di Fabrizio Casari

E’ ormai un anno che Fidel Castro ha ufficialmente ceduto le funzioni di governo ad una giunta guidata da suo fratello Raul e formata da cinque alti dirigenti di assoluto rilievo nel quadro politico dell’isola. Gli interrogativi che un anno fa la stampa e le cancellerie di tutto il mondo ponevano, riguardavano la possibilità o meno che il sistema riuscisse a continuare nel suo cammino o se, invece, l’uscita di scena di Fidel, per relativa che fosse, avrebbe aperto una situazione di caos nell’isola. Un interrogativo, quello sulle capacità di tenuta del sistema cubano, che si accompagnò all’incertezza circa le effettive condizioni di salute del lider maximo. Ci si domandava, infatti, se Fidel Castro sarebbe guarito o se, invece, gli sforzi dei sanitari sarebbero risultati vani. In questa possibilità molti ci avevano sperato, è noto. La maggior parte di essi risiedono a Miami, salvo alcuni supporters europei allocati a macchia di leopardo tra Praga, Madrid e Roma. In Florida, dove da quaranta noiosi anni la morte di Fidel è annunciata ogni giorno prima e dopo i pasti, si erano scatenati caroselli di macchine con a bordo la feccia della città. Avvoltoi senza ali, adagiati nella lunga ombra di morte accucciata sotto le bandiere della FNCA, la Fundaciòn Nacional Cubano Americana, cioè l’agglomerato di mafiosi ed affaristi che, dagli Usa e con l’aiuto del governo Usa, finanziano e sostengono le attività terroristiche contro Cuba. E invece no. Fidel non è tornato sul ponte di comando con funzioni operative, ma gode di buona salute e la sua influenza politica é intatta. E soprattutto Cuba gode di buona salute. Il temuto rischio di un ribaltamento dell’ordine interno si è rivelata una ipotesi scolastica, di quelle fatte a tavolino da presunti esperti che analizzano presunti scenari e addivengono a presunte conclusioni, per generare sicuri errori.

L’equazione che in molti ambienti diplomatici e mediatici internazionali veniva svolta, corrispondeva ad un teorema tutto politico che vede un paese in preda ad un controllo poliziesco ed un gruppo dirigente in lotta al suo interno per la successione. La conseguenza in divenire era quindi semplice: se il sistema si tiene solo con il carisma personale di Fidel, la sua uscita di scena produrrà lo sgretolameno del cemento sociale che lo sostiene, la lotta aperta all’interno della elite politica e, di conseguenza, nel caos che si genererebbe, la rivolta sociale e politica di massa chiuderebbe la storia del socialismo cubano. A questo fantasioso quanto (da alcuni) auspicato scenario, prevedeva poi una subordinata, avente per oggetto la modalità - pacifica o violenta - della crisi del sistema, sempre definita, per educazione lessicale, “transizione democratica”.

Niente di tutto ciò é avvenuto. E’ evidente che Cuba è molte cose, quasi tutte ignare a chi non perde occasione per dipingerla come vorrebbe che fosse. Il fatto è che, un anno dopo il parziale ritiro di Fidel, il Paese vive una situazione di stabilità e calma generale. Il gruppo dirigente, nominato dallo stesso Fidel il 31 Luglio dello scorso anno, è unito. Sono state approvate riforme e norme generali riguardanti la lotta alla corruzione e agli sprechi che, a detta di molti osservatori, hanno ulteriormente ampliato il livello – già alto - del consenso. Le campagne anticorruzione si sono intensificate, le leggi vengono applicate con maggior rigore ed alcuni dirigenti riconosciuti colpevoli di corruzione o inefficienza sono stati sostituiti.

Contemporaneamente e è entrato in vigore un nuovo codice del lavoro destinato ad aumentare l’efficienza nelle imprese statali. Lo Stato ha deciso di saldare il debito contratto con gli agricoltori e l'aumento dei pagamenti per la produzione agricola, problema di non poco conto nell'economia cubana. Se proprio si vuole incontrare una novità profonda, la si può positivamente riscontrare nel progetto a breve-medio termine di una inchiesta sulle proprietà nell’isola. Una commissione multidisciplinare avrà il compito di analizzarla e di presentare proposte di riforme.

Si deve tener conto che Raul Castro é forte dell'esperienza di gestione economica delle imprese di proprietà dell'esercito, la cui efficienza é ampiamente riconosciuta, anche solo relativamente ad altre gestite da settori diversi. E’ possibile che si aprano spazi per ipotesi riformatrici del sistema indirizzate verso una maggiore produttività che potrebbe arrivare a generare aperture economiche. Ma è chiaro che il cammino sarà tranquillo e condiviso, come già avvenne per le riforme economiche della fine degli anni ’90. Si faranno lentamente, discusse e decise da tutto il paese, misurando ogni passo e senza provocare traumi sociali. Anche per quanto riguarda la politica estera non si sono registrate flessioni o riduzioni d’influenza; il protagonismo dell’isola sulla scena internazionale è stato di primissimo piano.

L’Amministrazione Bush sostiene che a Cuba “non è cambiato niente” e che solo una “transizione democratica” genererebbe un cambio profondo sull’isola. Ma questa è un’aspirazione di Washington che a L’Avana non è sentita. Lontano da qualunque ipotesi di cambio di regime politico, Fidel invece è riuscito a disegnare la successione al suo ruolo, l’unica transizione che voleva. A Washington dovranno quindi rassegnarsi ancora una volta. E magari prepararsi a vedere la scena di un altro presidente statunitense che aveva garantito la fine della rivoluzione nell’isola e che invece, come i suoi predecessori, da Kennedy a oggi, lascerà la Casa Bianca con il socialismo cubano che, a sole novanta miglia dalle sue coste, continua impertinente la sfida.

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