento e, grazie alla sua carismatica personalità, nell’anno accademico 1973-74 viene eletto presidente dell’Unione studentesca. Parlando perfettamente la lingua araba, riesce a conquistare la fiducia dei compagni e a catturarne i loro sogni, attratti dalla sua eloquenza e dall’impeto dei comizi con i quali non esita ad attaccare il regime guidato da Giafar Muhammad Nimeiry, l’uomo politico sudanese che nel 1969 aveva deposto, con un colpo di Stato, l’ex presidente Isma'il al-Azhari.

Proprio per le sue idee antigovernative, Boulad subisce la persecuzione delle forze dell’ordine e viene più volte segregato nel carcere di Dabak, prigione a nord di Khartoum riservata ai dissidenti politici più pericolosi.

Durante uno dei numerosi periodi di isolamento, Boulad riesce ad evadere; una fuga che in seguito ispirerà i vertici del Fronte nazionale islamico (NIF) per giustificarne la morte. Terminati gli studi, lascia la capitale e fa ritorno in Darfur, dove vive e lavora fino al giugno del 1989, anno in cui il movimento islamico sale al potere. L’avvento del nuovo regime non genera l’attesa svolta politica ma, al contrario, la condotta dei compagni della Fratellanza musulmana, contraddice i valori in cui Boulad ha sempre creduto.

I nuovi padroni del Sudan monopolizzano il potere e godono di enormi privilegi economici, politici e sociali. Boulad è forse uno dei pochi a comprendere subito che questa forma di nazionalismo tende all’arabizzazione della regione e non può coesistere con l’idea di Islam.

Le lotte di potere coinvolgono gran parte dei membri del NIF, colpevoli di nepotismo, corruzione, complotti e dei peggiori crimini che portano alla tirannia, alla repressione e alla guerra civile. Boulad viene travolto da un senso di frustrazione e di emarginazione; gli eventi che stanno trasformando la nazione influiscono negativamente nel rapporto con gli anni di militanza e minano la fede politica per la quale aveva lottato in gioventù. Frustrato dal fatto che in Sudan il progetto islamico è ormai fallito, riprendere l’attività politica e si avvicina al movimento indipendentista del SPLM, l’organizzazione guidata da John Garang che lotta per l’autodeterminazione e per i diritti delle popolazioni del Sud Sudan.

Angosciato dallo stato di impotenza e nell’impossibilità di porre termine a questa catastrofica situazione, capisce che l’unica strada per aiutare il Darfur è quella della forza, già adottata dal braccio armato dell’SPLM, l’Esercito sudanese di liberazione (SPLA).

Non è chiaro come il SPLA possa aver ammesso tra le sue fila un ex appartenente alla Fratellanza musulmana, ma Boulad riesce comunque ad unirsi ai ribelli e ad essere addestrato al combattimento. Lui sa benissimo che in Darfur, per contrastare la tirannia e le angherie del Fronte islamico nazionale, deve nascere un’organizzazione armata che lotti per i diritti delle popolazioni non arabe.

Tra luglio e ottobre del 1990, al comando di un gruppo di uomini, entra nel Darfur occidentale. In quel periodo, governatore della regione è Al-tayeb Ibrahim Mohammed Kheir, detto 'Sikha', ex guardia del corpo di Boulad al tempo dell’università. Le forze di sicurezza sono perfettamente al corrente del passaggio dei ribelli attraverso il distretto di Jabal Marra e, approfittando dell’aiuto dei predoni del deserto, li attaccano. Boulad, costretto alla fuga, si rifugia nel villaggio di Dilaige, dove, a causa del tradimento degli stessi Fur, viene fatto prigioniero.

Il suo arresto viene seguito da una campagna diffamatoria che lo marchia come apostate e traditore dell’Islam convertitosi al Cristianesimo. Il presidente al-Bashir gli nega la possibilità di essere tradotto e giudicato a Khartoum, in quanto ritenuto persona non gradita, e tre giorni dopo il suo arresto il governo annuncia la sua morte. Ufficialmente Boulad viene ucciso durante un tentativo di fuga, uno scenario ispirato dalla sua precedente evasione dal carcere di Dabak; nessuno ha mai confermato i fatti e la verità reste ancora uno segreto custodito da al-Bashir, Altayeb Sikha e dalla giunta islamica.

Oggi Boulad viene ricordato come un grande eroe e, nel suo articolo, El-Tahir El-Faki parla di lui come un esempio per tutto il popolo del Darfur. El-Faki spiega che Boulad aveva voltato le spalle al NIF perchè il partito islamico non era più aderente alle idee di giustizia ed eguaglianza che ne avevano ispirato i principi. La sua ribellione non è mai stati diretta contro l’Islam o la religione ma contro l’uso della religione come argomento per giustificare la corruzione e i privilegi di una minoranza che ha schiacciato i diritti di un popolo.

In Sudan si sta consumando uno dei più atroci conflitti del continente Africano, un’immane tragedia, un genocidio che Boulad aveva preannunciato, dove la violenza sembra diventata una scheggia impazzita che colpisce dentro e fuori dai campi profughi, dove i primi a pagare sono le donne e i bambini e dove il sangue degli innocenti ha ormai sporcato le mani di tutti.


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